Ti ringrazio per avermi scelto per presentare il tuo libro. Ne sono onorato. In un primo momento, lo confesso, ho pensato ad un errore di persona! Come sai non sono un esperto di filosofia e sotto tale profilo sono il meno indicato a parlare (anche se, chiarisco subito, il tuo libro non è di filosofia). Mi guadagno da vivere facendo l'avvocato e scrivo per diletto. Tutto qui. La mia presentazione dunque è quella di un semplice lettore.
Ti conosco dai tempi de la rosa necessaria. Venni ad uno dei vostri incontri. Esordisti così: «Noi qui leggiamo poesie». Mi piacque molto quella frase. Se posso condensare il tuo libro in un'espressione, forse non troverei frase più adatta. In effetti indichi nella poesia una possibilità di salvezza.
Ti dico subito che ne sono convinto anch'io. Su come la poesia possa compiere questa missione stornando l'umanità da certe miopie, questo è un altro discorso. Ci ritornerò a breve.
Il tuo è, solo apparentemente, un libro di riflessioni varie. In realtà credo ci sia un forte filo conduttore che lega le pagine. Anzi, penso ci sia un'“onda” squisitamente narrativa. Quella a cui ogni bravo scrittore deve tendere, che tiene desta l'attenzione del lettore e che gli fa vivere con partecipazione il “racconto”. Per me questo è un pregio. Non trascurabile. E spero non me vorrai, visto che nelle tue pagine cerchi di mettere in discussione la “tecnica”, non esclusi taluni aspetti formali e dimensioni estetizzanti della letteratura, così come sino ad oggi la conosciamo.
Nell'introduzione, infatti, in particolare nello "Scopo del libro”, poni subito delle riflessioni importanti; parafrasando una tua espressione poni «profonde domande di senso», ed io aggiungo , come appassionato di scrittura e dunque anche dagli aspetti tecnici ed estetici ad essa connessi, poni di fatto anche “l'ostacolo” squisitamente narrativo: «stiamo vivendo un tempo apocalittico, con l'emergenza contestuale di quattro crisi, ecologica, energetica, economica e psichica. Il rischio concreto è quello di un vero e proprio collasso». In altri termini obblighi il lettore a chiedersi: «E ora? Come usciamo da questo tempo “apocalittico”? Come evitiamo il collasso? Come superiamo l'ostacolo?»
La parte centrale del libro, attraverso la presentazione dei "Maestri eretici" (ma anche più innanzi con le bellissime riflessioni sulla “tecnica”), individua lo sguardo nuovo da adottare. Cominci a dare, cioè, degli spiragli di uscita. Sono autori "forti”; il loro pensiero e le loro scelte di vita suonano come un ceffone a viso aperto. Con intuizione inedita accosti tra loro pensatori, scrittori, registi, addirittura contrastanti. Dai un esempio concreto di lotta contro la “parcellizzazione dei saperi”. È un contrasto apparente, poiché alla fine il lettore riesce a cogliere in ciascuno di tali “maestri”, possibilità concrete per invertire la marcia verso il collasso, per “capovolgere l'abisso”. Attraverso le pagine si coglie bene la “proposta” di uno sguardo diverso. Usando una tua metafora, lo sguardo attuale scruta l'orizzonte innanzi la prua del Titanic. Il rischio è immenso. Da una simile nave, evidentemente, dobbiamo cercare di scendere.
Nella parte finale del libro, caro Nicola, indichi nella poesia una strada. Ritengo però sia solo un accenno ad una soluzione. L'onda narrativa del tuo libro, dopo un percorso intenso, indubbiamente ritorna ad un equilibrio e dunque si compie. Tuttavia, accennando al superamento dell'ostacolo (ancorché nell'ambito di un forte segnale di speranza) fai nascere in chi legge degli interrogativi cruciali e soprattutto l'urgenza di risposte.
Ecco, proprio qui, da comune lettore, la mia mente si affastella di domande. Hai posto “profonde domande di senso” utilizzando ancora la tua espressione, riesci a farle porre al lettore comune, e poi lo “abbandoni” con questo messaggio: «la poesia è una via di salvezza». Ma come? In che modo? Come può la poesia dare una risposta? Salvare? Come deve essere la poesia della salvezza? In che modo può riuscire nella sua missione? I poeti devono andare in avanscoperta? E gli altri? I non poeti? Non ci vorrebbe chi educhi ad andare verso questa nuova poesia? Chi sia in grado di "preparare"? Qual è il linguaggio di questa nuova dimensione poetante? E soprattutto è un linguaggio che deve abbandonare totalmente la sua dimensione estetica così come la conosciamo? Ognuno dal suo piccolo deve fare la sua parte. Ma affidarsi solo a processi individuali di cambiamento, onestamente, penso sia troppo poco. Credo che adottare un sguardo nuovo non sia facile soprattutto per chi è affetto da miopia cronica. E' cogente dunque anche porsi il problema di come si possa educare all'adozione di questo sguardo diverso.
So che uno scrittore che voglia far passare un messaggio, qualunque esso sia, ha sempre il dovere di sedurre il lettore, di sforzarsi di “toccare” i suoi sensi. Per chi scrive questa è un urgenza sacrosanta al pari del contenuto. Lo sforzo di rendere condivisibile un messaggio, dopotutto, dovrebbe essere comune ogni disciplina. Come lettore è inutile negarti che mi sono nutrito molto anche di quella poesia e letteratura estetizzante o di puro diletto che tu biasimi nel libro. Allora mi chiedo se non bisognerà preparare il terreno proprio a chi come me forse non è ancora pronto ad abbandonare del tutto una certa dimensione estetica. Educarlo e condurlo sulla strada di questo “rinnovamento” o "rovesciamento". Porsi il problema di come i non poeti potranno acquisire lo sguardo “non rapace” e “non dominatore” sul mondo.
Mi auguro sinceramente di leggerti di nuovo, quanto prima. Nell'auspicio che tu possa rendere sempre più agevole la strada nuova da percorrere.
Giovanni Rossi
Giovanni Rossi è avvocato e scrittore.
Il testo è rielaborazione dell’intervento tenuto in occasione della presentazione di In quieta ricerca a Vitulano l’8 dicembre 2012.
mercoledì 12 dicembre 2012
"In quieta ricerca" XV
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