C’è chi, come Neruda, la ritiene
un “atto di pace”, chi la definisce “ostile più della prosa e della matematica”
e poi c’è Alfred de Vigny che la identifica addirittura come “una malattia del
cervello”; Baudelaire la riteneva necessaria per l’uomo più del cibo e qualcuno
la descriveva come “l’algebra superiore delle metafore”.
Uno, nessuno e centomila: a seconda dello sguardo rivolto
verso di lei (o del tutto a lei lontano), la Poesia viene considerata nelle
accezioni più varie e, spesso, inaspettate. Forse è proprio questo che la rende
incantata, metamorfica ed impenetrabile. Alberga bene tra le mura di Benevento,
a cui sembra legata da un file rouge che tiene strette arte e magia da sempre:
le streghe e le loro segrete ricette di unguenti scritti su fogli antichi,
Niccolò Franco e la sua irriverenza, l’abate Filippo De Martino con i
suoi versi che parlano di incantesimi…Nicola Sguera, professore di storia e
filosofia e grande appassionato della poesia, così ne parla: “La poesia è
sempre canto e incanto, ha sempre un rapporto con la “fascinazione”, così come
ha rapporti con l’alchimia. Più in generale io credo che nella poesia sopravviva
una visione alternativa del mondo (rispetto a quella dominante tecnica,
economicista, utilitarista) che potrebbe schiudere modalità di esperienza e di
vita completamente diverse da quelle attuali, distruttive delle relazioni tra
uomini e tra uomo e natura. La poesia non è solo un linguaggio “altro” ma è
anche una potente visione “altra” del reale”.
Conclusasi da poco la sua rassegna “Poesia in forma di
rosa”, [Nicola Sguera] ci racconta il perché dell’iniziativa e la reazione del
pubblico beneventano.
«Benevento non ha una tradizione
poetica o un poeta che ne connoti la storia in maniera indelebile (come accade
ad altre città di “provincia”, penso a Saba per Trieste, per fare un esempio).
Ma dare un luogo e un tempo alla poesia è segno di civiltà, quand’anche ad ascoltare
la lingua non utilitaria né compromessa con la chiacchiera della poesia fossero
due o tre persone riunite nel suo nome. Ho trovato, durante la rassegna, un
pubblico estremamente consapevole, capace di un raccoglimento e di
un’attenzione straordinari. Ci sono stati momenti della manifestazione in cui
davvero il clima era di rispetto quasi sacrale per le parole, spesso nude, che
si ascoltavano. Il problema è cercare di ampliare questa cerchia di
appassionati, raggiungere soprattutto un pubblico giovane».
Durante un incontro con uno degli autori, si è parlato dei
diversi “ruoli” che la poesia può svolgere. Avendo chiesto, quindi, al mio
interlocutore se della “rosa poetica” preferisce il profumo e il colore dei
petali che danno benessere agli animi e accarezzano l’edonismo o le spine dello
stelo che smuovono le coscienze e denudano la realtà, risponde:
«È segno di decadenza di una civiltà
che la sua poesia scinda questi due aspetti: la poesia deve essere sempre in
sommo grado bellezza, capace non di dare “sensazioni” gradevoli ma di scuotere,
e verità, sguardo appuntito sul reale, pur essendo gravido di utopia e
speranza. Il mio intento è stato quello di tenere insieme queste due
componenti, diffidando sia di una poesia che vuole attingere alla bellezza
“pura” e disincarnata (la linea che parte da Mallarmé per intenderci) sia di
una poesia che sacrifica all’“impegno” la sua sfida formale, spesso venendo
arruolata nello scontro ideologico (gran parte della poesia novecentesca ha
corso questo rischio)».
Interessante è anche il modo in cui parla del rapporto dei
giovani con la poesia:
«I ragazzi leggono moltissima poesia,
sin dall’infanzia. Finita la scuola, la poesia diventa un’estranea. Perché?
Probabilmente perché si insegna male, soprattutto da quando la pratica
strutturalistica (la famigerata analisi del testo) ha invaso le scuole, quando
anche i suoi padri fondatori come Todorov ne hanno riconosciuto i limiti se non
le aberrazioni. Quindi, in primis, bisognerebbe trattare la poesia come cosa viva,
che riguarda la nostra vita e non come cosa morta, da vivisezionare a mo’ di
cadavere. E poi bisognerebbe educare i ragazzi alla lettura della poesia del
proprio tempo. Ma per farlo, forse, gli stessi docenti avrebbero bisogno di
conoscere questa poesia, quella scritta, cioè, a partire dagli anni Cinquanta
in Italia e nel mondo. Quanti docenti di lettere leggono abitualmente Zanzotto,
Giudici, Raboni, Magrelli, Walcott o Harrison?».
Sui poeti emergenti di Benevento ci suggerisce un nome:
«Francesca Moccia, una poetessa già
notata da grandi nomi come Cucchi e Santagostini, personaggio che sembra
riproporre la figura del poeta visionario. Scrive versi potenti, sembra davvero
(a proposito di streghe!) un’ispirata. Invito tutti a leggerne i versi».
La poesia salva la vita: Sguera è molto affezionato a questa frase di
Donatella Bisutti, poetessa che spera di riuscire ad avere come ospite nel caso
avrà seguito “Poesia in forma di rosa”:
«Per me la poesia è stata salvezza
nel senso più profondo: salus (che tiene in sé anche l’idea della
salute spirituale). Ma voglio bilanciarla con un verso straordinario di uno
straordinario poeta di cui in questi giorni esce l’opera completa in Italia,
Yves Bonnefoy: «La parola non salva, talvolta sogna». Fosse anche questa la
funzione della poesia, preservare, in una civiltà utilitaristica, retta dal
solo “principio di realtà”, la funzione benefica del sogno (dell’utopia!), essa
sarebbe necessaria».
Insomma, ritorniamo all’eterna definizione della poesia
come “rosa necessaria”.
Una poesia...
«Tra le moltissime che accompagnano i
miei giorni te ne suggerisco una pochissimo nota di Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, padre del ben più famoso Andrej, l’immenso regista
di Solaris e Stalker, che tiene
insieme l’amore per la parola (preservata dalla corruzione) e l’amore
custodente (non panico in senso dannunziano, degenere) per la natura. La strofa
finale è meravigliosa»:
Imparavo dall’erba
Imparavo dall’erba, aprendo il
quaderno,
e l’erba come un flauto prendeva a
suonare.
La consonanza coglievo del colore e
del suono
e quando la libellula il suo inno
intonò,
passando tra i verdi accordi, simile
a una cometa,
compresi che ogni stilla di rugiada è
una lacrima.
Compresi che in ogni faccetta del suo
grande occhio,
in ogni iride dello smagliante
stridio dell’ali
dimora l’ardente parola del profeta
e, miracolo, svelai il segreto di
Adamo.
Ho amato il mio tormentoso lavoro, la
costruzione
di parole consolidate dalla loro
stessa luce, l’enigma
di sentimenti confusi e la semplice
soluzione
della ragione, nella parola verità mi
appariva
la verità in persona, la mia lingua
era viva
come l’analisi spettrale, le parole
si prostravano intorno ai miei piedi.
Dirò di più: tu che ascolti hai
ragione,
io sentivo un quarto di suono, vedevo
in penombra,
ma non umiliai né uomini né erbe,
non offesi con l’indifferenza la
terra avita;
mentre sulla terra lavoravo,
accogliendo
il dono dell’acqua gelida e del pane
fragrante,
su di me il cielo infinito indugiava,
sulle mie maniche cadevano stelle.
(L'intervista, a cura di Emi Martignetti, è apparsa su «BMagazine» nel maggio 2011.
La foto è di Alessandro Caporaso)
Nessun commento:
Posta un commento