sabato 4 dicembre 2010

diario occupazione II


Giovedì 2

Alle 10 sono al Rummo. Assisto all’incontro dei ragazzi con tre colleghe. Dissento su alcune questioni, ma trovo straordinari quei docenti che accettano di mettersi in discussione senza la rete del “potere” conferitoci da voti, registri, programmi. Tutto quello che normalmente insegniamo come astratta teoria chiede di essere incarnato. Se non ora, quando? Commentando la mia lettera aperta la signora Anna Romano scrive sul “Quaderno”: «Il disagio che mia figlia manifesta è la mancanza di idee da parte dei suoi compagni per dare un senso a queste giornate, ma a me sembra che manchi una componente fondamentale di quella scuola, e cioè i docenti! Dove sono? Perchè non sono con loro e li aiutano a capire come ha fatto lei, che gira per i vari istituti? La fiducia dei propri alunni la si guadagna stando al loro fianco sempre, soprattutto in questi momenti». Aiutare a capire… Questo dovrebbe essere scritto nel nostro ideale “giuramento di Socrate”, cui ogni docente dovrebbe essere chiamato all’inizio della sua carriera.
Iniziamo a vedere (con la LIM, la lavagna luminosa multimediale, destinata a cambiare le modalità dell’insegnamento nei prossimi anni) Capitalism. A love story. Spiego rapidamente ai ragazzi chi è Michael Moore, i suoi documentari sull’uso dell’armi in America, sull’11 settembre, sul sistema sanitario, il suo radicalismo democratico. Seguono in raccolto silenzio. Non parliamo della rivoluzione (o forse sì), ma cerchiamo di “capire” (insieme) il nostro tempo. Lo spiego anche a due rappresentanti dei genitori che sono venuti, intelligentemente, a vedere con i propri occhi.
Alle 16,30 sono al Giannone, la scuola nella quale ho insegnato negli ultimi anni. La maggior parte degli occupanti sono impegnati in un’assemblea interistituto al Guacci. Leggo ai ragazzi presenti la mia Lettera aperta, esprimo la mia posizione. Li ascolto. Il maggior disagio è nato in loro dall’atteggiamento dei professori. Non c’è stato dialogo, anzi, momenti di tensione forte il giorno dell’occupazione. L’atteggiamento dialogico e aperto della Dirigente ha evitato degenerazioni. Li sprono a chiedere un incontro ufficiale con la componente docente per spiegare le ragioni del movimento. Sono convinto che solo l’azione sinergica di tutte le componenti della scuola potrà avviare un processo di autoriforma. Li lascio con una riflessione di Edgar Morin (il cui La testa ben fatta invitava i ragazzi a «prendere in mano la loro educazione»), sulla necessità di una riforma del sapere che proceda di pari passo con una riforma dell’istruzione: «Abbiamo bisogno di riarmarci intellettualmente, istruendoci per pensare la complessità e per tentare di pensare i problemi dell’umanità nell’era planetaria».
Vado al Guacci, dove trovo una situazione ancora diversa dalle altre. Qui il gruppo “consapevole” è abbastanza ridotto. Predomina la componente ludica. Ci mettiamo in un’aula piccola. Ci raggiunge la collega, riflettendo con la quale è nato tutto. Trovo quest’atteggiamento ammirevole. Non è persuasa di quel che i ragazzi fanno ma c’è, è presente, si mette in discussione. Chiedo ai ragazzi e alle ragazze di parlare, di raccontare la loro esperienza. Emergono entusiasmo per l’“impresa”, delusione per la risposta del corpo dell’Istituto. Dai nostri interventi emergono alcune proposte agibili per il futuro: la costruzione di una redazione e di un giornale di istituto, la proposta di momenti di cogestione con la partecipazione attiva dei docenti, grazie anche alla grande disponibilità del Dirigente, l’avvio di un cineforum pomeridiano e di incontri periodici di approfondimento sull’attualità e di invito alla lettura. Sono i piccoli gruppi consapevoli che cambiano la realtà…

Venerdì 3

Alle 10 sono al Rummo. Completiamo la visione del documentario di Moore, sui disastri del turbocapitalismo americano, la crisi del 2006. Ho preparato una breve discussione sulla “decrescita”. I ragazzi non ne sanno nulla. Parlo loro di Ivan Illich e di Serge Latouche. Più che discutere l’impalcatura teorica del movimento, cerco di fare proposte operative: comprare una caraffa filtrante e iniziare a bere l’acqua di casa, preparare cibi (come lo yogurt) a casa, ipotizzare di sostituire lo scooter con una bicicletta elettrica… Ma soprattutto iniziare quel complesso lavoro di “decolonizzazione dell’immaginario” senza il quale il mondo delle “merci” con i suoi lustrini continuerà a dominare dentro di noi. E, filosoficamente, iniziare ad incrinare il mito del “progresso”, che da Bacone infesta la cultura occidentale. Indico loro i siti dove approfondire l’argomento. Chiudo sollecitandoli a raccontare l’esperienza che stanno vivendo, e parlo loro di questo Diario. «Trovate le vostre parole per spiegare, fuori di qui, che cosa sta accadendo». La discussione continua con alcuni dei ragazzi, turbati da queste proposte. Mi rendo conto, parlando con loro, di quanto sia difficile scalfire la “cultura” del consumo, delle merci, del progresso, della velocità che soprattutto i media hanno inculcato in loro, il pensiero unico. Il ruolo di educazione alla “resistenza” degli insegnanti è decisivo.
I ragazzi si spostano in massa per partecipare al corteo con le altre scuole.
Penso a cosa fare il pomeriggio con loro. Mi piacerebbe ragionare sulla forza trasformativa della grande poesia, leggere Dylan Thomas e René Char (caro dottor Del Vecchio, i ragazzi sono affamati di poesia, mi creda, e forse anche di rivoluzione; forse avrebbero bisogno di adulti in dialogo piuttosto che di laudatores temporis acti e dei loro sprezzanti giudizi). Mi arriva un messaggio: salta tutto per il pomeriggio.
Non so cosa accade e accadrà domani. Non so quando i ragazzi termineranno l’occupazione. Per rispetto nei loro confronti non partecipo mai alle assemblee. Li condizionerei. Aspetto trepidante lo sviluppo degli eventi.

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