È stata una serata “corale”,
guidata da un bravo direttore d’orchestra che ha fatto emergere le vite di
molti dei presenti o i loro doni spesso nascosti. Io ho parlato del lavoro
meritorio di Franco nel creare «microcomunità di senso». La poesia deve essere,
nella transizione faticosa che l’intera umanità sta vivendo, anche, soprattutto
questo. Deve avere un afflato “religioso”.
Per l’occasione
pubblico sul blog le note che scrissi per un incontro a Vitulano di qualche
anno fa.
Premessa
Non cercherò di spiegare cosa sia la
“paesologia”. Lo farà Arminio, inventore di questa nuova disciplina che è un
modo di stare al mondo, fortemente radicato nelle terre appenniniche. Cercherò,
invece, di collocare il lavoro di Franco all’interno di un processo più ampio,
talvolta “traducendo” le sue intuizioni poetiche in altri linguaggi, non
essendo io un “paesologo” ma tutt’al più un “georgologo” e soprattutto un insegnante
di storia e filosofia. Pur tenendo conto dell’insieme delle sua opera, mi
baserò soprattutto su Terracarne e su
Stato in luogo, raccolta di poesia
“paesologiche”, per un mio personale bisogno di far sempre riferimento ad opere
circoscritte.
1.
Intimamente poeta
E mi pare opportuno partire da qui: dalla
poesia. Franco Arminio nasce poeta e
tale rimane. E non perché scriva poesie, tante, anche se poche poi vengono
pubblicate, ma perché il suo rapporto con
la lingua è di tipo poetico. E questo perché il suo rapporto col mondo è di tipo poetico. Non mi addentro in una
discussione complessa sulla differenza fra prosa e poesia. In ogni caso, dopo
Rimbaud e dopo il Novecento e poeti come René Char è impossibile pensare alla
poesia come tecnica, fatta necessariamente di rime, versi, strofe ecc. La
poesia è uno sguardo peculiare sul mondo che si traduce in una scrittura in cui
le cose, più che essere raccontate vengono fatte accadere o riaccadere. Arminio
scrive della paesologia come una disciplina tra etnologia, sociologia e poesia.
Di qui l’indefinibilità dei suoi libri, che, dunque, si collocano accanto a
quanto di meglio la “narrativa” contemporanea a prodotto, opere ibride, a
cavallo di più generi, con un forte intento parenetico. Per fare due esempi
lontani tra loro e da Arminio ma emblematici di questa ibridazione di generi:
Saviano e Coetzee. Dicevo “parenetico” per alludere ad un’urgenza che traspira
dalle pagine di Arminio: quella di indurre una trasformazione nella percezione
del mondo nei suoi lettori. Tornerò su questo, che dal mio punto di vista è il
cuore del problema odierno.
2.
Piccola genealogia
Allarghiamo lo sguardo. Dove si può collocare
quest’opera in un’ideale storia poetica? Io direi che padre nobile di questa
tradizione è Pier Paolo Pasolini,
che per primo in Italia denunziò il fallimento della modernizzazione
consumistica già negli anni Sessanta, che distruggeva la cultura contadina
sostituendola con una sottocultura egemonizzata dai rituali delle merci e di
quello che Arminio in maniera pregnante definisce “autismo corale”, i cui
santuari sono gli iper-mercati. È stato distrutto in questo modo ciò che
Arminio definisce “mastice comunitario”.
Più nell’immediato io collocherei l’opera di
Arminio in una generale presa di coscienza degli intellettuali meridionale che
ha nell’uscita de Il pensiero meridiano
di Franco Cassano, alla metà degli
anni Novanta, la prima emersione importante, per poi trovare altri due momenti
preziosi nella rilettura della storia meridionale (come non pensare a Pino Aprile?) e alla creazione del Centro per la documentazione del poesia
del Sud ad opera di persone che Franco ben conosce, Paolo Saggese e Peppino Iuliano, che stanno facendo una doverosa battaglia per la
valorizzazione della poesia meridionale. Attenzione: rivendicare il Sud, il
Mezzogiorno, la dimensione meridiana significa tutt’altro che chiudersi in un
ghetto, fare razzismo al contrario. Significa scoprire, dopo decenni di
colonizzazione anche culturale, la propria differenza. Iniziare a pensarsi con
la propria testa o, meglio, con la propria carne… Come scrive Arminio: «Non
dobbiamo riempirci la testa dei pensieri degli altri, dobbiamo raccontare i
nostri» (Terracarne, p. 33).
Allargando lo sguardo all’intero ventesimo
secolo, collocherei l’opera di Arminio in quella che felicemente Bruno Arpaia ha definito “sinistra reazionaria”, ricostruendone
la genealogia in un libretto tanto denso quanto poco assimilato. Ecco, collocherei
Franco accanto alla Weil e a Camus, a Bataille e Latouche (su cui torneremo).
Tutti intellettuali e scrittori attenti ai grandi valori della cosiddetta
“sinistra”, ma consapevoli della illusorietà del progresso, e persuasi che il
vero lavoro da fare nel futuro fosse quello di togliere, non di aggiungere, di
semplificare, di rallentare, di fare silenzio.
3.
La “paesologia” come
fenomenologia
La paesologia, come dicevo, è una fenomenologia: bisogno, attraverso uno
costante esercizio dello sguardo, fare in modo che le cose si rivelino «per
quello che sono», liberate da impalcature dettate non solo dallo scontento
quanto soprattutto da quel mondo di ombre costruito artificialmente
dall’immaginario televisivo. Contro il “vedere” da lontano (la “televisione”)
bisogna esercitare il “vedere” da vicino, contro l’eterno presente e l’eterno
ritorno dei fantasmi catodici bisogna rivendicare la creaturale caduta nel
tempo, la mortalità delle cose che abitiamo nel nostro quotidiano.
4.
Il viaggiatore
ipocondriaco
Arminio si definisce in una bella poesia «viaggiatore
ipocondriaco che porta in giro la sua morte». In questi versi sono racchiuse
parole chiave del suo mondo poetico. Il viaggio,
prima di tutto, mai alla ricerca dell’esotico, dello straordinario, mai per vie
note, dunque un viaggio strutturalmente opposto a quelli cui siamo abituati,
fatti di pacchetti preconfezionati, di luoghi ed eventi “da vedere” e
fotografare. L’ipocondria è in
qualche modo la felix culpa di
Arminio, una paura capace di generare il bisogno di “evadere” dal proprio
corpo, dall’osso della testa e annullarsi nel mondo, nel puro esistere delle
cose. Sarebbe possibile la paesologia senza questa patologia? Ci tornerò dopo… In un’altra poesia scrive Arminio: «Dunque
mi sono dedicato alla morte e alla poesia». La paura della morte, connessa all’ipocondria è l’altro motore potente
generatore di movimenti, sguardi, parole. D’altronde, in funzione di esorcismo
è stato scritta un’operetta dolorante e commovente come Cartoline dai morti… Una Spoon River prosaica e dolente. Seguire la
vita morta dei paesi, farsene cronista, significa fare i conti quotidianamente
con la propria morte, come se davvero la terra divenisse carne. Qui si annida
secondo me la possibilità, per così dire, evolutiva della scrittura di Arminio,
constatando lui stesso che una certa modalità di paesologia pare giunta al
termine, auspicandone lui stesso un’altra, di cui dirò dopo.
5.
Decolonizzazione
dell’immaginario
Spesso Arminio allude alla decrescita conviviale. Sul “manifesto” ha scritto articoli mirabili
sulla questione. Che condenso con questi versi mirabili:
fatti
fummo
per
il sacro e la poesia
non
per l'ateismo
dell’economia.
Di solito di fronte ad affermazioni del genere
si rivendica la concretezza del reale, le dure esigenze della sopravvivenza,
come se gli oracoli che quotidianamente provengono dalle Borse non fossero una
forma degenere di culto idolatrico. Guardate, queste cose non le dicono solo i
poeti ma anche persone con i piedi ben piantati a terra… Sono fresco di lettura
di un agghiacciante libro di Jared
Diamond, premio Pulitzer, spirito pragmatico. Ebbene, in Collasso Diamond dice ce che se non
modifichiamo il nostro stile di vita planetario faremo la fine dell’Isola di Pasqua
o dei vichinghi della Groenlandia… Abbiamo tutti sotto gli occhi, molti patiscono
nella carne il fallimento del modello capitalistico. Talmente grande, scrive
Franco, che pare difficile immagine un altro modello di civiltà. Ebbene io
credo che proprio questo sia il compito
degli scrittori, soprattutto di quelli consapevoli come Arminio. Latouche,
il più celebre teorico della decrescita, infatti, ritiene che la decolonizzazione
dell’immaginario è decisiva nella direzione di una riduzione dei bisogni. Il
capitalismo, infatti, ci ha reso degli indigenti
cronici, come scriveva già Ivan
Illich negli anni Sessanta, e dunque degli insoddisfatti e dei rancorosi.
La lettura dei libri di Arminio è un esercizio di depurazione, di ecologia
dell’immaginario, che guarisce dal mito del progresso, della crescita
indefinita, dalla bulimia edilizia, dal tempo come tutto pieno…
6.
Una nuova religione?
Alla fine di Terracarne, Arminio immagina la nascita di una sorta di nuova religione,
laica: la paesologia, dopo aver indagato il mondo, dovrebbe dargli sollievo… È
evidente che Franco usa la parola “religione” nella sua etimologia, il latino
“religare”. Si tratta, dopo l’atomizzazione sociale indotta dal capitalismo
borghese, di ricreare un legame
comunitario, depurato dagli aspetti più intollerabili delle “società chiuse”.
Ma a me pare che, a parte questo significato più esplicito, ci sia davvero un
respiro “sacro” che aleggia in certe pagine. Nel punto più alto del libro
Arminio fa parlare il suo paese d’origine, Bisaccia, il suo Genius Loci, più antico di ogni nome, che
rivendica la sua “lunga durata” millenaria. Mi pare che in quelle pagine Franco
raggiunga una dimensione potentemente religiosa e sacrale, riuscendo a stabilire
un legame con il mondo ctonio, quello dei morti, in un’accezione che non ha più
nulla di ipocondriaco, ma intimamente “pietoso”, ricolmo di quella “pietas” che
è rispetto dei morti, senso della continuità della loro vita nelle nostre. Il pius Arminius scrive in una poesia
bellissima:
In cima
al paese
Il
silenzio è così forte
Che si
sente la calma
Della
nuvola
Che ha
partorito la neve
Dentro le
cantine.
Paese
chiuso, verniciato dai fossili
Delle
capre e dei muli.
Seduto
sull’osso
Dove non
cresce neppure la rovina.
Sono
venuto qui a pregare
Oggi che
il vento è così forte
E
sparpaglia pure le ossa dei morti
Nelle
bare.
È l’acquisizione di un respiro “cosmico”,
millenario… Questa mi sembra la strada da percorrere per il futuro, per fare il
modo che la paesologia da “resistenza”, come detto in un’altra magnifica
poesia, si faccia ricostruzione, «comune pane spezzato dell’utopia».
7.
Filo-sofia
Per caso mentre leggevo o rileggevo Arminio,
stavo completando uno straordinario libro di Hadot intitolato Che cos’è la
filosofia antica?. Ebbene, mi ha impressionato ritrovare analogie tra le
pratiche e gli esercizi tipici delle scuole filosofiche antiche e quanto emerge
dai libri di Franco: la meditazione sulla morte, la ricerca di uno sguardo
cosmico, la liberazione dal proprio io… Questo mi sembra punto decisivo,
rispetto a cui l’esser poeta di Franco non è indifferente. Io credo infatti che
la grande poesia, soprattutto del XX secolo, riprenda il progetto delle scuole
sapienziali di liberarsi da un io
egocentrato che ci impedisce di entrare in relazione con le cose. E,
dunque, per andare alle cose è necessario liberarsi da quest’io:
delirate
con calma, uscite
dal
vostro corpo e più ancora
dalla
vostra anima.
Siate
felice per ogni attimo che la vita vi affida
Per ogni
attimo in cui non ci sarete.
Davvero, nel tempo in cui i bisogni indotti, il
nostro essere dei perenni affamati, ci incatena al nostro corpo e al nostro
piccolo Io, questo è un programma rivoluzionario, che si integra alla
decrescita conviviale e alla creazione di un nuovo legame sociale. L’io
egocentrato è infatti il presupposto di quell’autismo corale denunziato da Arminio.
Se l’io si libera dalla prigionia, dalla caverna in cui è rintanato, può
riscoprire il mondo, nella sua terragna carnalità, e l’altro, il volto
dell’altro.
8.
Conclusione
Chiudo. Franco Arminio ha “inventato” una
modalità assolutamente inedita per raggiungere, questa la mia tesi, scopi
antichissimi: la paesologia è un “farmaco” (medicina e veleno, come dicevano
gli antichi) personale, è la proposta di una stile di vita, è un programma che
può avere precise traduzioni politiche, può diventare una nuova “religione”. È
evidente che non tutti possono percorrere questa viva. La condicio sine qua non
per diventare “paesologi” è l’aver avuto il dono e la maledizione di nascere
“paesani”. È, ad esempio, il dono chi è nato a Vitulano. A me, ad esempio,
questa via è preclusa. Come accennavo all’inizio il mio dono è di aver sempre
vissuto, dualmente, tra città, Benevento, e una meravigliosa campagna estiva…
Cosa voglio dire? Che ciascuno di noi è tenuto a fare ciò che Arminio fa in
maniera originale e peculiare. Si può seguire la sua strada, certo, ma anche
altre strade, antichissime o tutte ancora da inventare. A me pare che
l’importante sia conservare quegli elementi strutturali che ho cercato di far
emergere dalla mia breve analisi. È importante cioè che ciascuna via contenga
una poetica, cioè uno sguardo radicalmente nuovo sulla realtà (uno sguardo
capace di essere cosmico ma anche capace, sciamanicamente, di identificarsi con
il mondo animale), un’etica intimamente politica, cioè uno stile di vita
(fondato sulla relazione comunitaria, sul dono, sulla cura) e sull’assunzione
delle proprie responsabilità all’interno della comunità provvisoria di cui si è
parte, una “religione”, una spiritualità che ci metta in contatto con una
“trascendenza” (è indifferente che sia un Dio personale, un Logos cosmico, il
mondo dei morti), annullando le pretese esorbitanti del nostro io egoico. L’elemento
comune è quello della “cura”: l’uomo è pastore, non padrone… Noterete l’assenza
dell’economia. Essa deve tornare ad essere una componente del sociale,
altrimenti non solo collasserà la terra madre ma anche la nostra psiche malata.
E, dunque, a tutti noi il compito di tracciare nuovi sentieri, a voi quello di
salvare il vostro paese, Vitulano, l’Italia, nella consapevolezza che non siamo
soli, che
La
rivoluzione si fa con uomini e donne
E con gli
umani si fa la gioia e pure la poesia.