«Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze» (Oscar Wilde). Perché un’affermazione così provocatoriamente conformista in uno scrittore notoriamente indifferente al giudizio dell’opinione pubblica? Probabilmente Wilde voleva farci riflettere su come ciò che appare, spesso, rifletta ciò che è; su come il “visibile” rimandi ad un “invisibile” di cui è manifestazione, esteriorizzazione, fisicizzazione. Quando ho avuto in mano il libro di Nicola, ho pensato proprio a quanta verità ci sia in questo aforisma. Esso, infatti, è anche corpo, materializzazione della sua spirituale visione della vita. Provo ad analizzarne gli elementi.
Il materiale di cui è fatto, carta riciclata, ci parla dell’anima ecologista di Nicola; la casa editrice è “Percorsi”, di cui è socio Carlo Panella, direttore de «Il Vaglio», cui Nicola è legato da un rapporto di stima e di leale amicizia; la copertina è illustrata da Christian Mirra, noto grafico e vignettista, già vittima e testimone dei fatti della Diaz, in occasione del G8, cui Nicola, Michelangelo Fetto e Antonio Intorcia, durante la “Notte Bianca della Scuola Pubblica Sannita”, hanno conferito la cittadinanza onoraria di Benevento, proprio quando la stessa cittadinanza veniva tributata dall’amministrazione comunale al capo della Polizia, Antonio Manganelli.
Vale la pena di soffermarsi sull’illustrazione che, a mio avviso, delinea elementi fondamentali nel vissuto di Nicola: la bicicletta, metafora della sua visione del tempo e di uno stile che, nell’“andare lento”, coglie la necessità di sottrarsi alla frenesia della contemporaneità per godere degli incontri sul cammino e per assaporare i luoghi che si attraversano; il prato fiorito, in primo piano, la sua attenzione per la natura e l’amore per la poesia; il monte alla sinistra con il monumento, forse un castello, e le case di un tipico paesaggio di paese il rispetto per le tradizioni, la storia, il passato; il mare col sole al tramonto il pensiero meridiano e il suo legame con Franco Cassano; i libri che riempiono il disegno la cultura che nutre le sue giornate. La dedica alla madre, radix/matrix, per usare le espressioni di uno dei suoi amati poeti, Paul Celan, e alla figlia Caterina, semen, testimonia il legame con due donne centrali nella sua esistenza, a cui si aggiunge un’assenza/presenza, quella della sua compagna di vita che ne rappresenta il trait d’union, la continuità tra un passato ed un futuro che si fondono nel presente.
Il titolo (In quieta ricerca) rimanda al significato di una ricerca che dà valore, socraticamente, alla vita ma condotta quietamente, senza l’affanno faustiano, come si ricorda nel libro; la ricerca però è anche sempre «inquieta», perché è conversione e ri-conversione, messa in discussione di ciò in cui si crede, correzione e revisione, conflitto e lacerazione...
La prefazione è affidata ad un’altra presenza importante, Marco Guzzi, il pensatore sensibile e attento che ha operato in lui una profonda conversione, avvicinandolo, dopo l’ateismo militante cui era approdato, ad una visione più serena della spiritualità.
Qual è lo scopo del libro? Nicola lo dichiara esplicitamente: criticare il mito del progresso, valorizzare uno sguardo poetico sulla natura che nasca da una profonda rigenerazione spirituale; riconoscere la nostra creaturalità per lenire il prometeismo che, dall’avvento della modernità, guida le sorti umane; prendere consapevolezza dalla necessità di applicare quell’etica della responsabilità che Hans Jonas ci ha indicato come necessaria per poter consegnare ai nostri figli una madre Terra non del tutto devastata da una tecnica illimitata.
Il libro è percorso dalla raffinata poesia di René Char («Se abitiamo un lampo, il cuore dell’eterno») ; dalla saggezza pedagogica di Edgar Morin, che, nel ricordare il monito di Michel De Montaigne a formare «teste ben fatte» invece che «ben piene» ripropone un insegnamento/missione che richiede eros, piacere, desiderio, amore non legati al potere, ma al dono, esattamente come fa ogni giorno Nicola con gli studenti che hanno la fortuna di averlo come educatore; dalla «coerenza mobile» di Marco Revelli, a proposito della quale Nicola dice che è propria di chi, come lui, è fedele alla propria scaturigine, ma mette comunque in discussione la propria tradizione; dalla critica di Serge Latouche all’americanizzazione del quotidiano e all’occidente culturicida, culturofago, con la sistematica distruzione della biodiversità culturale; dallo smantellamento del mito dello sviluppo che ha portato, incarnato dall’homo faber/demens al comunismo sovietico, ad Auschwitz, a Hiroshima; dal continuo, esplicito/implicito, richiamo alla filosofia di Heidegger.
«Ho combattuto tutta la mia vita sulle frontiere» è la frase preferita che Nicola, riprendendo Charles Peguy, utilizza spesso per connotare le sue scelte di vita, il suo essere partigiano, il suo coraggio nel prendere posizioni difficili, spesso decisamente “eretiche” e che lo pongono fuori da ogni chiesa, all’interno della quale si sentirebbe soffocare. D’altronde, come scrive Ernst Bloch, «il meglio della religione è che essa suscita eretici». La prima parte del libro è, quindi, dedicata proprio ai “maestri eretici”: perché? Eresia” deriva dal greco airesis, che significa “scelta”. Eretici erano gli appartenenti ad una scuola, come quella stoica o epicurea, consapevoli di compiere una precisa scelta tra le diverse forme di vita e conoscenza; in ambito cristiano, invece, venne ad assumere connotazione negativa, dal momento che si era obbligati a scegliere un’unica via, quella Orto (retta)-Dossa(opinione), indicata dal Maestro e garantita dall’Ecclesia. Problema che si pone ininterrottamente a Nicola che crede sia essenziale all’essere umano scegliere, prendere posizione.
E tale assunzione riguarda soprattutto non una domanda fra le tante che l’uomo può farsi, ma la domanda, cioè: c’è Dio? La cui tragicità affatica inevitabilmente ogni pensatore onesto e consapevole. Mario Pomilio, con Il Quinto Evangelio e Dag Hammarskjöld, premio Nobel per la pace, gli offrono spunti per rispondere. Non è l’atto religioso a fare il cristiano e neppure la sua fuga nel trascendente, ma la sua partecipazione alla storia di Dio come si manifesta nella storia del mondo. Il nuovo cristianesimo nasce sulla disposizione alla speranza e sul dissenso, sulla disobbedienza al «principe di questo mondo», dall’incontro con Cristo, dalla scoperta dell’altro e dal dono di sé.
Sono questi maestri che gli consentono di superare il rifiuto di una fede confessionale senza rassegnarsi all’ateismo, ma approdando ad una spiritualità che ne appaga l’anima senza rinchiuderla in una chiesa. Una possibilità di risposta, nell’operare una netta separazione tra religione e spiritualità, tra cristianesimo come dogma (gerarchia/istituzione) e kerigma (annuncio/ testimonianza), Nicola l’ha trovata in Bonhoeffer, Weil, Hillesum.
Dietrich Bonhoeffer gli ha indicato cosa significhi vivere in Cristo, come il figlio sia venuto proprio ad abolire la religione, anzi a diventare «il Signore anche dei non-religiosiĞ, e come l’uomo che pone Cristo al centro sia pienamente immerso nella propria mondanità, sia «fedele alla terra», disinteressato al problema della salvezza individuale. Ma Bonhoeffer lascia aperte altre domande: come si deve porre quest’uomo di fronte al culto e ai sacramenti? Si è cristiani sulla base dell’adesione ai precetti di fede o in base ad un’adesione esplicita o implicita a Cristo?
Simone Weil, nel ricordargli come gli occidentali abbiano distrutto il passato nelle proprie patrie e in quelle altrui, come il lavoro abbia nella gioia un valore spirituale profondo, ha dato supporto alla sua convinzione che sia necessario abbandonare l’idea moderna di “progresso” e «mettersi in ascolto della parte muta, anonima, sparita della storia». La Weil visse integralmente le proprie idee: volle farsi operaia, fragile, povera; andò volontaria in Spagna durante la Guerra civile, fu profondamente credente, ma non volle mai entrare in una chiesa cattolica che misconosceva la potenza salvifica delle altre fedi.
Etty Hillesum, ebrea che morirà nel 1943 ad Auschwitz, nel suo Diario, ci mostra come per lei la fede sia arrendersi completamente a Dio, in un atto estremo di consacrazione e di amore... Cosa hanno in comune Bonhoeffer, Weil, Hillesum? Una risposta alla domanda fondamentale di Nicola, che è poi la nostra, e, soprattutto, aver vissuto in perfetta coerenza di principi e azioni: Bonhoeffer la possibilità del tirannicidio, Weil l’impegno, Hillesum la resa a Dio nel momento della massima sofferenza. Lo stesso Marco Guzzi, dice Nicola, gli «ha insegnato a non separare le nostre biografie dai nostri saperi». E Heidegger, allora?
La loro individuazione come maestri di vita sembra, in qualche modo, pacificare proprio la scelta di aver conferito ad Heidegger la centralità nella sua filosofia. Riconosco a Nicola di aver aperto, con spirito acuto e attento al dibattito internazionale, la cultura sannita alla riflessione su pensatori poco frequentati, come appunto Martin Heidegger. Personalmente credo, però, che sia anche il più imbarazzante “scandalo”, proprio nel senso di skándalon, che egli si trova a vivere: dover continuamente giustificare la sua predilezione per un filosofo che non è stato semplicemente omissivo nei confronti del Partito Nazista, non è stato “indifferente”, ma ne è stato un sostenitore convinto; il membro pagante dal 1933 al 1945 del NSDAP; il rettore dell’università di Friburgo che disse ai suoi studenti: «Fate che non siano teorie o “idee” a guidare il vostro essere. Il Führer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, per oggi e per il futuro»; che disprezzava la Repubblica di Weimar e citava Omero: «Il governo di molti non è bene, fate che sia il governo di uno solo, di un solo re»; che non ha scritto una sola riga, anche dopo la fine della guerra, sulla Shoah e che a Marcuse, che in una lettera del 20 gennaio del 1948 gli chiedeva perché non avesse parlato dei campi della morte, rispondeva che lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista era paragonabile a quello dei tedeschi nell’Unione sovietica, esattamente lo stesso argomento che adducono oggi gli ex filonazisti. Capisco che, come ha più volte sottolineato Gianni Vattimo, è talmente scontato il collegamento col nazismo quando si parla di Heidegger, da essere irritante e dunque ininfluente filosoficamente, ma se dopo I libri di Victor Farias, Heidegger e il nazismo, e quello di Hugo Ott, Martin Heidegger, che hanno affrontato la posizione di Heidegger, ancora quest’anno Emmanuel Faye pubblica Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, vuol dire che il problema non è affatto superato. Non basta, infatti, e Nicola lo sa bene, citare Günther Anders quando, a proposito di Heidegger, riconosce: «Un tal filosofo, mediocre moralmente, quanto grandioso speculativamente» che riconduce la sua scelta politica a opportunismo, condannando la viltà dell’uomo, ma salvando la grandezza del filosofo. Non basta perché il problema non è se sia stato o meno incoerente con la sua filosofia, ma se la scelta ideologica sia anche frutto della sua speculazione o se la sua riflessione abbia determinato la scelta politica. E’ questo il problema più scottante che il libro di Faye affronta anche in considerazione della straordinaria influenza che Heidegger ha avuto e continua ad avere sul pensiero contemporaneo.
Fare come propone Heidegger a proposito dell’Essere, inoltre, «porsi in ascolto», non sembrerebbe indulgere ad un fatalismo, e quindi ad una sorta di storicismo in cui l’accettazione dell’esistente non è che la versione drammatica del più pacato «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale». Questo Essere che si svela non rischia di essere visto come il logos che percorre la storia? Si lascia ascoltare, bene, non si impone, ma è pur vero che, storicisticamente, la percorre. Se l’Essere si rivela nel tempo, nel momento storico, allora è giustificato che si sia rivelato nell’avvento e nel trionfo del nazional-socialismo?
Nicola, come molti grandi filosofi e poeti, è convinto che l’aspetto nobile, aereo della filosofia heideggeriana riposi nella calda poesia che arricchirebbe la fredda filosofia. È sicuramente l’aspetto più contemporaneo, affascinante delle conclusioni heideggeriane, ma io mi chiedo: l’aver affidato al valore della parola, della poesia che incanta, che stupisce, che ammalia, l’ascolto dell’essere può difenderci dalla fascinazione acritica, dalla capacità affabulatoria del linguaggio, dall’uso spregiudicato del carisma che incanta la fantasia, ma narcotizza la ragione critica? Penso ai filosofi veggenti, ai profeti convinti di potersi mettere a guida dell’umanità e orientare il futuro degli uomini. La poesia, dice infatti Heidegger, è «lo sguardo sul mondo» che salva; è ciò che può «rintracciare la direzione della svolta».
Al di là della bella suggestione che un pensiero poetante può indurre e del dialogo che pensatori come ad esempio Gianni Vattimo accettano tra poesia e filosofia, è veramente possibile una filosofia che sia poesia? La poesia è diversa per ciascuno, è canto dell’anima individuale, mentre la filosofia aspira all’universalità; poesia è perdersi mentre il filosofo è ossessionato dal non perdersi; la poesia è rivelazione della verità, la filosofia ricerca della verità; la poesia è illuminazione, folgorazione: è il fulmine; la filosofia è riflessione, attenzione: è l’incendio.
E ancora: quell’oscurità linguistica, quell’ermeticità di Heidegger, che per Nicola è una scelta obbligata per sfuggire il canto delle sirene di un linguaggio “prostituito” alla metafisica e alla scienza, non è piuttosto ripudio di ciò che è comune, medio, razionale; insofferenza alle regole, al diritto; rifiuto per la democrazia, la scienza, la tecnica? Certamente la democrazia può degenerare in libertinaggio, certamente la scienza può condurre all’abisso di Hiroshima, certamente la tecnica può distruggere il pianeta, ma la democrazia è nata per garantire il dialogo tra gli esseri umani, la scienza per consentire il controllo di una natura che non è sempre buona, ma anche selvaggia e distruttiva, la tecnica per migliorare le condizioni di esistenza, sconfiggere malattie. Cosa può salvarci dai loro esiti aberranti? Nicola è convinto che sia la poesia e che la Filosofia che, insieme al maestro, identifica tout court con la metafisica cartesiana, sia destinata alla morte, a meno che non si lasci abitare dalla poesia. Ma perché ipotizzare la morte della Filosofia, come ultima ratio? Con il riferimento a Popper, a Khun e ad Heisenberg non ci ricordi tu stesso, caro Nicola, che la scienza e la filosofia sono in grado di darsi l’antidoto, di crearsi da se stesse gli anticorpi per difendersi dallo scientismo? Personalmente continuo a pensare che ciò che anche oggi possa darci il limite necessario a correggere la hýbris di un sapere illimitato sia l’etica: è l’etica che, nella deriva politica, civile, religiosa, nella disumanizzazione tecnologica, nell’offesa alla Terra e agli esseri viventi, nella barbarie omofoba e xenofoba può darmi ancora quei punti di riferimento ineludibili che nessuna fascinazione estetica, per quanto forte, può cancellare. Etica è limite, la mancanza di etica è l’illimitato. Heidegger non ha lasciato alcuno spazio ad essa. E ancora: perché la ragione deve essere contrapposta ai sentimenti? Non era Alcmeone che già nel V secolo a.C. indicava un’unica sede, il cervello, per i pensieri e i sentimenti? Lo stesso Kant, considerato il filosofo del dovere, del rigore, del finito sostiene nella Critica della Ragion pura che il sapere scientifico poggia su un mondo che deve, fenomenicamente darsi per essere conosciuto, ma non nega che ci sia una realtà, oltre quella naturale retta da leggi necessarie, che si caratterizza come il mondo della libertà. È l’Etica che ci rende liberi e ci fa scoprire non la nostra onnipotenza, ma la nostra dignità di esseri umani, il comune fondamento della nostra umanità. Noi siamo giudici e imputati, desiderosi di illimitato, ma consapevoli della nostra limitatezza e questo limite non è dato da niente e nessuno fuori di noi, né ce lo può dare solo la poesia, che spesso invece è trasporto, suggestione, incantamento, ma è dato dalla legge morale che è propria di ogni essere umano. Personalmente, pur lasciandomi cullare dalla poesia quando le ansie mi soffocano l’anima e pur rispettando profondamente la raffinatezza e la nobiltà della tua scelta, nelle decisioni importanti, nell’orientamento della mia vita preferisco ancora affidarmi alla ragione “critica”, a quella ragione “buona” che dà il limite a se stessa e che ancora può difenderci da quei monstruos che Goya ha descritto così efficacemente e contro i quali tutti noi, io e te, amico mio, combattiamo ogni giorno.
Teresa Simeone
Teresa Simeone insegna storia e filosofia presso il Liceo Artistico di Benevento. Collabora a «il Vaglio».
Il testo è rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione della presentazione di In quieta ricerca a Vitulano l'8 dicembre 2012.
lunedì 10 dicembre 2012
"In quieta ricerca" XIV
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