domenica 23 aprile 2017

libri


«Il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta. Il coltello viene inventato prestissimo, la bicicletta assai tardi. Ma per tanto che i designer si diano da fare, modificando qualche particolare, l'essenza del coltello rimane sempre quella. Ci sono macchine che sostituiscono il martello, ma per certe cose sarà sempre necessario qualcosa che assomigli al primo martello mai apparso sulla crosta della terra. Potete inventare un sistema di cambi sofisticatissimo, ma la bicicletta rimane quella che è, due ruote, una sella, e i pedali. Altrimenti si chiama motorino ed è un'altra faccenda.
L'umanità è andata avanti per secoli leggendo e scrivendo prima su pietre, poi su tavolette, poi su rotoli, ma era una fatica improba. Quando ha scoperto che si potevano rilegare tra loro dei fogli, anche se ancora manoscritti, ha dato un sospiro di sollievo. E non potrà mai più rinunciare a questo strumento meraviglioso. La forma-libro è determinata dalla nostra anatomia».
Questo scriveva Umberto Eco in una delle sue celebri “Bustine di Minerva” proprio all’inizio del millennio. Aveva torto. Oggi tutti noi sperimentiamo che il “libro” non coincide più necessariamente con un manufatto cartaceo. A me capita spesso di non ricordare se ho letto un “libro” sull’e-reader, sul pc da tavolo, sul tablet o sulla carta. Come Bobbio, che non immaginava la possibilità tecnica di poter esprimere un parere “politico” con un click (cosa che, dal suo punto di vista, avrebbe reso evidentemente praticabile l’utopia della democrazia diretta), così Eco non immaginava le possibilità evolutive della forma “libro”, capace di transitare, partendo dalla pietra, passando per altri supporti come papiro, pergamena e carta, nella dimensione immateriale.
Anche per questo, due anni fa ho scelto di rinunziare al libro di testo nelle mie discipline, accettando la sfida di una scuola quasi integralmente digitale. Per me, cresciuto nell’amore fisico, tattile e olfattivo per il “libro” di carta è stato un passaggio arduo ma pur necessario.
Rimane aperta la sfida irrisolta della mia vita: mettere ordine nelle mie terre libresche... Scisso tra una casa cittadina dove c’è spazio solo per pochi testi essenziali (e non ancora digitalizzati) e una capiente in campagna, penso spesso con sofferenza ai cinquemila volumi che dimorano a San Cumano, in precario ordine. Prima o poi riuscirò a sanare questa lacerazione e a mettere ordine nelle mie terre!
Seconda sfida (persa in partenza): archiviare in maniera ordinata e utilizzabile le migliaia di “libri” digitali accumulatisi negli anni.
Nella Giornata mondiale del libro raddoppierò il lavoro, sapendolo vana fatica. Ma ben venga. Non è accumulazione seriale e compulsiva. I libri ci aspettano. Aspettano l’attimo propizio in cui il nostro incontro diventa necessario. È importante, dunque, che essi siano pronti per quest’attimo assoluto e trasformativo.

domenica 16 aprile 2017

Pasqua 2017


Saremo coscienti della nostra santità
Che matura mentre sviluppiamo
Le nostre verghe e i centri essenziali,
I nostri rami e le foglie benedette
Sul margine oltre la vostra portata;
Commenteremo la grossezza
Delle nostre radici,
Radici stupende
Perché nascoste sotto la corteccia
Del nostro charme.
Dateci il gusto del rimpianto.
Le nostre lacrime suonano più assennate
Che la nostra allegria all’aria
O al giallo fanello che non la merita.
Saremo coscienti della nostra
Divinità, quando è l’ora:
Senza vergogna ma senza esultare,
Rendendo saldi i nostri affetti;
Vi legheremo
A un solo senso di finalità
Come una caverna con un unico filo.
Sotto quest’ombra
Accorre il martinpescatore
E l’uccello d’acqua dolce
Dal becco roseo,
Ma noi non gli badiamo,
Aspettando, aspettando,
Aspettando l’uccello che dirà
«Sono venuto a sollevarvi,
A segare le vostre radici
Per farvi liberare».
Allora ci alzeremo
Su larghe ali
Ed entreremo nell’aria
Scavando verso l’alto nell’azzurro del cielo.
Quest’ombra
Ha la libellula e il pescespada
Fendendo ciascuno i propri carici,
E la lontra
Che striscia felina sott’acqua
Dando la mano alla sirena.
Saremo coscienti
Della nuova regione che si schiude
Nella nuvola cieca sopra le nostre teste:
Saremo coscienti d’una gran divinità
E di una totale sanità.

[Dylan Thomas, Saremo coscienti della nostra santità (1930), trad. it. di Ariodante Marianni, in Poesie e racconti, nuova edizione italiana a cura di Ariodante Marianni, Torino, Einaudi, 1996]

We will be conscious of our sanctity
We will be conscious of our sanctity
That ripens as we develop
Our rods and substantial centres,
Our branches and holy leaves
On the edge beyond your reach;
We will remark upon the size
Of our roots,
Beautiful roots
Because they are under the surface
Or our charm.
Give us the pleasure of regret;
Our tears sound wiser
Than our laughter at the air
Or the yellow linnet who does not merit it.
We will be conscious of our divinity
When the time comes
Unashamed but not with delight,
Making our affections fast;
We will tie you down
To one sense of finality
Like a cave with one thread.
Under this shade
The kingfisher comes
And the fresh-water bird
With his pink beak,
But we do not concern ourselves,
Waiting, waiting,
Waiting for the bird who shall say,
‘I have come to elevate you,
To saw through your roots
And let you float.’
Then we will rise
Upon broad wings
And go into the air,
Burrow our way upwards into the blue sky;
This shade
Has the dragonfly and the swordfish
Cleaving their own sedges,
The otter
Hand in hand with the mermaid
Creeping catlike under the water.
We will be conscious
Of a new country
Opening in the blind cloud over our heads;
We will be conscious of a great divinity

And a wide sanity.

giovedì 13 aprile 2017

il lavoro po/etico di Franco Arminio


Ieri il mio amico Franco Arminio è tornato a Benevento per parlare del suo ultimo libro, primo vero libro di poesie (Cedi la strada agli alberi, Chiarelettere, 2017).
È stata una serata “corale”, guidata da un bravo direttore d’orchestra che ha fatto emergere le vite di molti dei presenti o i loro doni spesso nascosti. Io ho parlato del lavoro meritorio di Franco nel creare «microcomunità di senso». La poesia deve essere, nella transizione faticosa che l’intera umanità sta vivendo, anche, soprattutto questo. Deve avere un afflato “religioso”.
Per l’occasione pubblico sul blog le note che scrissi per un incontro a Vitulano di qualche anno fa.



Premessa

Non cercherò di spiegare cosa sia la “paesologia”. Lo farà Arminio, inventore di questa nuova disciplina che è un modo di stare al mondo, fortemente radicato nelle terre appenniniche. Cercherò, invece, di collocare il lavoro di Franco all’interno di un processo più ampio, talvolta “traducendo” le sue intuizioni poetiche in altri linguaggi, non essendo io un “paesologo” ma tutt’al più un “georgologo” e soprattutto un insegnante di storia e filosofia. Pur tenendo conto dell’insieme delle sua opera, mi baserò soprattutto su Terracarne e su Stato in luogo, raccolta di poesia “paesologiche”, per un mio personale bisogno di far sempre riferimento ad opere circoscritte.

1.        Intimamente poeta

E mi pare opportuno partire da qui: dalla poesia. Franco Arminio nasce poeta e tale rimane. E non perché scriva poesie, tante, anche se poche poi vengono pubblicate, ma perché il suo rapporto con la lingua è di tipo poetico. E questo perché il suo rapporto col mondo è di tipo poetico. Non mi addentro in una discussione complessa sulla differenza fra prosa e poesia. In ogni caso, dopo Rimbaud e dopo il Novecento e poeti come René Char è impossibile pensare alla poesia come tecnica, fatta necessariamente di rime, versi, strofe ecc. La poesia è uno sguardo peculiare sul mondo che si traduce in una scrittura in cui le cose, più che essere raccontate vengono fatte accadere o riaccadere. Arminio scrive della paesologia come una disciplina tra etnologia, sociologia e poesia. Di qui l’indefinibilità dei suoi libri, che, dunque, si collocano accanto a quanto di meglio la “narrativa” contemporanea a prodotto, opere ibride, a cavallo di più generi, con un forte intento parenetico. Per fare due esempi lontani tra loro e da Arminio ma emblematici di questa ibridazione di generi: Saviano e Coetzee. Dicevo “parenetico” per alludere ad un’urgenza che traspira dalle pagine di Arminio: quella di indurre una trasformazione nella percezione del mondo nei suoi lettori. Tornerò su questo, che dal mio punto di vista è il cuore del problema odierno.

2.       Piccola genealogia

Allarghiamo lo sguardo. Dove si può collocare quest’opera in un’ideale storia poetica? Io direi che padre nobile di questa tradizione è Pier Paolo Pasolini, che per primo in Italia denunziò il fallimento della modernizzazione consumistica già negli anni Sessanta, che distruggeva la cultura contadina sostituendola con una sottocultura egemonizzata dai rituali delle merci e di quello che Arminio in maniera pregnante definisce “autismo corale”, i cui santuari sono gli iper-mercati. È stato distrutto in questo modo ciò che Arminio definisce “mastice comunitario”.
Più nell’immediato io collocherei l’opera di Arminio in una generale presa di coscienza degli intellettuali meridionale che ha nell’uscita de Il pensiero meridiano di Franco Cassano, alla metà degli anni Novanta, la prima emersione importante, per poi trovare altri due momenti preziosi nella rilettura della storia meridionale (come non pensare a Pino Aprile?) e alla creazione del Centro per la documentazione del poesia del Sud ad opera di persone che Franco ben conosce, Paolo Saggese e Peppino Iuliano, che stanno facendo una doverosa battaglia per la valorizzazione della poesia meridionale. Attenzione: rivendicare il Sud, il Mezzogiorno, la dimensione meridiana significa tutt’altro che chiudersi in un ghetto, fare razzismo al contrario. Significa scoprire, dopo decenni di colonizzazione anche culturale, la propria differenza. Iniziare a pensarsi con la propria testa o, meglio, con la propria carne… Come scrive Arminio: «Non dobbiamo riempirci la testa dei pensieri degli altri, dobbiamo raccontare i nostri» (Terracarne, p. 33).
Allargando lo sguardo all’intero ventesimo secolo, collocherei l’opera di Arminio in quella che felicemente Bruno Arpaia ha definito “sinistra reazionaria”, ricostruendone la genealogia in un libretto tanto denso quanto poco assimilato. Ecco, collocherei Franco accanto alla Weil e a Camus, a Bataille e Latouche (su cui torneremo). Tutti intellettuali e scrittori attenti ai grandi valori della cosiddetta “sinistra”, ma consapevoli della illusorietà del progresso, e persuasi che il vero lavoro da fare nel futuro fosse quello di togliere, non di aggiungere, di semplificare, di rallentare, di fare silenzio.

3.       La “paesologia” come fenomenologia

La paesologia, come dicevo, è una fenomenologia: bisogno, attraverso uno costante esercizio dello sguardo, fare in modo che le cose si rivelino «per quello che sono», liberate da impalcature dettate non solo dallo scontento quanto soprattutto da quel mondo di ombre costruito artificialmente dall’immaginario televisivo. Contro il “vedere” da lontano (la “televisione”) bisogna esercitare il “vedere” da vicino, contro l’eterno presente e l’eterno ritorno dei fantasmi catodici bisogna rivendicare la creaturale caduta nel tempo, la mortalità delle cose che abitiamo nel nostro quotidiano.

4.       Il viaggiatore ipocondriaco

Arminio si definisce in una bella poesia «viaggiatore ipocondriaco che porta in giro la sua morte». In questi versi sono racchiuse parole chiave del suo mondo poetico. Il viaggio, prima di tutto, mai alla ricerca dell’esotico, dello straordinario, mai per vie note, dunque un viaggio strutturalmente opposto a quelli cui siamo abituati, fatti di pacchetti preconfezionati, di luoghi ed eventi “da vedere” e fotografare. L’ipocondria è in qualche modo la felix culpa di Arminio, una paura capace di generare il bisogno di “evadere” dal proprio corpo, dall’osso della testa e annullarsi nel mondo, nel puro esistere delle cose. Sarebbe possibile la paesologia senza questa patologia? Ci tornerò dopo… In un’altra poesia scrive Arminio: «Dunque mi sono dedicato alla morte e alla poesia». La paura della morte, connessa all’ipocondria è l’altro motore potente generatore di movimenti, sguardi, parole. D’altronde, in funzione di esorcismo è stato scritta un’operetta dolorante e commovente come Cartoline dai morti… Una Spoon River prosaica e dolente. Seguire la vita morta dei paesi, farsene cronista, significa fare i conti quotidianamente con la propria morte, come se davvero la terra divenisse carne. Qui si annida secondo me la possibilità, per così dire, evolutiva della scrittura di Arminio, constatando lui stesso che una certa modalità di paesologia pare giunta al termine, auspicandone lui stesso un’altra, di cui dirò dopo.

5.       Decolonizzazione dell’immaginario

Spesso Arminio allude alla decrescita conviviale. Sul “manifesto” ha scritto articoli mirabili sulla questione. Che condenso con questi versi mirabili:

fatti fummo
per il sacro e la poesia
non per l'ateismo
dell’economia.

Di solito di fronte ad affermazioni del genere si rivendica la concretezza del reale, le dure esigenze della sopravvivenza, come se gli oracoli che quotidianamente provengono dalle Borse non fossero una forma degenere di culto idolatrico. Guardate, queste cose non le dicono solo i poeti ma anche persone con i piedi ben piantati a terra… Sono fresco di lettura di un agghiacciante libro di Jared Diamond, premio Pulitzer, spirito pragmatico. Ebbene, in Collasso Diamond dice ce che se non modifichiamo il nostro stile di vita planetario faremo la fine dell’Isola di Pasqua o dei vichinghi della Groenlandia… Abbiamo tutti sotto gli occhi, molti patiscono nella carne il fallimento del modello capitalistico. Talmente grande, scrive Franco, che pare difficile immagine un altro modello di civiltà. Ebbene io credo che proprio questo sia il compito degli scrittori, soprattutto di quelli consapevoli come Arminio. Latouche, il più celebre teorico della decrescita, infatti, ritiene che la decolonizzazione dell’immaginario è decisiva nella direzione di una riduzione dei bisogni. Il capitalismo, infatti, ci ha reso degli indigenti cronici, come scriveva già Ivan Illich negli anni Sessanta, e dunque degli insoddisfatti e dei rancorosi. La lettura dei libri di Arminio è un esercizio di depurazione, di ecologia dell’immaginario, che guarisce dal mito del progresso, della crescita indefinita, dalla bulimia edilizia, dal tempo come tutto pieno…

6.       Una nuova religione?

Alla fine di Terracarne, Arminio immagina la nascita di una sorta di nuova religione, laica: la paesologia, dopo aver indagato il mondo, dovrebbe dargli sollievo… È evidente che Franco usa la parola “religione” nella sua etimologia, il latino “religare”. Si tratta, dopo l’atomizzazione sociale indotta dal capitalismo borghese, di ricreare un legame comunitario, depurato dagli aspetti più intollerabili delle “società chiuse”. Ma a me pare che, a parte questo significato più esplicito, ci sia davvero un respiro “sacro” che aleggia in certe pagine. Nel punto più alto del libro Arminio fa parlare il suo paese d’origine, Bisaccia, il suo Genius Loci, più antico di ogni nome, che rivendica la sua “lunga durata” millenaria. Mi pare che in quelle pagine Franco raggiunga una dimensione potentemente religiosa e sacrale, riuscendo a stabilire un legame con il mondo ctonio, quello dei morti, in un’accezione che non ha più nulla di ipocondriaco, ma intimamente “pietoso”, ricolmo di quella “pietas” che è rispetto dei morti, senso della continuità della loro vita nelle nostre. Il pius Arminius scrive in una poesia bellissima:

In cima al paese
Il silenzio è così forte
Che si sente la calma
Della nuvola
Che ha partorito la neve
Dentro le cantine.
Paese chiuso, verniciato dai fossili
Delle capre e dei muli.
Seduto sull’osso
Dove non cresce neppure la rovina.
Sono venuto qui a pregare
Oggi che il vento è così forte
E sparpaglia pure le ossa dei morti
Nelle bare.

È l’acquisizione di un respiro “cosmico”, millenario… Questa mi sembra la strada da percorrere per il futuro, per fare il modo che la paesologia da “resistenza”, come detto in un’altra magnifica poesia, si faccia ricostruzione, «comune pane spezzato dell’utopia».

7.       Filo-sofia

Per caso mentre leggevo o rileggevo Arminio, stavo completando uno straordinario libro di Hadot intitolato Che cos’è la filosofia antica?. Ebbene, mi ha impressionato ritrovare analogie tra le pratiche e gli esercizi tipici delle scuole filosofiche antiche e quanto emerge dai libri di Franco: la meditazione sulla morte, la ricerca di uno sguardo cosmico, la liberazione dal proprio io… Questo mi sembra punto decisivo, rispetto a cui l’esser poeta di Franco non è indifferente. Io credo infatti che la grande poesia, soprattutto del XX secolo, riprenda il progetto delle scuole sapienziali di liberarsi da un io egocentrato che ci impedisce di entrare in relazione con le cose. E, dunque, per andare alle cose è necessario liberarsi da quest’io:

delirate con calma, uscite
dal vostro corpo e più ancora
dalla vostra anima.
Siate felice per ogni attimo che la vita vi affida
Per ogni attimo in cui non ci sarete.

Davvero, nel tempo in cui i bisogni indotti, il nostro essere dei perenni affamati, ci incatena al nostro corpo e al nostro piccolo Io, questo è un programma rivoluzionario, che si integra alla decrescita conviviale e alla creazione di un nuovo legame sociale. L’io egocentrato è infatti il presupposto di quell’autismo corale denunziato da Arminio. Se l’io si libera dalla prigionia, dalla caverna in cui è rintanato, può riscoprire il mondo, nella sua terragna carnalità, e l’altro, il volto dell’altro.

8.       Conclusione

Chiudo. Franco Arminio ha “inventato” una modalità assolutamente inedita per raggiungere, questa la mia tesi, scopi antichissimi: la paesologia è un “farmaco” (medicina e veleno, come dicevano gli antichi) personale, è la proposta di una stile di vita, è un programma che può avere precise traduzioni politiche, può diventare una nuova “religione”. È evidente che non tutti possono percorrere questa viva. La condicio sine qua non per diventare “paesologi” è l’aver avuto il dono e la maledizione di nascere “paesani”. È, ad esempio, il dono chi è nato a Vitulano. A me, ad esempio, questa via è preclusa. Come accennavo all’inizio il mio dono è di aver sempre vissuto, dualmente, tra città, Benevento, e una meravigliosa campagna estiva… Cosa voglio dire? Che ciascuno di noi è tenuto a fare ciò che Arminio fa in maniera originale e peculiare. Si può seguire la sua strada, certo, ma anche altre strade, antichissime o tutte ancora da inventare. A me pare che l’importante sia conservare quegli elementi strutturali che ho cercato di far emergere dalla mia breve analisi. È importante cioè che ciascuna via contenga una poetica, cioè uno sguardo radicalmente nuovo sulla realtà (uno sguardo capace di essere cosmico ma anche capace, sciamanicamente, di identificarsi con il mondo animale), un’etica intimamente politica, cioè uno stile di vita (fondato sulla relazione comunitaria, sul dono, sulla cura) e sull’assunzione delle proprie responsabilità all’interno della comunità provvisoria di cui si è parte, una “religione”, una spiritualità che ci metta in contatto con una “trascendenza” (è indifferente che sia un Dio personale, un Logos cosmico, il mondo dei morti), annullando le pretese esorbitanti del nostro io egoico. L’elemento comune è quello della “cura”: l’uomo è pastore, non padrone… Noterete l’assenza dell’economia. Essa deve tornare ad essere una componente del sociale, altrimenti non solo collasserà la terra madre ma anche la nostra psiche malata. E, dunque, a tutti noi il compito di tracciare nuovi sentieri, a voi quello di salvare il vostro paese, Vitulano, l’Italia, nella consapevolezza che non siamo soli, che

La rivoluzione si fa con uomini e donne
E con gli umani si fa la gioia e pure la poesia.