Il mio amico don Giancarlo, in occasione del ritrovamento dei due angeli sottratti anni fa alla sua chiesa, mi ha chiesto una riflessione sull’angelo nella poesia. Ne è scaturita, come sempre mi accade, un ibrido, in cui ho manifestato il mio disagio rispetto ad una chiesa sempre più sorda al dialogo (in diverse direzioni), la mia concezione della poesia (appresa da Marco Guzzi) come linguaggio privilegiato dello spirito, nel secolo in cui il logos intorno a Dio si è come sclerotizzato, la necessità di meditare l’invisibile, nel tempo idolatrico che ci troviamo a vivere, dove trionfa l’immagine, dove solo il visibile è, l’urgenza di ridare centralità all’ascolto piuttosto che alla vista (l’angelo come annuncio, l’apertura del nostro “Io mariano” all’ascolto della parola).
Ho letto, poi, la IX elegia di Rilke, in cui viene affermata la superiorità dell’uomo, custode dell’effimero attraverso la parola, che realizza la metamorfosi del visibile nell’invisibile.
Ho letto una frammento del Corano, bellissimo, in cui Dio afferma la superiorità dell’uomo, che conosce tutti i nomi di Dio e delle cose, sugli angeli.
Ho evocato Il cielo sopra Berlino, il sapore del sangue, il calore del primo caffè, l’angelo che volle farsi uomo per sperimentare fino in fondo l’amore e la sua fragilità, il suo precario equilibrio sul mondo, senz’ali.
Ho chiuso con la folgorante affermazione, invito ad essere fedeli alla terra, di Dietrich Bonhoeffer, secondo il quale solo chi vive con tutte e due i piedi sulla terra vivrà con tutti e due nel regno dei cieli.
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