sabato 12 gennaio 2013

guarda i muscoli del Capitano


Sono nato nel 1967, e ancora non mi rassegno ad appendere le scarpette al fatidico chiodo... Accetto ancora le sfide dei miei alunni, li inseguo nel campo, anche se, come dice il mio amico, ex calciatore, Filippo Milano, noi ogni anno siamo più vecchi e loro hanno sempre la stessa età. Per tenermi in forma vado a correre o vado in bici, in certi periodi anche tutti i giorni. Quando ho voglia di mollare un pensiero luminoso sostiene il mio respiro affannato, le gambe pesanti: «Guarda i muscoli del Capitano».  È un ragazzo che ha appena sei anni meno di me, essendo nato nel 1973. Si chiama Javier Zanetti, ma noi interisti lo chiamiamo Saverio o, meglio, il Capitano o “El Tratur”, perché nessuno lo può fermare quando parte. Emblema in tutto della sua, della nostra squadra, è una “sincronicità” fatale che, alla fine di una stagione da incubo, con almeno quindici giocatori passati in infermeria per infortuni più (Milito, Nagatomo, Obi) o meno (Palacio, Cassano), si infortunasse anche lui, che non ha mai tirato il fiato, mai risparmiato i muscoli e le articolazioni. Tornerà, lo sappiamo, per giocare almeno un’ultima partita davanti al “suo” pubblico, alla sua curva. Lui, che ha incarnato, nel bene e nel male, l’ultimo ventennio interista.
Zanetti arrivò all’Inter nel 1995. Da pochi mesi Massimo Moratti aveva rilevato la società da Pellegrini, con l’intento di riportarla agli antichi fasti del padre Angelo, legato alla mitica Inter di Herrera. L’allenatore era Ottavio Bianchi. L’argentino, primo di una lunga serie di connazionali che avrebbero fatto molto tempo dopo la fortuna del Presidente, accompagnava, in realtà, quasi come omaggio, quello che avrebbe dovuto essere il vero campione, “Avioncito” Rambert (destinato, invece, a scomparire senza lasciare traccia).
Rivedo a volo d’uccello questo quasi ventennio... C’è il suo goal, bellissimo, alla Lazio, nella finale di Coppa Uefa. Uno dei suoi rarissimi tiri. Era l’Inter di Simoni, allenatore rimpianto da molti di noi. Un errore esonerarlo. Ma l’interismo è nel suo dna la follia. Non è una squadra per cardiopatici. Le canzoni dedicate alle squadre di solito sono ignobili, ma «amala, pazza Inter, amala» coglie l’essenza stessa della fede nerazzurra. Noi amiamo la squadra e le sue icone per la sua follia. Eppure Zanetti sembra incarnare tutt’altro, sembra essere stato, in questo quasi ventennio, una sorta di ancoraggio che ha evitato il disastro, l’inabissamento. Insomma, mentre l’Inter si invaghiva di brasiliani e gitani che le avrebbero spezzato il cuore, lui restava lì, «sempre lì», spalla su cui piangere per gli addii di Ronaldo o di Ibra, falcata serena, capello scolpito, vita tranquilla senza eccessi né veline. È come se, per contrappasso, il simbolo dell’Inter fosse privo di tutte le caratteristiche “genetiche” della sua squadra. Un alchemico bilanciamento, segreto contro la deflagrazione cui gli eccessi di “follia” l’avrebbero destinata.
L’interista di lungo corso sa che le soddisfazioni sono poche, spesso distanziate nel tempo. Io ricordo vagamente lo scudetto di Bersellini, bene quello del Trap e dei tedeschi, bene le Coppe vinte, ma, soprattutto, il filotto Mancini-Mourinho e il Triplete. Quando brilliamo lo facciamo con un’intensità accecante. «La candela che splende il doppio del suo splendore, brucia in metà tempo». Questo in fondo stiamo pagando. La Juventus è una squadra “fordista”, perfettamente pianificata. Ma inevitabilmente “in bianco e nero”, senza voli, senza fronzoli, senza utopie.
Zanetti era in campo in quel “dies alliensis” in cui vedemmo le lacrime di Ronaldo e impietriti ci vedemmo sfilare uno scudetto già pregustato dopo tanti anni. E, con l’ostinazione degli umili, riprese a correre ogni giorno, facendo i suoi venti chilometri, dopo gli allenamenti di gruppo. Il lavoro fatto, lo dico sempre ai miei alunni, non va mai perduto. E quello che è venuto, dopo la scoperta di Calciopoli, grazie anche ad acquisti intelligenti, un allenatore dotato, un altro straordinario e mai troppo rimpianto, ha risarcito tutti noi di quanto patito, anche il 5 maggio. Ma soprattutto ha risarcito il Capitano, dandogli, con gli interessi, tutte le soddisfazioni di cui era stata avara la vita con lui, calcisticamente, pensando anche ai disastri ripetuti della nazionale argentina, che pure sulla carta dovrebbe essere una delle più forti del mondo. Madrid fu un compimento di molte vite. Della sua sicuramente ma anche di quella di Moratti, finalmente degno della pesante eredità paterna. E le nostre lacrime furono, finalmente, di gioia. Quello che né noi né Moratti capimmo fu che si trattava, appunto, di un compimento, dunque di una fine, illudendoci, invece, che fosse l’inizio di un lungo ciclo. E stiamo ancora a pagare quell’errore (giustificabile) di percezione.
L’anno prossimo, realisticamente, non ci sarà più nessuno degli eroi di Madrid. Il grave infortunio al Capitano, dopo quello a Milito, gli acciacchi ripetuti di Samuel e Chivu, la stanchezza di Cambiasso suggeriscono di chiudere definitivamente con quel passato che ci mette i brividi, ben sapendo che, forse, nessuno di noi potrà rivedere tale splendore un’altra volta nel corso della propria vita.
Javier Zanetti resterà per molti anni un simbolo atipico. Diventerà dirigente, continuando a trasmettere la sua “positività”, che sa essere generosa. È uno dei pochi giocatori con cui mi piacerebbe parlare non solo di pallone. E noi interisti, ora tristi, continueremo a guardare a lui come ad un’ancora che impedisca la deriva alla “nave dei folli”.

Non dico al Capitano di tornare presto. Perché non è mai andato via. Mancherà maledettamente su quella fascia destra. Ma è ora di salpare per nuovi lidi con la nostra nave che è «guerra, lampo e poesia».

(Apparso in «Area di rigore» nel gennaio 2013)

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