domenica 30 giugno 2013
mercoledì 26 giugno 2013
giovedì 20 giugno 2013
"In quieta ricerca" XXI
Prima
di discutere il contenuto del libro di Nicola Sguera è opportuno soffermarsi
intorno alla sua forma. In quieta ricerca, infatti, è una
raccolta di vari ed eterogenei scritti, riflessioni, articoli, distanti anche
cronologicamente l’uno dall’altro: dal pensiero di Heidegger fino al cinema di
Tarkovskij passando per Morin o Illich. Frammentario, dunque, può essere
considerato questo lavoro e, si badi, non soltanto in virtù di una tale
ampiezza tematica ma perché breve nel
modo stesso in cui è stato scritto e pensato.
Detto questo, limitarsi alla mera constatazione rischia di produrre una lettura infruttuosa, di restare
alla superficie della questione. La domanda che bisogna porsi è quale sia il
significato di questi frammentari e sparsi pensieri, quale sia la ragione di
questa forma. Ciò che tiene insieme queste varie riflessioni non è altro che il
nostro tempo, questo mondo dove Dio è
morto. A tal proposito, mi preme subito dire che una qualità del professore è
quella di spiegare questi riferimenti apparentemente astratti, di chiarire
concretamente a cosa essi alludano. Comprendere cosa sia l’oblio dell’essere di
cui parla Heidegger significa anche, e forse soprattutto, avere visione che si
è in presenza che il mondo è devastato, che si è in presenza di una crisi
epocale secondo diverse prospettive tanto ambientali quanto umane: ad essere in
pericolo è l’uomo. Il modo in cui questa tematica viene affrontata costringe
Nicola Sguera a fare i conti con l’intera storia di una terra destinata al
tramonto (l’Occidente), a cercare di cogliere quali siano stati i passaggi
cruciali e le ragioni fondamentali di questo destino. Nella consapevolezza di non poter filosoficamente prescindere da un’analisi profonda della nostra
storia è da rintracciarsi un altro merito di questo lavoro. Soltanto tenendo fermo
questo plesso concettuale si comprende la forma
del libro, ci si rende conto della non casualità di questa frammentarietà, necessaria
dal momento che l’unico modo di abitare questo tempo consiste proprio in un
agire consapevole di essere privo di episteme.
Ecco perché possiamo dire che sia la forma
che la scrittura del prof. traducono un ethos,
un modo di stare presso le cose come presso se stessi, unico rimedio rimasto
per fronteggiare la catastrofe. Tutti le analisi presenti nel libro risultano
interessanti e profonde, sempre svolte in nome di una responsabilità civile (si
intravede qui il cattolicesimo-comunista da cui proviene il prof.), attente a
quale possa essere il proprio significato e in che modo possa incidere sulla
storia. Una critica che mi permetto di svolgere è la seguente: l’accettazione
totale di una certa lettura della storia e del pensiero occidentale (quella heideggeriana).
Il rischio è di commettere un’operazione filosoficamente scorretta consistente
nel persuadersi a tal punto della verità di una particolare, seppur di enorme
rilievo, interpretazione. Al contempo va riconosciuto, ed è questo l’essenziale
anche per me, che Heidegger risulta può essere utile a rendersi consapevoli che
ci troviamo dinanzi ad un cambiamento epocale, assolutamente relato ad un
preciso contesto ma non identificabile con alcun momento storico. Infine, alla
luce di quanto brevemente esposto, mi chiedo e domando: quest’ethos a cui si allude è veramente nuovo?
Non appartiene alla filosofia sin dalla sua origine un modo precario di abitare il mondo, un’etica
consapevole di non poter sapere e
contemporaneamente responsabile nei confronti della
comunità? Si veda Socrate.
Luigi Santonastaso
Luigi Santonastaso
domenica 16 giugno 2013
sabato 15 giugno 2013
amor vincit omnia: dove Cacciari non osa
Negli ultimi anni, Benevento ha visto
transitare, in occasioni e contesti diversi, le voci più autorevoli della
filosofia contemporanea italiana: da Vattimo e Cassano (invitati dai
Giannoniani) a Galimberti (invitato dall’Università), da Curi e Lecaldano (invitati
dal Giannone) a Cacciari, domenica scorsa in un affollato Cinema San Marco, a
testimoniare, evidentemente, non solo (siamo a Benevento!) il bisogno di
presenziare “eventi” paramediatici ma anche l’urgenza di ascoltare parole
“sensate” o, quanto meno, generatrici di interrogazione. A margine, dunque, di
questa mia riflessione colloco l’auspicio che, negli anni a venire, i soggetti
associativi e istituzionali riescano a fare “rete” (anche con le scuole) per
poter creare un momento ben riconoscibile e dotato di una sua specificità nel
panorama nazionale di incontro con la filosofia contemporanea.
Poiché molti e qualificati commentatori (da
Maria Ricca a Guido Bianchini, da Luigi Furno a Elide Apice, con una per me
preziosa coda dialogica all’interno del gruppo Facebook della Libera Scuola di
Filosofia: la lettura di tali articoli si dà per assunta qui) hanno dato
esaustive sintesi delle argomentazioni sulla lectio di Cacciari (oltre a spunti critici che riprenderò),
dedicata fondamentalmente al tema del potere (fra potestas e auctoritas) e
della “prossimità”, vorrei soffermarmi solo su alcuni passaggi, intrecciandoli
a quanto Cacciari ha elaborato nell’ultimo, complesso ed erudito, suo libro (Il potere che frena, Adelphi).
L’abbondanza di virgolette, inusitata nei miei
scritti, segnala la problematicità nell’uso di termini che, come ha detto
Cacciari iniziando la sua lectio,
andrebbero definiti uno a uno.
1) L’unico potere che
potrebbe ambire ad essere legittimo in questo tempo è quello fondato non sulla potestas (patriarcale) ma su un’auctoritas (capace di coniugare “cura”
materna e indicazione di una via di “crescita” del “prossimo” oggetto di tale
“potere”).
2) Il libro si chiude
senza una prognosi e senza una prospettiva... Avrei, infatti, voluto
provocatoriamente chiedere al professore se «solo un Dio ci può salvare». Dopo
aver argomentato, infatti, la fine di ogni potere “catecontico” (capace cioè di
frenare l’avvento dell’anomia dell’Anticristo, fuor di metafora: del dominio
globalizzato della tecnoscienza e dell’economia), e quindi di ogni potestas statuale, ad esempio, ma anche
della Chiesa stessa (cattolica) come è stata strutturata nei secoli, Cacciari
non indica la strada da percorrere (di qui la mia, taciuta, domanda
provocatoria). Mi pare di cogliere, nel discorso di Cacciari, una latente
contraddizione (che potrebbe, dico, potrebbe preludere anche a sviluppi
interessanti del suo pensiero) fra una prospettiva, per dirla in soldoni,
fortemente “antropocentrica”, “umanistica” (nella lectio ha tessuto un elogio della “tattica”) e una, come dire,
antiumanistica, in cui il progettare dell’uomo, la sua capacità di “prevedere” gli
eventi, di pianificare, di ordinare, insomma, la sua potestas, entrano irrimediabilmente nel tempo (pre)apocalittico che
stiamo vivendo.
3) Da dove parlo? E da
dove parla Cacciari? Io credo che sia atto di onestà intellettuale situare
sempre le nostre riflessioni. Mi sarebbe piaciuto che lo facesse anche lui, per
evitare ambiguità che, certo, sono fascinose ma anche pericolose. Il suo è un
discorso teologico-politico. Ma non è il suo libro stesso a decretare la fine
irrimediabile di questo glorioso binomio occidentale? Se ogni potestas terrena ha irrimediabilmente esaurito le sue energie
“contenitive” non sarebbe il caso di fare una scelta limpida verso un’altrove,
che pure, in nuce, è dentro una parte
(eretica?) della cultura (cristiana) occidentale? Personalmente io ho fatto
questa scelta, accettando di ripercorrere tutta la tradizione cristiana,
valorizzandone gli aspetti più marginali e “pericolosi” (dai movimenti
millenaristici alla mistica), fino a ritrovare nella predicazione dell’ebreo
Gesù il senso stesso del mio agire nell’attesa del Regno. Cacciari ha lasciato
baluginare nelle sue parole delle “vie di fuga” da un discorso che continua ad
essere, suo malgrado, teologico-politico (inevitabilmente, dunque, votato al
compromesso con le potenze – demoniache – di questo mondo). Per esempio quando
ha evocato Francesco o la necessità di integrare Maria, “Madre di Dio”, nella
Trinità (e, dunque, valorizzando quell’aspetto “femminile” di una religione che
continua ad essere, come rimarcato da Guido Bianchini, ancora fortemente
patriarcale). Ma non è andato oltre. Come se l’impianto stesso del suo dire
avesse un vizio d’origine. Nunzio Castaldi, in preziose riflessioni di cui mi
approprio, auspicando che egli le sviluppi, per continuare il dialogo, parla
della matrice nichilista del pensiero di Cacciari e nota, come me, che non ha
mai pronunziato nell’ora di lectio la
parola “amore”. E, ancora, nota come, parlando del buon samaritano, metta
l’accento tutto sull’esercizio del potere (come auctoritas) da parte del samaritano. Potere. Non amore. Voglio dire
che, probabilmente, il libro di Cacciari, come la sua riflessione, malgrado
alcune «malchiuse porte d’alti Eldoradi» che lascia intravedere, si infili in
un vicolo – letteralmente – cieco, incapace di vedere con occhi che non siano
tutti “moderni”.
4) Per uscirne, a mio
avviso, è necessario (ri)attivare quel pensiero (non filosofico) che fa proprio
della (francescana) rinunzia ad ogni “volontà di potenza” (che segretamente
opera anche nell’auctoritas: Augustus deriva da augeo!). Per esempio, Simone Weil, quando scrive: «Tutti i moti
naturali dell'anima sono retti da leggi analoghe a quelle della pesantezza
materiale. Solo la grazia fa eccezione. Bisogna sempre aspettarsi che le cose
avvengano conformemente alla pesantezza; salvo intervento del sovrannaturale».
Mi pare che Cacciari sia troppo figlio ancora di un secolo che ha avuto il mito
della programmazione, della “tattica”, per dirla con le sue parole, sia troppo
“umanista” (e, dunque, heidegerrianamente, troppo “nichilista”) per fare questo
“salto” nella... fede? È fede? Certo, a patto di pensarla tutt’uno con la
“carità” come Amore: «La carità e la fede, sebbene distinte, sono inseparabili.
Le due forme della carità lo sono ancora di più. Chiunque sia capace di un
moto di compassione pura nei riguardi di uno sventurato (cosa peraltro molto
rara) possiede, forse implicitamente, ma sempre realmente, l’amore di Dio e la
fede. Il Cristo non salva tutti coloro che Gli dicono: “Signore, Signore”. Ma
salva tutti quelli che con cuore puro danno un pezzo di pane a un affamato,
senza pensare affatto a Lui. Costoro, quando Egli li ringrazia, rispondono:
“Quando dunque, Signore, ti abbiamo nutrito?”» (Weil).
5) Insomma, bisogna avere
la forza di un discorso che non sia più, per quanto al limite delle sue
possibilità, teologico-politico e che, dunque, continui a presupporre (malgrado
la negazione teorica) l’agire di forze “catecontiche” (emblematico quanto detto,
alla fine della lectio, sollecitato,
sui media), urge entrare nel mare aperto, nell’Abbandono (mistico, francescano) al potere rigenerativo dell’Amore
e della Grazia. Potremmo dire che questo è il tempo della grande Riforma in cui
ci si salva sola Fide, senza ausilio
delle opere inevitabilmente votate al male? E, dunque, questo tempo esige,
niente poco di meno che... santi! Ma una santità tutta nuovo, come scriveva,
ancora una volta, una di coloro che, nel suo cuore “spezzato”, nella sua
testimonianza priva di tattica, nel suo letterale lasciarsi morire con chi
moriva durante la seconda guerra mondiale, ha testimoniato questa inaudita
possibilità che rimane all’Occidente cristiano di salvare e di salvarsi: «Viviamo
in un’epoca che non ha precedenti, e nella situazione presente l’universalità,
che un tempo poteva essere implicita, deve ora essere totalmente esplicita. Il
linguaggio e tutto il modo d’essere ne devono essere impregnati. Oggi non è
sufficiente esser santo: è necessaria la santità che il momento presente esige,
una santità nuova, anch’essa senza precedenti […]. Un nuovo tipo di santità è
qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione. Fatte le debite
proporzioni, mantenendo ogni cosa al proprio posto, è quasi un fatto analogo a
una nuova rivelazione dell’universo e del destino umano. Significa mettere a
nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora nascosta sotto uno
spesso strato di polvere. Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede
per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova è un’invenzione più
prodigiosa».
Di
aspiranti santi abbiamo bisogno, non più di professori di teologia o di
politica, con le loro strutture che rischiano, sempre più, di divenire
sepolcri.
(Articolo apparso su «Sanniopress» nel giugno 2013)
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