giovedì 7 dicembre 2023

Un'altra risposta a Gianluigi Panarese su capitalismo, democrazia, decrescita [πολιτική]

 


Il collega e amico Gianluigi Panarese risponde alle mie riflessioni. Riporto quanto scrive integralmente.

 

Caro Nicola,

1) la Repubblica certamente non è "organo bolscevico(se così fosse potrebbe accampare qualche merito), quanto organo del “più grande partito radicale di massa”, pannellianamente in totale confusione di idee, sostenendo tutto e il contrario di tutto, secondo come tira il vento.

Venendo a Galli e al suo libro, io noto che dietro quel titolo non si capisce bene se c'è una reale preoccupazione per una possibile fine della democrazia o un sottile (subdolo) compiacimento per la sua scomparsa.

Lo dico perché sappiamo bene che non pochi tra intellettuali, politici di ogni specie, giornalisti etc., guardano ,con un malcelato ed inquietante interesse , ad esperienze politiche che portano sulla “via della seta” o sulla strada di autocrazie (giusto per non chiamarle con il loro nome: tirannie). Ripeto: il dubbio resta.

Che le democrazie siano in crisi mi sembra evidente, la ricetta sul come uscirne non è chiara.

Certo chiudi il primo punto scrivendo che la “democrazia è la regola e il perimetro entro cui realizzare società più o meno uguali”, ma lasciando intendere che la democrazia si presta ad essere strumentalizzata per il l'interesse e l'egoismo di alcuni a scapito di altri. È evidente che la democrazia non è il migliore dei mondi possibili, tuttavia ti garantisce un “perimetro “entro cui puoi lavorare per limitare e contrastare proprio quell'egoismo, che resta comunque un tratto ineliminabile della natura umana, così come altri poco piacevoli. Solo certe utopie hanno pensato di estirpare il Male dal mondo, ricorrendo però a un male peggiore.

Per chiudere confesso che amo leggere e trovo più concreto Giovanni Sartori (ahimè scomparso) che non Galli.

2) Sulla decrescita, conviviale o felice che sia, confermo che è parola vuota, priva di qualunque contenuto e così ritenuta universalmente , dal momento che non c'è nessuno Stato, Governo etc. etc. , che abbia mai preso in considerazione una simile fantasia. Almeno io non ho mai sentito parlare di politiche economiche volte alla decrescita da parte di chicchessia. Sento al contrario di come creare politiche economiche espansive, per motivi del tutto ovvi. Dopodiché la crescita economica si deve assolutamente armonizzare con il rispetto per l'ambiente (la tecnica e la tecnologia sono in grado di fornirci gli strumenti all'uopo) e con la difesa del lavoro dignitosamente retribuito. Ma questo è semplicemente (si fa per dire) compito della Politica, lo sarebbe soprattutto di una parte politica che invece è stata latitante negli ultimi decenni ed è ora in tutt'altro affaccendata. E mi taccio!!

È vero sono legato alla cultura della terra ed è per questo che non corro dietro a cose fantasiose, come ad esempio la cosiddetta “agricoltura biologica”. Chiunque conosca un po' il mondo agricolo sa che non si può produrre nulla biologicamente su larga scala per milioni di persone, se non miliardi, semplicemente perché ci sarebbero carestie in breve tempo. Il biologico è un lusso che si possono permettere quelli producono per sé e che si accontentano di quel poco che riescono a ricavare da una coltura non trattata con pesticidi e concimi chimici. Ma questi sono irrinunciabili se si deve pensare a riempire decine di migliaia di scaffali di supermercati con tonnellate di prodotti alimentari tutti i santi giorni.

Scrivo questo per dire che credere alla decrescita felice/conviviale è come credere all'esistenza di una agricoltura biologica capace di sfamare milioni di persone. Pura illusione.

Anche qui, è chiaro che l'uso dei prodotti chimici non può avvenire in modo indiscriminato e senza il rispetto di norme che da noi (ripeto da noi in Italia, altrove non so) ci sono.

3)e vengo alla questione capitalismo, che non rappresenta certo la fine della storia né, anche qui, il miglior sistema economico delle galassie.

Eppure negli ultimi 100 anni l'umanità è cresciuta esponenzialmente arrivando a quasi 8 miliardi di persone, l'età media quasi ovunque si alzata come non mai, decine di paesi sono usciti dalla povertà o sono sulla punto di uscirne, le carestie sono sempre meno frequenti nei paesi che abitualmente andavano incontro a queste sciagure, e potrei continuare.

Ebbene se così è, non lo è stato per opera e virtù dello Spirito Santo, ma perché il tutto è avvenuto in un modo o nell'altro proprio grazie ad un sistema economico di successo, che certamente ha creato distorsioni e problemi giganteschi, ma che ha pure garantito un benessere ed uno sviluppo diffuso (rendendo da questo punto di vista paradossalmente sempre più marginale l'Europa stessa, culla del capitalismo) che non è sic et simpliciter solo il portato “di una violenza invisibile altrove”.

Concludi chiedendoti se il capitalismo è disposto a lasciarsi imbrigliare, dopo che lo è già stato per il passato.

Se ciò è avvenuto a costo di “dure lotte” può accadere di nuovo. Se qualcuno “ha rotto le catene tra politica ed economia” , queste si possono saldare di nuovo. Cosa lo impedirebbe?

Caro Nicola, alla fine di tutto e tirando le somme non abbiamo fatto altro che, come in un gioco dell'oca, tornare alla questione più importante di tutte che ruota intorno alla necessità di difendere e rilanciare quello che resta dello stato sociale/ welfare state.

Ma come ben sai il più grande partito radicale di massa ha preferito trastullarsi con ben altre tematiche meno compromettenti, finché “il cavallo non è fuggito dal recinto” e così ci siamo ritrovati con uno Stato ridotto sempre più all'osso, frantumato e disarticolato in quasi tutte le sue strutture.

Con la sua scientifica disarticolazione è saltata pure quel poco di “società stretta” che nel secondo dopoguerra le varie forze politiche avevano provato a costruire.

In tutto questo il capitalismo c'entra, ma ancora di più c'entra una diffusa pusillanimità... e tanto altro.

 

Vado per ordine e punti anch'io.

 

1) «la Repubblica», che non mi ha mai appassionato nelle sue scelte di fondo, pubblica spesso interventi di rilievo che val la pena meditare. Quello di Galli rientra in tale tipologia. Il suo libro, lungi da l'essere un de profundis della democrazia, è un invito al lavoro critico per rinnovarla, dal momento che una delle sue configurazioni storiche (la democrazia “neoliberista”) si sta esaurendo. Indica, dunque, una serie di condizioni proprio perché l'Europa non diventi una “post-democrazia” o una “democratura”.

Negli anni ho maturato, attraverso studi, letture, pratica diretta che la democrazia è un campo conflittuale e che non esiste nessun “universale” (come la classe dirigente ipotizzata da Hegel) che possa essere super partes. In particolare, lo studio appassionato di pensatori populisti come Laclau e Mouffe mi ha insegnate a vedere la democrazia con inevitabile campo di conflitti. Ma già Machiavelli insegna, nei Discorsi (Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica, I,4) come la dialettica sia motore di progresso civile. Altrove l'ho definita una concezione “eraclitea” della politica, in cui la tensione viene vista non come fonte di στασις (è, al contrario, la concezione platonica che esalta la “giustizia” come equilibrio tra le classi, meglio caste nella sua spaventosa utopia). E, sempre per rimanere in tema di utopia, ho maturato negli anni l'idea che essa sia necessaria come idea regolativa, divenendo perniciosa quando la si vuole realizzare concretamente. 

2) Sulla decrescita. Temo che le criticità create da agricoltura intensiva e chimica, il supersfruttamento della terra, linquinamento di acque e aria, costringeranno ad una revisione radicale del nostro modo di abitare il mondo. Mi auguro che la tecnica aiuti in questa “transizione” (come si usa chiamarla), ma la lettura di alcuni maestri (penso soprattutto ad Illich) mi ha induce a credere che sia necessario un mutamento di paradigma, un'idea completamente diversa del ruolo dell'uomo nel mondo, un mutamento di sguardo (e qui il discorso si amplierebbe alle radici filosofiche del dominio tecnico e distruttivo dell'uomo sulla natura, ne parlo spesso e volentieri). Il “biologico” non è un lusso ma la forma che (ri)assumerà l'agricoltura del futuro, che tutelerà la diversità e porrà fine a disastrose monoculture. Produrre cibo cheap, per altro, è uno dei modi in cui l'economia capitalista ha sorretto il suo progetto “cannibalico”, che sta portando, purtroppo, il pianeta al disastro ecologico. Forse andrebbe rivisto anche l'approccio “bulimico” nei confronti del cibo attraverso una sana opera di prevenzione medica (una medica meno condizionata dalle grandi case farmaceutiche e più preventiva che curativa) educando a mangiare meno, meglio e in maniera sana. È un caso che l'obesità sia così diffusa tra le persone meno attrezzate culturalmente? Io credo di no. E vedo un lavoro sinergico in cui il cambiamento di abitudini alimentari (che è... salute!) trasformi anche l'agricoltura planetaria, e la tecnica consenta di superare l'orrore quotidiano di miliardi esseri immolati per nutrirci. Mi auguro che la carne “coltivata” consenta una svolta radicale in tal senso. Infine, non è secondario che l'agricoltura non intensiva e monoculturale tutela la biodiversità e le tradizioni locali. 

 3) Il capitalismo. Come sistema economico nasce nel XIV secolo, ha una complessa storia interna che ha portato un arricchimento non omogeneo di alcune parti del pianeta. Pericoloso dimenticare che ciò che esalti del capitalismo (occidentale) è avvenuto (almeno dal 1492) con costi umani spaventosi (ricordo solo il genocidio amerindo e la tratta di milioni di esseri umani tra Africa e Americhe). Il punto (e ti rimando agli illuminanti studi di Arrighi o della Fraser) è che il capitalismo non può esistere senza estrarre ricchezza attraverso lo sfruttamento non solo dal lavoro salariato ma anche, in maniera invisibile, dallo sfruttamento delle donne, della terra, delle periferie imperiali. 

Sulle conclusioni posso essere d'accordo. Certo, è necessario rilanciare la lotta per i diritti sociali e civiliÈ una delle strade possibili. Il mio pessimismo riguarda la volontà da parte degli agenti del capitalismo contemporaneo di accettare “limiti”, di ritornare nell'ovile del compromesso che ha retto l'Occidente tra il 1945 e il 1975 (circa). Certo, c'è una responsabilità soggettiva dei partiti socialisti europei in particolare (penso al partito socialista della seconda presidenza Mitterand, alla SPD tedesca, ovviamente al PCI italiano). Ma anche un oggettiva controffensiva del pensiero liberista, incarnatasi in teorie economiche egemoniche divenute prassi («la società non esiste»). E, ancora, le trasformazioni tecnologiche (in particolare, la rivoluzione informatica) davvero dirompenti.

Non ho ricette semplici, ma il desiderio di capire quanto sta accadendo, e di dare un contributo sia come educatore (insegnando ai miei allievi a decifrare il proprio tempo così opaco) sia in forme di attivismo civile e politico alcune delle quali già sperimento e altre che spero di incrociare nel mio complesso percorso, senza garanzie, di impegno. 

 


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