Prima
di discutere il contenuto del libro di Nicola Sguera è opportuno soffermarsi
intorno alla sua forma. In quieta ricerca, infatti, è una
raccolta di vari ed eterogenei scritti, riflessioni, articoli, distanti anche
cronologicamente l’uno dall’altro: dal pensiero di Heidegger fino al cinema di
Tarkovskij passando per Morin o Illich. Frammentario, dunque, può essere
considerato questo lavoro e, si badi, non soltanto in virtù di una tale
ampiezza tematica ma perché breve nel
modo stesso in cui è stato scritto e pensato.
Detto questo, limitarsi alla mera constatazione rischia di produrre una lettura infruttuosa, di restare
alla superficie della questione. La domanda che bisogna porsi è quale sia il
significato di questi frammentari e sparsi pensieri, quale sia la ragione di
questa forma. Ciò che tiene insieme queste varie riflessioni non è altro che il
nostro tempo, questo mondo dove Dio è
morto. A tal proposito, mi preme subito dire che una qualità del professore è
quella di spiegare questi riferimenti apparentemente astratti, di chiarire
concretamente a cosa essi alludano. Comprendere cosa sia l’oblio dell’essere di
cui parla Heidegger significa anche, e forse soprattutto, avere visione che si
è in presenza che il mondo è devastato, che si è in presenza di una crisi
epocale secondo diverse prospettive tanto ambientali quanto umane: ad essere in
pericolo è l’uomo. Il modo in cui questa tematica viene affrontata costringe
Nicola Sguera a fare i conti con l’intera storia di una terra destinata al
tramonto (l’Occidente), a cercare di cogliere quali siano stati i passaggi
cruciali e le ragioni fondamentali di questo destino. Nella consapevolezza di non poter filosoficamente prescindere da un’analisi profonda della nostra
storia è da rintracciarsi un altro merito di questo lavoro. Soltanto tenendo fermo
questo plesso concettuale si comprende la forma
del libro, ci si rende conto della non casualità di questa frammentarietà, necessaria
dal momento che l’unico modo di abitare questo tempo consiste proprio in un
agire consapevole di essere privo di episteme.
Ecco perché possiamo dire che sia la forma
che la scrittura del prof. traducono un ethos,
un modo di stare presso le cose come presso se stessi, unico rimedio rimasto
per fronteggiare la catastrofe. Tutti le analisi presenti nel libro risultano
interessanti e profonde, sempre svolte in nome di una responsabilità civile (si
intravede qui il cattolicesimo-comunista da cui proviene il prof.), attente a
quale possa essere il proprio significato e in che modo possa incidere sulla
storia. Una critica che mi permetto di svolgere è la seguente: l’accettazione
totale di una certa lettura della storia e del pensiero occidentale (quella heideggeriana).
Il rischio è di commettere un’operazione filosoficamente scorretta consistente
nel persuadersi a tal punto della verità di una particolare, seppur di enorme
rilievo, interpretazione. Al contempo va riconosciuto, ed è questo l’essenziale
anche per me, che Heidegger risulta può essere utile a rendersi consapevoli che
ci troviamo dinanzi ad un cambiamento epocale, assolutamente relato ad un
preciso contesto ma non identificabile con alcun momento storico. Infine, alla
luce di quanto brevemente esposto, mi chiedo e domando: quest’ethos a cui si allude è veramente nuovo?
Non appartiene alla filosofia sin dalla sua origine un modo precario di abitare il mondo, un’etica
consapevole di non poter sapere e
contemporaneamente responsabile nei confronti della
comunità? Si veda Socrate.
Luigi Santonastaso
Luigi Santonastaso
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