giovedì 4 dicembre 2025

Ciervo su "Euthymios" (II parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

“CHI DICONO GLI UOMINI CHE IO SIA?”(Mc, 8-27)

Leggendo il libro di Nicola questa domanda - che Gesù rivolge ai suoi discepoli e che risuona attraverso i secoli fino ad oggi, conservando sempre la medesima attualità –  è di nuovo ritornata. Gesù e il suo messaggio sono il fondamento della storia da una ventina di secoli a questa parte. Non possiamo immaginare di smontare, dalla storia di gran parte del mondo, la sua figura. Che ha generato fedi profonde, straordinarie nelle vite di milioni e milioni di persone, umili o coltissime, ma anche multiformi posizioni di dubbio, di rigetto, di rifiuto. Ma anche chi si è mosso o si muove in questa linea non potrà mai smettere di farci i conti. Completamente umanizzandolo, certo, come Tolstoj, per il quale è l'incarnazione di un ideale morale altissimo, o come il giovane Hegel  che calibra il suo Leben Jesu  sul kantismo e dunque  Gesù è presentato come un supremo maestro di etica, vero simbolo dello spirito umano, o come un perfetto e superiore Socrate in Rousseau, o la figura “dolce e semplice” contrapposta alla rude e severa intolleranza dell'istituzione per Voltaire, o, infine, il portabandiera dei cuori puri, dei sofferenti e dei falliti secondo Nietzsche.

Nicola fa i conti con questa domanda, ricordandoci che il suo libro, benché scritto in pochi mesi, è il frutto di un ventennio di studi e di letture approfondite sulle questioni del “Gesù storico”.

Allora mi sembra utile offrirvi alcune indicazioni, qualche linea-guida, come nelle ordinanze ministeriali dell'Istruzione e,  ahimè, del merito, che per me sono indicative per affrontare l'opera di Sguera.    

Quali sono le differenze tra il Gesù storico e il Cristo della fede?

Il teologo evangelico Rudolph Bultmann le riassume nei seguenti punti:

1) Invece della figura storica di Yeshua, la predicazione apostolica – il kerygma -  ha scelto la figura mitica del Figlio di Dio;

2) La predicazione escatologica sul regno di Dio, fatta da Yeshua, è sostituita con l'annuncio del Cristo morto in croce e risuscitato da Dio per la nostra salvezza.      “Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor) Aggiunge Leonardo Boff: Gesù predicò il Regno, la Chiesa predica il Cristo. Il predicatore è ora predicato.  

3) E all'obbedienza radicale e alla vita fondata sull'amore totale voluti da Gesù, subentrò la dottrina sul Cristo, sulla Chiesa, sui sacramenti.

Ciò significa in breve che l'unica cosa che conta, per quest'approccio, l'unica cosa che vale è che Gesù visse e che morì in croce. Soltanto ciò interessa alla fede. La storicità oggettiva non interessa.

E tuttavia, per quanto suggestiva possa essere questa visione, è indubbio che tanti problemi apre.  Su cosa si fonda il kerygma, ossia l'annuncio? E' possibile distinguere la predicazione su Yeshua  dalla visione di un gruppo che si  costruisce, si struttura intorno alla sua figura? Nella sua introduzione al volume Le parole dimenticate di Gesù, Mauro Pesce – opportunamente citato da Nicola come uno dei suoi principali riferimenti – si chiede: “Che cosa hanno significato per la chiesa antica le parole di Gesù? E, ancor prima che cosa hanno significato quelle parole per le prime generazioni di discepoli  che non lo avevano conosciuto?

Dal punto di vista storico un groviglio di problemi su cui tuttavia gli storici continuano e continueranno a lavorare.

Prendo come riferimento il lavoro dello storico napoletano Giorgio Jossa, già docente della Federico II e della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale. Jossa ha  dedicato studi importanti alle  origini del cristianesimo,  alla figura storica di Gesù, e alla nascita della cristologia. Di particolare rilevanza sono i suoi studi sui gruppi giudaici al tempo di Gesù e sulla ricostruzione dell'ambiente della sua predicazione, soprattutto in merito al problema del Gesù messia. Dunque i suoi contributi si inseriscono nella complessa e articolata ricerca delle relazioni tra storia e fede, ossia tra ricostruzione storica e costruzione dogmatica.

Secondo Jossa Gesù inizia la sua missione pubblica come discepolo del Battista, in Giudea. Ne condivide le posizioni escatologiche e apocalittiche sul giudizio imminente di Dio e la necessità della penitenza e del battesimo. Probabilmente anche l'attesa di un Masiah incaricato del giudizio. Quando Giovanni è arrestato,  dà vita in Galilea ad una missione autonoma molto diversa da quella del Battista, incentrata sull'annuncio della venuta imminente del regno - terreno  -  di Dio. Ricordate  una delle scene del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, con un Gesù che cammina tra i campi ripetendo: Ravvedetevi,  il regno è vicino. A causa del successo della sua predicazione, unito alla sua attività taumaturgica, con le varie guarigioni, Gesù assume posizioni sempre più radicali nei confronti della legge di Mosè, ne motiva il fondamento con i farisei e si presenta come l'ultimo e decisivo inviato da Dio prima dell'avvento del suo regno. Ma dalla Galilea, terra costituita da piccoli artigiani, contadini e pescatori, molto poco influenzata dalla cultura greca, e senza alcun potere economico e politico, Gesù va a Gerusalemme, dove però le cose precipitano e dove comprende  che l'avvento del regno non è poi così vicino e che Dio vuole che egli debba prima passare attraverso la morte. Durante l'ultima cena  riafferma la sua fede nell'avvento del regno celeste  e indica nel suo sangue il segno della nuova alleanza che Dio stabilisce con il suo popolo. Questa la possibile ricostruzione del Gesù storico.   

Euthymios è testimone di tutto questo. Discute con Yeshua e, nel racconto, ha un ruolo chiave che qui non vi ovviamente svelerò.           

La prima prova di romanziere è brillantemente superata. Lo sviluppo del suo racconto  ha un  fascino tutto particolare. Per esempio con la ricostruzione, quasi da etnologo, della vita quotidiana dei suoi personaggi,   con la profonda conoscenza  dell'erbario medico, con la descrizione delle pratiche mediche del protagonista.  La scrittura è pacata, dolce, senza barocchismi. Curata come può curarla chi ha un'antica dimestichezza con la poesia. Che, immagino,  resta la vera vocazione di Nicola. .

La  storia si dipana tra l'orgogliosa ricchezza della civiltà greca, con le sue vette ineguagliate, in ogni disciplina possibile, dalla filosofia alla medicina e quella ebraica, con tutte le sue sfaccettature  politico-religiose.  E la medicina ippocratica è la base di partenza. Con l'affermazione tra le altre di entrare in ogni casa “per il sollievo dei malati, e di astenersi  da ogni offesa e danno volontario, e da ogni atto libidinoso sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.”

Dunque attenzione al corpo e alla coscienza delle persone. Due “mondi” che la modernità  e la tecnica hanno scisso, separato, sulla scia della separazione tra res extensa e res cogitans individuata dal Cartesio non a caso indicato, da Hegel,  come il  fondatore della filosofia moderna. Ma, in realtà -  è l'aspirazione del medico greco -  dovrebbero procedere insieme. Per un medico il dialogo è fondamentale, pensa Euthymios. Si cura una persona, non si cura un corpo, o un arto.

Ma chi è veramente Euthymios? Credo di conoscere molto fondo l'Autore per pensare che dietro  molti dei pensieri-guida del medico ci sia lui, Nicola. La sua particolare visione del mondo, le sue scelte anche radicali, i suoi tagli, il suo procedere in avanti si fondano su ciò su cui, per  Joseph Ratzinger, Benedetto  XVI, che cita Salomone, deve basarsi “il regno di Dio che viene”: il cuore docile. Nicola ha davvero un cuore docile, come Euthymios.

Concludo: sabato pomeriggio mi sono fatto coraggio e sono andato a visitare un mio amico ricoverato  in una clinica vicino Napoli. Devastato dalla SLA. Una condizione terribile. Mi sono passati davanti i momenti più belli che abbiamo vissuti insieme, facendo musica. Ma è stata anche l'occasione di meditare, alla maniera di Pascal, sulla nostra condizione. E così continuo, misteriosamente,  a rispondere, a differenza di Nicola, come Pietro,  all'altra domanda che Gesù pone ai suoi -  “VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?” - Domine, ad quem ibimus? Verba vitae aeternae habes.  Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita.

“Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”,  scrisse don Lorenzo Milani,  nell'ottobre del 1958. È una scommessa? È una speranza? Non so. Certo siamo travolti da un senso  profondo del mistero. Del mysterium fidei. Intanto però – e chiudo davvero – tra le parole non dette di Gesù un frammento riportato dal Papiro di Ossirinco  recita: “Se vi è luce in un uomo illuminato, splenderà in tutto il mondo. Se non darà luce, è un uomo di tenebra.” So per certo che Nicola Sguera è un uomo illuminato. E, con il  suo libro, splende. Non so se in tutto il mondo. Di sicuro splende nel nostro mondo. E ciò potrebbe essere già sufficiente.  






mercoledì 3 dicembre 2025

Riflessioni su "Euthymios" [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


1. Ringrazio chi ha reso possibile che questo evento accadesse proprio qui, in uno dei luoghi della memoria che mi sono cari: nella chiesa che sorgeva un tempo qui sopra i miei genitori si sposarono, qui io, fanciulletto, stonai e ricevetti medaglie dorate per i miei discutibili successi scolastici. 

2. Grazie a lettori di eccezione. Il fatto stesso che Euthymios sia stato letto da queste quattro persone già in qualche modo ne giustifica l’esistenza, anche se nessun altro dovesse leggerlo. I quattro sono stati preceduti da una lettrice speciale, che mi ha sostenuto nei mesi complessi che vanno dalla redazione alla pubblicazione: Paola Maglione, amica e collega, il cui valore per me non posso definire. 

3. Euthymios è nato da un accadimento: da una piccola catastrofe che si è rivelata essere, probabilmente, la più grande opportunità della mia vita. Pensavo di appartenere esclusivamente alla scuola, ora sento di appartenere – oltre che a mia figlia e a mia moglie – quasi esclusivamente alla scrittura. E spero non suoni per voi come una minaccia! Senza disertare nessuno dei “mandati” che ho abitato per anni, continuando dunque ad essere auspicabilmente un marito presente ai bisogni dell’altra, un padre attento, un educatore responsabile, ho deciso che il “quarto tempo” della mia vita sarà dedicato a scrivere consapevolmente, rimanendo fedele all’opera, alla parola, al bisogno di verità e bellezza che da sempre mi hanno ispirato. Nulla dies sine stilo

4. Euthymios fa i conti con una rovello ventennale.  Chi è stato veramente Gesù?  Da questo domandare è fiorita una storia, largamente autonoma dal suo nucleo genetico. A voi giudicarla. Non posso aggiungere nulla a ciò che ho scritto.

5. Io sono intimamente “cristiano”, fecondamente ed ereticamente cristiano. La mia lingua è intrisa delle parole della Bibbia, il mio ethos filia dalle parole meravigliose di Gesù. Ma io non credo. Spero. 

6. Euthymios non nasce da una riflessione sul senso dello scrivere narrativa oggi. È nato di getto, come detto, in mesi “matti e disperati” (in senso buono) con i tratti del “furor” bruniano e dell’“eroismo” platonico. Ci sarà il tempo per questa riflessione. 

7. Scrivere un romanzo (e cimentarsi oramai quasi quotidiana-mente con la scrittura di racconti) impegna anche la mia scrittura poetica da cui sparirà ogni riferimento autobiografico a partire dalla prossima raccolta, cui sto lavorando. A proposito: a Pomezia, la settimana prossima, sarà premiata Una luce che risplende in luoghi oscuri. Il premio sarà la pubblicazione. La mia quinta raccolta di versi.

8. Sto partecipando, come molti di voi sanno, a premi: di ogni tipo, con risultati discreti. Non è vanagloria. Vi prego di credermi. Solo la volontà di “mettermi a bottega”, non avendo tempo né voglia di frequentare scuole di scrittura in cui un sessantenne apparirebbe abbastanza ridicolo. Nel contempo, è necessario sotto-porsi al giudizio: la provincia, non solo la nostra, è piena di scrittori e artisti che si autoproclamano tali. Vorrei provare ad evitare questo rischio.

9. Sarò felice se qualcuno mi scriverà riflessioni, anche (direi soprattutto critiche) e mi farebbe piacere poterle pubblicare sul mio blog. 

10. E quindi, per concludere, grazie a tutti voi che avete sacrificato tempo prezioso per essere qui. Nella sfida di andare oltre in confini confortevoli in cui per tredici anni, da quando, ancora qui, presentai alla città il mio primo libro, ho vissuto, sapere che c’è un nucleo saldo di amici che mi supporta è forza.

(Teatro “De La Salle”, 1 dicembre 2025)





martedì 2 dicembre 2025

Ciervo su "Euthymios" (I parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

Una sera di dicembre, nel 2012,  ero su questo palco, a presentare il primo libro di Nicola. Il fatto che siamo ancora qui, tredici anni dopo, in un certo senso ci rassicura e ci dà coraggio perché – immagino – tutti amiamo la vita e nonostante praticare la filosofia – come si dice  nel Fedone platonico, equivalga ad un apparecchiarsi alla morte -  magari ve lo scrivete, come suggerisce Massimo Troisi -  l'augurio è di restare saldamente afferrati al suo contrario cercando di godere, il più efficacemente possibile, dei doni che essa ogni giorno ci offre. E così dovremmo cercare di  imparare, giorno dopo giorno,  ad attraversarne la tragicità, a reagire sempre all'insensato, all'assurdo che c'è nel mondo, di cui una buona parte di responsabilità è giusto farla ricadere su di noi e sui nostri simili. In ogni caso questo tempo c'è dato da vivere e  questo tempo dobbiamo vivere. Un libro come questo serve innanzitutto a questo.  

Quand'eravamo giovani spesso ci capitava di dare vita a un gioco divertente. Ci domandavamo a vicenda: Quale situazione,  in un tempo lontano, ti sarebbe piaciuto vivere?

Di solito avevo quattro – cinque risposte.   

Essere ad Atene nelle Grandi Dionìsie del 423 a.C. Seduto accanto a Socrate durante la prima delle Nuvole di  Aristofane per vedere le reazioni del filosofo mentre gli attori si divertivano con  spietatezza satirica, a “percularne” la figura pubblica.       

Oppure, nel 1252,  a Parigi, per assistere alle lezioni di   Tommaso d'Aquino che principiava a commentare il fino a qualche anno prima vietatissimo Aristotele.

O ancora, sul finire del Quattrocento,   attraversare con Giovanni Bockeneim, il maestro delle cerimonie papali, le sale dell'appartamento Borgia, e incontrare il  papa Alessandro VI, di cui si disse “Mai si vide il più carnale homo”,     magari in compagnia di Giulia Farnese, la donna più bella di Roma, sorella di quell'Alessandro Farnese, poi Paolo III, a più riprese amministratore dell'arcidiocesi di Benevento.  

O infine assistere, il 3 dicembre del 1792,  al discorso di Robespierre alla convenzione:  “Qui non c'è da fare un processo. Luigi non è un imputato; voi non siete dei giudici; Voi siete e non potete essere altro che uomini di Stato e rappresentanti della nazione.”

Lo scrittore che mette mano a un romanzo storico – in fondo – fa un gioco simile. Si sceglie un tempo storico, ne seleziona dei personaggi, alcuni li inventa, con la sua fantasia creativa,   altri sono realmente esistiti.  Con loro gli sarebbe piaciuto condividere tempo e storie. Di essi scandaglia in profondità il carattere, ne ripercorre  i passaggi le loro azioni più significative, specialmente quelle in grado di modificare in profondità le vite e le esistenze degli altri uomini. Le azioni che non ci  fanno tornare indietro. A nessuna età dell'oro, se mai ci sia stata una qualche età dell'oro nelle vicende umane. O magari a pensare follemente di costruirla.

Il libro di cui parliamo stasera è un romanzo storico. E chi lo ha scritto è un mio amico carissimo. E per il suo primo romanzo storico ha mirato in alto. Altro che Socrate – che nel libro più volte è ricordato, anche in una delle scene-madri che non rivelerò per non togliervi il gusto di scoprirla da voi leggendolo, il libro – ; altro che Tommaso o papa Borgia – ma anche un futuro papa nel libro c'è, e pour cause, o Robespierre. Nella storia di Euthymios, medico greco di grandissime qualità e profonda esperienza, il vero personaggio principale, sottotraccia, è Yeshua, cioè Gesù.

Nicola Sguera con il suo libro mette le mani in una materia assolutamente incandescente.     


venerdì 14 novembre 2025

Presentazione di "Euthymios" [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

Presentazione


Per introdurre il mio romanzo Euthymios, il medico greco che conobbe Yeshua, pubblicato da Bolis e distribuito da Messaggerie, rispondo ad alcune domande che mi ha rivolto una collega e prima lettrice, Paola Maglione.


Come è nato il romanzo


A febbraio ho lasciato ogni impegno nella mia scuola, in aperto dissenso con la sua gestione: un dissenso che esprimo anche in un saggio premiato al "Loris Malaguzzi".

Avendo più tempo e restando “solo insegnante”, mi sono dedicato alla scrittura narrativa, un terreno per me nuovo.

Scrivo da sempre – poesia e saggistica – ma la narrativa è stato un ritorno alla mia passione per le storie, coltivata fin da ragazzo.

L’idea di Euthymios nasce dal mio interesse ventennale per la questione del Gesù storico: un interesse che si accese dopo la lettura del dialogo tra Augias e Mauro Pesce.

Ho scelto di affrontare il tema non direttamente, ma tramite lo sguardo esterno di un medico greco, figura mediatrice tra mondi e sensibilità diverse.


Il significato del nome e il carattere di Euthymios


Euthymios significa “di buon animo”, “colui che dà coraggio”. È il nome ideale per un medico.

In lui ho riconosciuto – e proiettato – parti di me:

- il desiderio di rassicurare, da insegnante e da padre;

- insieme un’intima inquietudine, che mi accompagna da quando ho memoria.

Come Bonhoeffer, mi riconosco nella tensione tra ciò che trasmetto e ciò che vivo dentro. Euthymios incarna questo duplice registro.


Gli incontri storici di Euthymios


Nel romanzo il mio protagonista incontra Celso, Giovanni Battista, Pietro, Paolo, Giuda, Pilato, Gesù, Seneca.

Lo conduco in Israele attraverso vicende che lui legge come destino.

In Terra d’Israele esplora la pluralità dell’ebraismo dell’epoca: Esseni, Farisei, Sadducei, Zeloti, la comunità del Battista.

Riprendo una tesi storica importante: Gesù fu un discepolo del Battista, poi capace di trasformare e superare il messaggio del maestro.


Gesù/Yeshua e Seneca nella mia formazione


La sua figura è decisiva per la mia vita interiore: non posso pensarmi senza di lui.

Mi definisco totus christianus, ma in modo eterodosso, persino “eretico”.

Il Gesù del mio romanzo è umano, complesso, mistico, lontano dalle letture semplificanti:

- prega da solo,

- è inquieto,

- è in conflitto con la famiglia,

- non si considera Dio né figlio di Dio.

Sapevo che questa immagine avrebbe potuto spiazzare molti lettori.

Seneca è uno dei poli della mia formazione classica.

Torno spesso ai Dialoghi e alle Lettere a Lucilio.

Nel romanzo lo incontro giovane, in una fase simile a un esilio ad Alessandria.

La sua amicizia con Euthymios è uno dei fili più intensi del libro; l’episodio nella villa a mare è, per me, una delle pagine più riuscite.


La scelta dei personaggi storici


Ho già portato Euthymios a incontrare tutti i personaggi con cui fosse verosimile un contatto.

Non sentivo il bisogno di aggiungerne altri: il rischio sarebbe stato l’eccesso.


Il mio “Gesù altro”: la visione gesuana


Ho voluto distinguere il Gesù storico dal Cristo della fede.

Gli studiosi parlano di “gesuano” per indicare l’originario, ciò che appartiene a Gesù prima dell’elaborazione cristiana.

Mi sono mosso su alcuni dati storici:

- Gesù era un ebreo profondamente inserito nella vita religiosa del suo popolo.

- Non si considerò mai Dio.

- Il Regno di Dio era il centro della sua predicazione.

Ho accentuato la sua mistica personale: un uomo che cerca Dio nel segreto, nel silenzio, nelle grotte, e che al tempo stesso annuncia un Dio che entra nella storia.

In questo tratto ho trasferito anche la mia modalità spirituale, sempre divisa tra un Dio di giustizia e un Dio di silenzio interiore.


Perché mi definisco “diversamente credente”


Riprendo la formula paolina “Spes contra spem”: sperare contro ogni speranza.

Di fronte al male del mondo, una fede ingenua è impossibile.

Ciò che resta è la speranza ostinata, non la certezza.

Quando mi chiedono se credo, rispondo: “io spero”.

Come scrive Caproni: “prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista”.

Mi sento autonomo rispetto a tutte le religioni rivelate, che comunque guardo con grande rispetto.

Frequento volentieri le chiese vuote, prego con parole mie o di molte tradizioni diverse.

Ho imparato a riconoscere una sacralità potente anche in molta poesia moderna.


La morte come fulcro della narrazione


Tutto ciò che scrivo è, in fondo, una riflessione sulla morte.

Per me ogni vita e ogni pensiero serio passa da lì.

Nel romanzo tutti i personaggi si confrontano con la fine:

- morti tragiche, come la crocifissione,

- morti dolci,

- morti filosofiche, come quella di Seneca.

Anche Euthymios attraversa il suo destino finale, dopo una vita segnata da lutti, epidemie, perdite familiari.

La conclusione del romanzo intreccia la storia con l’invenzione e porta Euthymios a una morte eroica, dopo aver superato ogni etichetta identitaria (greco, giudeo).


L’amore secondo Euthymios


Nel romanzo racconto due storie d’amore:

- un amore giovanile, impossibile, che lo porta a rifare il voto di castità;

- un amore maturo, fedele, realistico, che considero tra le pagine più toccanti.

In queste pagine ho messo anche qualcosa della mia storia:

un rapporto lunghissimo, di oltre quarant’anni, che ha scelto il matrimonio come forma stabile dell’amore.

Ho trattato l’amore con molto pudore, perché credo che solo così lo si possa raccontare.


Come vivo poesia e narrativa


Sono nato come poeta: i versi mi hanno aiutato a attraversare la morte di mia madre.

Per me la poesia non racconta: accompagna.

La prosa invece narra.

È un diverso modo di guardare alla vita:

- si vive poeticamente,

- si racconta in prosa.

Questa nuova stagione narrativa rappresenta una svolta, pur nella mia fedeltà alla forma poetica.




giovedì 6 novembre 2025

Fedele all'opera. 10 frammenti sullo scrivere [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


1. Ricordare che l’atto creativo non è mai slegato dal duro lavoro, che significa lettura, accumulo di materiali di approfondimento anche apparentemente inutili. Non avere, dunque, paura dei vuoti, che sono sempre necessari. Attendere in maniera attiva. Un apparente ossimoro. 

2. Bisogna rimanere dentro la scrittura. La tentazione, nei momenti di stanchezza, è pensare al dopo, lasciandosi prendere dall’ansia di mettere la parola fine, immaginando che qualcuno la leggerà e l’apprezzerà. Certo, si scrive per un “tu”, ci mancherebbe, ma potrebbe essere anche un tu che non esisterà mai se non come nostra creazione fantastica. È come se in noi si verificasse uno sdoppiamento tra un “io” che scrive e un “tu” che legge, cui l’opera è rivolta. 

3. Ricordare che all’inizio la storia è solo un’intuizione. Poi, quando si inizia a scrivere e a plasmare i personaggi, la mente inizia ad entrare dentro di loro, a pensare insieme a loro. È un piccolo miracolo della nostra immaginazione, che va ovviamente nutrito. 

4. Il rischio che si corre è la bulimia scrittoria, lo scrivere per lo scrivere. Se, invece, devo conservare qualcosa di un quarantennio di scrittura è l’onestà. Scrivere solo ciò che proviene da un’esigenza reale e profonda. E lavorare molto sullo stile, non in senso estetizzante, ovviamente. 

5. Mi pare evidente che questa sia una fase pioneristica del mio “quarto tempo”, della mia “vita da scrittore”. Piena, come è giusto che sia, di anarchico entusiasmo, di grossolani errori e di scarsa consapevolezza. Già questa estate dovrò iniziare un lavoro rigoroso di consapevolezza: che cosa significa oggi essere uno scrittore? Quale il senso? Perché? E poi il “come”. Ora ho aperto la grotta con il tesoro di Montecristo, sono abbagliato dalle storie che ho trovato dentro di me e che trovo appena ho un piccolo stimolo. Va bene, ma solo per prendere la mano. Ben altro significherà fare la cosa seriamente. 

6. Il romanzo sarà il battesimo del fuoco, ma dovrò imparare da tutti gli errori, con umiltà. Ma se non si inizia nuotare, Hegel docet, non si potrà mai imparare a nuotare. Sicuramente prenderò tantissime mazzate! Ma non devo averne paura. Mi renderanno più forte, più consapevole. Oramai la mia decisione è presa. Io sono uno scrittore. Voglio esserlo fino alla fine dei miei giorni. Voglio che la scrittura sia la forma del mio abitare il mondo nei prossimi anni, quanti me ne concederà il Signore. 

7. Mi rendo ogni giorno più conto che le parole stanno diventando la mia nuova dimora, come mai era accaduto prima. E mi rendo conto che esse, per quanto possano essere crude o feroci, sono sempre migliori della realtà. Il mio sta diventando un mondo parallelo, in cui creare o ricreare la realtà e, in essa, me stesso e la mia storia o le mie storie possibili, gli “io” che avrei potuto essere. E mi rendo ancora conto che le storie sono la forma migliore per far transitare un’idea. Una cosa che istintivamente sapevo.

8. Durante i mesi rigeneranti a San Cumano ho maturato l’idea che la poesia nuova che scriverò sarà profondamente diversa da quella del trentennio precedente. Uno stacco radicale che mi impone di non scrivere più nulla che mi riguardi. L’autobiografia viene confinata al Diario o a scritture narrative tutte da pensare.

9. Arte da apprendere: abitare i tempi. Ora sono dentro l’uscita di Euthymios, ma non deve succedere che questo evento, della cui importanza sono consapevole, mi assorba interamente. Va trovato un equilibrio tra i vari momenti della mia vita, anche in virtù della semplificazione che sono riuscito questa estate a creare, recedendo da zone di impegno che hanno assorbito per anni le miei energie. Queste energie vanno messe a regime seriamente, non dissipate. Il mio dovere è nei confronti dell’opera, cui dedicarsi instancabilmente.

10. Fedele all’opera. Questo il koan che risuona dall’estate, a fare da controcanto a quello delle sirene consuete. Che significa nella mia testa, nel linguaggio ellittico e immaginifico che eredito (anche) dal fumetto? Devo rimanere fedele alla mia natura (e a come essa si è plasmata nel corso dei decenni), riconoscendo che amo la solitudine e il raccoglimento molto più della confusione, che la vera felicità l’ho vissuta sempre da solo o con pochissime persone, che i soldi non mi hanno mai dato nulla di essenziale. E che, dunque, devo vivere scrivendo sotto lo sguardo di Dio (che vorrei fosse quello di mia madre), orgoglioso di suo figlio ed esigente perché ha avuto talenti da moltiplicare attraverso il lavoro e l’intelligenza. 


lunedì 27 ottobre 2025

Federalismo europeo. Ma anche no [πολιτική]

 

Immagine generata con Ideogram

(immagine generata con Ideogram)

Ho provato a resistere. Ma, come Roger Rabbit, non ce l’ho fatta. 

Eppure, ero stato buono, in silenzio durante e dopo l’incontro. Niente, devo esternare, devo cantare il mio "flit", malgrado le mie comunicazioni urbi et orbi sulla fine (suona roboante, visto il poco che ho fatto) del mio impegno “civile e politico”, che mi sta spingendo a disertare piazze (di cui pure condivido integralmente lo spirito) per una idiosincrasia sempre più forte verso un certo tipo di comunicazione.

I fatti (che poi quasi sempre si limitano ai comunicati quando l’evento non diventa trend) li trovate qui.

Presentazione di un libro dedicato al federalismo di un giovane e brillante studioso. Un entusiasta nato nell’anno in cui la mia generazione assisteva sgomenta al crollo della più grande utopia novecentesca.

Confesso spudoratamente che ero lì per affetto nei confronti di uno degli amici più cari della mia maturità, Amerigo Ciervo, e poi perché l’evento aveva il logo dell’ANPI, di cui (malgrado il mio disimpegno di cui sopra) sono orgogliosamente parte. Imparo sempre ascoltando Amerigo, mi piace la sua capacità di tenere insieme tante cose, di legare al presente ciò di cui parla, di mescolare sapientemente il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.

Infatti, già nel suo intervento erano presenti elementi critici nei confronti dello stato dell’arte, particolarmente evidenti quando ha evocato uno degli studiosi che più ammiro per il rigore e la coerenza (anche umana), Emiliano Brancaccio (e sarebbe utile andare a rileggersi i suoi articoli sull’euro, moneta “tedesca” degli ultimi dieci anni e quelli sull’UE “franco-tedesca”, carolingia). Amerigo ha chiuso, però, con un richiamo alla necessità dell’utopia (che io stesso avevo evocato in altro contesto, la poesia di Celan e Il meridiano, di cui ha scritto magnificamente Daniela Piesco). 

Dovremmo, però, intenderci sul senso di questa parola. C’è utopia e utopia. Come c’è Europa ed Europa, in fondo. Una stessa parola può significare tante cose diverse e, dunque, può diventare un alibi. E se so che Amerigo, che rivendica sempre la sua formazione (e la tesi) sull’opera di Ernst Bloch, la intende in un modo affine al mio, ho dubbi sull’intervento di Giulio Saputo, di cui pure ho apprezzato la passione e la cultura vasta. 

Sintetizzo: da anni io, fieramente europeo anche in virtù di quello che in età matura mi appare un vero e proprio lavaggio del cervello subito in gioventù sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’Europa unita, sono diventato scettico tanto sull’euro come moneta unica tanto su questa Europa “liberale” (e che ha imposto il pareggio di bilancio in Costituzione), Europa delle banche che mi pare assai lontana da quella (socialista!) evocata nel Documento di Ventotene

Nelle riflessioni vaste di Saputo (per altro originario del nostro Sannio) ho colto almeno due “falsificatori” potenziali delle sue stesse tesi a difesa del federalismo: i limiti della democrazia attuali nell’UE e la gestione delle crisi migratorie. Insomma, il giovane studioso pretende, come tutti i paladini di “più Europa” un atto di fede (ecco la dimensione utopica), pur (per onestà intellettuale) avendo ben chiari gli elementi assolutamente (e dire inemendabilmente…) critici. Potremmo, però seguirlo nella sua esortazione “utopica”: superiamo le barriere nazionalistiche, uniamoci sempre più, costruiamo un mondo senza guerre. Insomma, la bellissima (ancora una volta) utopia kantiana della “pace perpetua”, del grande Illuminismo europeo, di cui, in fondo, il federalismo è prosecutore. 

Mi appello ad un libro meraviglioso, e invito tutti a leggerlo.

Per me è stato illuminante. L’Europa attuale nasce come meccanismo di “spoliticizzazione” delle masse (perché ci lamentiamo che la gente non va a votare: è quello che si voleva!), di disinnesco degli elementi troppo “socialisti” (sic!) di alcune Costituzioni (in primis quella italiana). Inoltre, è questa l’obiezione sostanziale, Streeck mostra come la democrazia vera possa darsi solo su scala “piccola” o media (d’altronde, ce lo aveva già insegnato Rousseau). Così come la difesa dei diritti sociali. Ecco, io credo che il “sogno europeo”, metamorfico (i diritti, il green deal, ora la “difesa” contro la minaccia russa), sia la carota posta davanti all’asino per farlo andare avanti, la promessa che non sarà mai mantenuta (“fate questo e finalmente raggiungeremo la tanto ambita meta”). Siamo difronte ad un “cattivo infinito”.

Ma allora bisogna tornare al nazionalismo? Come “utopia” o “Europa” "nazionalismo" è parola che si può declinare in molti modi. La nazione è, ad oggi, l’unico organismo politico in cui sono stati realmente plasmati e tutelati i diritti sociali e in cui il “popolo” ha esercitato la sovranità (nei limiti…). Di gran lunga, dunque, preferibile alla “tecnocrazia” che ci governa, al “pilota automatico” (al servizio di potentati economici capaci di fare pesantemente lobbying). 

Io non vedo alcuna contraddizione tra un “nazionalismo democratico” e l’inter-nazionalismo (che presuppone, a mio avviso lo Stato-nazionale)

Il libro di Streeck è una contestazione radicale anche della globalizzazione, ovviamente, decisione politica (non “evento naturale” come volevano gli "ideologi" al servizio di chi la promosse), che ora mostra la corda.

Stiamo entrando, d’altronde, come ricorda Brancaccio, nel “momento Lenin”. Con queste cose dobbiamo fare i conti.

L’evento è stato organizzato da giovani federalisti entusiasti. Ed è giusto alla loro età sognare senza voler fare i conti con la “realtà fattuale”. Sono diventato uno spietato “realista” machiavellico? No. Resto un fiero alfiere dell’utopia e anche della “rivoluzione”. Ma nel modo in cui ne scriveva Paul Celan nel 1968 (che in Das Meridian rivendicava l'eredità di Kropotkin e di Landauer...)



 


domenica 26 ottobre 2025

Euthymios. Il medico greco che incontrò Yeshua [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


Il mio primo romanzo editato... Inutile nascondere l’emozione, il senso di un nuovo inizio che segue una cesura (esistenziale), i cui momenti emblematici considero la fine della scuola come luogo di realizzazione fondamentale e la partenza di Caterina per Roma. È come se la scrittura di storie, prive di qualunque supporto teorico, sia stato il modo per elaborare questo “passaggio”. Mi rendo conto che la mia vita psicologica è assai semplice: alcune parole ritornano in tutte le stagioni. Ad esempio, “passaggio” o “soglia”. Ricordo una poesia che mi piaceva molto di Hesse (autore che ho voluto rileggere quest’estate, dopo oltre quarant’anni…). Si chiamava Gradini. Diverso fu il senso della scrittura, diaristica e poetica, quando si trattò di fare i conti con la perdita di mia madre (mi rendo sempre più conto di come il tempo sbiadisca i contorni, forse per questo ringrazio Dio di avermi concesso di lasciare tracce scritte di ciò che accadde una volta e, dunque, per sempre). Ora ritorna, sorgivo, il piacere di abbandonarmi ai voli fantastici. Per certi versi, mi sento il bambino che nella sua stanza raggiungeva vette di beatitudine. Quando scrivo ritorna il fortino di legno, la gru, la scatola di Dixan con i soldatini di plastica. E gli spillati della Corno. Torna, certo, con la consapevolezza di un adulto che ha vissuto perdite, catastrofi, amori, che ha letto libri, che ha perso e ritrovato un Dio sempre metamorfico e che, in fondo, è il tema di tutto quel che vado scrivendo. Dio che ringrazio ogni giorno, in questo tempo di grazia, per i doni copiosi. 

Non so cosa accadrà. Io ho fatto il meglio che potevo. Talvolta, penso di essere stato un folle a scrivere un romanzo storico che parla (anche) di Gesù. Altre volte, rileggendone dei passi, penso che, in fondo, dovevo farlo per chiudere riflessioni che mi hanno preso per anni. 

La prefazione del prof. Cesaretti mi conforta. Un grande studioso mi ha promosso. La cosa mi dà da sperare. Ora mi affido al giudizio più importante: quello dei lettori, che non saranno più i pochi, fidati amici che hanno letto le mie poesie e i miei saggi. 

Io continuerò a scrivere. In questo momento è davvero l’unica esperienza (al netto di quelle affettive) che mi dà un senso di pienezza, quella che provavo, appunto, da piccolo, giocando preferibilmente da solo. È un illusione demiurgica? Sentirmi “creatore” di mondo, plasmatore di realtà (alternative)? Ci rifletterò. In futuro, quando questo fiume in piena che da marzo scorso ha iniziato a scorrere in me, liberatomi (per fortuna!) da tediose figure che immiserivano la mia vita, si placherà, cercherò (ma già ho iniziato) a ragionare, a “studiare”. Per ora, mi godo questa fase naïf e gioiosa. 


P.S.

Il romanzo è già ordinabile presso la casa editrice

Dal 30 sarà su tutte le piattaforme (Ibs et cetera) e nelle librerie.



martedì 21 ottobre 2025

Prima lettera a Luca Rando sullo scrivere narrazioni

 


Caro Luca, mi rendo conto che questa è la prima lettera “pubblica” che ti scrivo. 

Ci conosciamo dai primi anni Settanta. Scuole elementari. Poi ci perdemmo di vista. Ci ritrovammo. Divenimmo inseparabili. Abbiamo condiviso tanto in una fase della vita decisiva: nel senso che decide chi saremo. Non ci siamo più persi di vista. Purtroppo, la vita ha separato la nostra quotidianità, e sai quanto mi manca. Te lo scrivo almeno un paio di volte all’anno. 

la rosa necessaria” si concluse nel 1999, nella stagione dei concorsi. La prosa della vita batteva rumorosamente alle porte. Rispondemmo. Riprovammo a creare, con “soglie”, un nuovo sodalizio “digitale”. L’esperimento durò poco (per limiti oggettivi e soggettivi). Da allora, purtroppo, a parte i due numeri di “segnavia”, stampati in poche copie, non ci sono stati momenti di condivisione intellettuale.

Tu, però, sei sempre stato presente nella gestazione dei miei libri, come primo lettore, correttore di bozze, giudice severo.

Ora sta per iniziare una nuova stagione della mia vita di scrittore (non esito a definirmi tale rispetto al passato). Mentre fino ad oggi la scrittura era praticata negli interstizi delle occupazioni principali (in particolare, la scuola), ora essa è divenuta urgenza, febbre quotidiana, magnete che sembra attrarre tutto il resto, con quell’eccesso che sai caratterizzarmi da sempre all’avvio di una passione. La rottura con chi dirige la mia scuola, professionale e umana, ha liberato energie che si sono riversate, in maniera inattesa, nella scrittura di storie. 

Anche stavolta ne sei primo lettore e giudice severo. Stroncasti il mio primo tentativo romanzesco, nato in un momento di riposo estivo forzato, dovuto agli acciacchi degli anni. Stroncatura benefica, che mi ha costretto a rivederlo continuamento. È ancora in attesa di “carta” e lettori. Prometto a me stesso, però, che prima o poi vedrà la luce perché c’è troppo di me, delle mie passioni, dei miei rovelli.

Ora sta per uscire Euthymios. Lo hai letto, giudicato senza troppo entusiasmo (ma con quello che per me è un complimento, definendolo “hessiano”). 

Ti sto inviando ogni tanto i racconti che scrivo (talvolta inviandoli a concorsi). I tuoi giudizi, per quanto laconici, sono sempre preziosi.

Mi hai chiesto, in una delle nostre discussioni a distanza: «Ma… Nicola? Dov’è in questi racconti?»

Questa tua domanda mi ha interpellato, e finalmente ho una risposta che ti do qui, in pubblico, perché è un momento di chiarezza anche per me.

Ho scritto da quando avevo diciassette anni, prediligendo una scrittura intima (il “Diario”, che continuo a tenere), la poesia, poi articoli e saggi. Sempre quanto elaboravo era consapevolezza ma anche guida per la vita, scrittura-azione, che non a caso faceva il paio con l’impegno civile o politico (che racchiuderei tra il Comitato pro-Sofri e l’impegno con l’ANPI, con dentro esperienze anche eterogenee, tra cui un pezzo di consiliatura con il M5S). In questi mesi, nello scrivere in maniera caotica e gioiosa decine di racconti, bozze di tre o quattro romanzi e poesie, mi sono reso conto di un profondo mutamento, che volevo provare a dirti, rispondendo alla tua domanda. Hegel (il mio odiato Hegel, che oggi citerò ben due volte) afferma che i processi, dopo essere cresciuti quantitativamente, subiscono un mutamento qualitativo (come l’acqua che bolle, divenendo altro, cioè vapore). Ebbene, io percepisco prima di tutto che le tante ore che dedico a scrivere stanno producendo un mutamento qualitativo nella mia scrittura. Il secondo cambiamento è più radicale. Ancora Hegel per spiegarlo. Ricorderai che per il pensatore tedesco la filosofia è come la nottola di Minerva che si leva sul far della sera, cioè alla fine dei processi che hanno strutturato una civiltà. Ebbene, io sento che la mia vita è “finita”, che ho fatto tutto quel che volevo, dovevo e probabilmente potevo. Il Signore ha esaudito tutti i miei desideri: una relazione compiuta (seppure tra travagli che ne costituiscono la storia, ma d’altronde Hegel sottolinea continuamente l’importanza del momento dialettico, la forza del negativo nello spingerci verso nuove configurazioni), una figlia che ora si avvia a scegliere cosa essere, un lavoro bellissimo, pochi amici fidati su cui far sempre conto. E tante altre cose importanti: le mie sorelle e le loro famiglie, San Cumano… Insomma, non ho altro da chiedere a Dio nelle mie preghiere. In questo senso la mia vita è “finita”, compiuta. È la mia sera, dunque. In cui si è levata la civetta, non di Minerva, però, ma di Calliope, se fosse possibile. Dunque, dov’è Nicola in quello che scrivo e che scriverò? E che cosa scriverò? In questo momento, mi sento di dire racconti, romanzi e rade poesie, molto diverse dalle precedenti. Nei racconti ci sono le mie passioni, soprattutto, nei romanzi, ad ora, molto di me nei protagonisti (in Eliseo, in Eutimio, in Arnaldo). Paradossalmente, la cesura maggiore si avverte proprio in ambito poetico: ho deciso che era finito il tempo della poesia come trasfigurazione lirica dell’esistenza. Probabilmente, la prossima raccolta che uscirà (Una luce che risplende in luoghi oscuri) sarà il congedo da un’intera stagione creativa. Ora sto scrivendo testi barocchi, concettosi e continuerò scientemente a farne. Insomma, l’io regredisce, appare solo in forme mediate. 

So bene che queste riflessioni possono apparire (perché lo sono!) confuse. È il primo acerbo tentativo di “pensare” quel che vado facendo. Continuerò a farlo, finita questa fase strurmeriana e garibaldina, rivolgendomi a te, che con pazienza mi ascolterai.


mercoledì 24 settembre 2025

Responsabilità, adultità [𝒄𝒆𝒕𝒆𝒓𝒂]

 

Leo Longanesi, autore che certamente il Nostro conosce, scrisse una volta: «La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia».

Ciò nondimeno, chi assume la responsabilità — che, secondo Hans Jonas, costituisce la cifra autentica del vero politico — di guidare una comunità, ha il dovere di trascendere questo sventurato carattere nazionale. Dovrebbe cioè pesare le proprie parole pubbliche, anche quando ormai si trova ai margini della grande storia; se non altro, per non ridursi a caricatura di sé stesso, a comico da barzelletta.

Quello che imputo al Nostro — cui scrissi, in altri tempi e con altro stile, osando un “tu” che fu bellamente ignorato (e poco importa poter dire oggi che avevo ragione) — è soprattutto la sua totale cecità di fronte alla catastrofe pedagogica. “Usare” persone per il proprio piacere, sapendo che non dispongono di una piena facoltà di intendere e, dunque, di assentire, è già di per sé osceno. Ma ciò che più pesa è lo stile di vita che conduce fino a quel punto: lo stile che segna lo sbrago, la frattura, il cedimento morale. Un cedimento che stride con il francescanesimo ormai, mi permetto di dire, millantato dal Nostro.

Suggerisco, pur sapendo che ancora una volta resterò inascoltato, un po’ di silenzio. Nulla è mai definitivamente perduto: ogni errore può conoscere la propria espiazione, purché si abbia il coraggio di mettere seriamente in discussione le proprie scelte — di padre, di educatore. Se tutto diventa lecito in nome del divertissement, allora l’umano svanisce.






domenica 14 settembre 2025

Incipit vita nova [𝐀𝐔𝐓𝐎𝐁𝐈𝐎𝐆𝐑𝐀𝐅𝐈𝐀]

 


Malgrado l’uso oramai marginale che ne faccio e la fruizione pressoché nulla di cui gode, questo blog continua ad avere - a oltre quindici anni dal suo varo - una funzione preziosa. Mi consente, per certi versi mi obbliga periodicamente a fare sintesi delle acquisizioni. Interpretare quanto mi accade, fare tesoro delle esperienze, degli errori, degli inganni e degli autoinganni è fondamentale per me: l’unico modo per immaginare prospettive, nuovi percorsi.

L’estate oramai agli sgoccioli è stata “miliare”. Iniziata con la consapevolezza, da elaborare, che mia figlia andrà a Roma per avviare il suo percorso di studi che, se Dio vuole, ne farà un medico, ha portato – con le sue aurore accolte con riconoscenza e i suoi cieli stellati – “illuminazioni” preziose.

1.      I “mandati” della mia vita si ristrutturano: la scuola (a causa di una rottura traumatica che mi ha spinto, in dissenso non ricomponibile con la dirigenza, a dimettermi dalla funzione di collaboratore) è divenuta, da “seconda casa” che era, un semplice luogo di lavoro, perduta ogni illusione di potervi creare una comunità pensante e dialogante che aveva mosso gli ultimi anni. I mesi trascorsi da febbraio ad oggi hanno sanato ogni ferita. Il premio ricevuto a Sologno è un segno in qualche modo: mi suggerisce che posso svolgere un ruolo “critico” senza più abitare lo spazio ambiguo della lotta e del governo dei processi. Soprattutto, quanto accaduto da allora mi ha confermato di come la fine inattesa di alcune esperienze per noi decisive possa, se vissuta con consapevolezza, aprire nuovi orizzonti. Ricordo sempre le parole di un uomo complesso, pieno di luci e ombre, ma assai preziose su come un evento apparentemente catastrofico possa essere «la cosa migliore che ci capiti».

2.      Le energie non più utilizzate al servizio della scuola hanno cercato nuova allocazione, trovandola, in maniera sorprendente, nella scrittura narrativa. Ho vissuto mesi di immersione totale e furiosa nella creazione di romanzi e racconti, con quell’eccesso che da sempre è cifra distintiva nel mio carattere quando vengo colto da “entusiasmo”. Ne sono nate opere e progetti, uno dei quali vedrà la luce nei prossimi mesi, e che ora mi desta “timore e tremore”.

3.      Dunque, se fino a pochi mesi fa mi sarei definito, come mi accade da decenni, un professore o, meglio, un educatore, oggi sento di essere e di voler essere prima di tutto uno scrittore. Qualcuno potrebbe obiettare che scrivo dagli anni Novanta e che il primo libro risale oramai al 2012. Vero. Ma è come se quanto scritto fino ad ora (ad eccezione di un racconto, poesie, prose saggistiche e aforismi) “accompagnasse” la mia vita, come strumento di consapevolezza senza mai essere una vera e propria attività autonoma. Per altro, mi sono sempre considerato essenzialmente un poeta per formazione e sensibilità. Scoprire in me tante storie che reclamavano di essere raccontato ha stupito, lo confesso, anche me. Così come sperimentare il piacere fisico di scrivere, di “inventare”. È come se il bambino che sognava sin dall’infanzia ad occhi aperti, sopravvissuto nell’adulto, avesse trovato, finalmente, il senso di quell’attività.

4.      Ho ritenuto giusto, coerentemente, ritirarmi da tutte le attività in cui mi sono impegnato negli ultimi anni. Considero chiusa la mia lunga stagione di impegno politico e civile. Ciò non intacca in nulla l’importanza che per me hanno, ad esempio, l’ANPI o i comitati che si battono per i beni comuni. Semplicemente, credo di non potere, di non volere più partecipare alla faticosa attività organizzativa perché sento urgere altro, sento che tutte le mie energie devono essere rivolte altrove.

5.      Questo “altrove”, oltre alla scrittura, è senza dubbio (e prioritariamente) quel nucleo solido di affetti costituito dalla mia famiglia. La “vita nova” che si apre quest’anno ha due grandi lavori da pensare e da svolgere, legati all’avvio della stagione universitaria di mia figlia e alla contestuale necessità di rinnovare e rigenerare il rapporto coniugale.

6.      Sento in me un’energia buona che nasce dalla consapevolezza di ciò che sono e di ciò che desidero. Ho imparato, alla soglia degli sessant’anni, ad accettarmi con tutte le mie contraddizioni (feconde), senza voler cancellare niente di me, come in passato mi capitava, indulgente ma anche esigente, conscio dei limiti ma pronto alle sfide per superarle. So quali sono le cose e chi sono le persone importanti, in una gerarchia che mi è sempre davanti agli occhi. Ho imparato a dire i no che in passato non sapevo pronunziare. Perché non do più alcun peso al giudizio altrui. Sono davvero pochissime le persone della cui opinione oramai mi importa davvero.

Mi accingo ad un nuovo viaggio dopo aver buttato a mare un po’ di zavorra e qualche relazione tossica, soprattutto professionale. L’imbarcazione è leggera, il mare aperto, la meta sconosciuta. Adoro i nuovi inizi. 

Non potevo chiedere al Signore grazia più grande di concedermene ancora un altro.


mercoledì 18 giugno 2025

Soglia [𝐀𝐔𝐓𝐎𝐁𝐈𝐎𝐆𝐑𝐀𝐅𝐈𝐀]

 


Questo blog nacque nel 2008, in un momento di profondo sconforto politico. Basti rivedere qual era l’argomento che mi spinse in qualche modo a trovare un canale di comunicazione. Bisogna ricordarsele certe cose, altrimenti rischiamo anacronismi: all’epoca c’erano mezzi convenzionali e si iniziavano a diffondere i “social”. Quasi contestualmente, infatti, mi iscrissi a Facebook che, fino al 2018, quindi per un decennio, è stato strumento molto utilizzato da me come insegnante, come politico (pro tempore). Un amico mi definì addirittura un “influencer”. Che offesa, a ripensarci… 

Molti anni sono passati, grandi trasformazioni fuori e dentro. 

Mi chiedo se ha un senso questo blog giurassico, così rudimentale e povero, sia nei contenuti che nella forma esteriore, in un tempo che reclama ben altro. Più volte ho avuto tentazione di un restyling (nell’aborrita lingua barbara che ancora va per la maggiore). Fino ad ora non ho trovato stimoli sufficienti a tradurre in atto tale proposito. 

Scrivo, senza sapere precisamente a chi, non avendo mai tentato di creare una “comunità” di lettori fedeli, essendo stata sempre la mia scrittura rapsodica e lunatica, mai sistematica. E scrivo perché percepisco un mutamento in atto che merita comunque di lasciar traccia, se non altro per me, che da sempre ho l’ossessione delle periodizzazioni, dei mutamenti di fase, personali e storici. 

Da qualche mese mi sono dimesso da ogni ruolo che ricoprivo nella mia scuola. Non mi riconosco più nelle scelte, negli stili. Mi pareva giusto un passo indietro. Mi si è liberata una quantità incredibile di tempo, di energia fisica e mentale, che si è riversata immediatamente sulla scrittura. Da gennaio sto scrivendo, colonizzando ampie zone delle giornate prima dedicate, appunto, alla scuola. Cosa scrivo? Qui la novità per me decisiva. È vero che alcuni anni fa ho scritto un romanzo, nato proprio sulle pagine di questo blog, ancora in attesa di pubblicazione, e a cui sono assai affezionato. Ma mi pareva una sorta di unicum, in una attività di scrittore che veniva praticata negli interstizi delle altre occupazioni principali. Ora, invece, si è fatta prepotente l’esigenza di raccontare storie, come se fossero stipate dentro di me in attesa di venir fuori. Anche per questo sono grato a chi (si chiama eterogenesi dei fini), spingendomi a liberarmi dagli impegni scolastici, ha permesso alle storie di farsi raccontare, a me di scoprire il piacere, oserei dire fisico, di raccontarle. Quando questo fiume in piena si placherà, dovrà iniziare una rigorosa riflessione sul senso dello scrivere storie oggi. Ma, appunto, c’è tempo. Ora mi godo questa fase, con i suoi eccessi, i suoi deliri, che sono tipici della mia personalità, anche a sessant’anni. Io sono, nel senso etimologico, un entusiasta e un melanconico. 

Ah, dimenticavo! A novembre, se Dio vuole, dovrebbe uscire il mio primo romanzo (e l'immagine che accompagna questo post è come con l'A.I. ho immaginato il protagonista). Che non sarà il primogenito, bensì un romanzo storico nato rapinosamente tra aprile e maggio in settimane di scontro furibondo e gioioso con la pagina bianca dello schermo. 

Nel contempo, percepisco esaurita una fase lunghissima della mia poesia. Non so se smetterò di scrivere versi. Io credo che la poesia (e ne ho scritto spesso) sia uno sguardo sul reale. Quindi, se si è poeti, non si può cessare di esserlo. Ma sono certo che, se scriverò, lo farò in maniera diversa. Anche per questo considero l’opera che uscirà a settembre (sì, due libri in un anno…) un sigillo, che chiude quanto iniziato con Per aspera nel 2013.

Il mondo è in fiamme. Forse una guerra catastrofica alle porte per l’umanità. Nulla è sicuro, ma scrivi.


giovedì 1 maggio 2025

Poesia a Benevento: una dialogo a margine dell'"Atlante delle nuvole"

 

La foto è tratta da «Il Mattino» del 1 maggio 2025. Da sinistra Antonella Rosa, Nicola Sguera, Elio Pecora e Domenico Cosentino nel Museo Arcos il giorno 27 aprile, in occasione dell'ultimo incontro de "L'Atlante delle nuvole"

Pubblico la riflessione che Antonio Medici, già editore e animatore di «Sonar», ci ha inviato in merito alla rassegna di poesia appena conclusasi.

A seguire la mia risposta.

* * *

«Cari Totty e Nicola, vi scrivo giacché reputo complicato riuscirvi a incontrare.

Innanzitutto, grazie per aver organizzato una rassegna non asfittica, preziosa anomalia per Benevento. 

Ho potuto assistere solo all’incontro con Elio Pecora ed è inutile che usi aggettivi per definirne il rilievo intellettuale  e, aggiungerei, emotivo. Anche della parte aneddotica. 

Due parole dell’intervento introduttivo di Nicola mi sollecitano a esprimere un’opinione, ovviamente dissenziente. 

Nicola si è lamentato della scarsa partecipazione dei docenti di letteratura agli incontri. 

Ebbene, reputo questa sollecitazione, in cui ho colto un’aspirazione vana, incongrua al vostro meritorio lavoro.

Gli incontri culturali e in specie quelli, rari, sulla poesia, mi si perdoni l’aspirazione pop, dovrebbero ambire ad avvicinare un pubblico lontano dalle stanze della cultura, a incuriosire, a seminare, lanciare semi che possano germogliare in qualcuno (per stare su Pecora).

In questo senso, i docenti di letteratura sono un pubblico ininfluente e forse da tenere lontano giacché il docente, essendo investito istituzionalmente del compito della semina, ingenera naturale ostilità (a scuola si dimena per superare questa bar-riera). 

Sarebbe bello vedere alle presentazioni ragazzi, studenti, giovani, ricercatori, avventurieri e imprenditori, persone nuove, estranee ai circoli letterari, librari, intellettuali e paraintellettuali. C’è bisogno di allargare il pubblico, della  poesia, vieppiù.

Il docente di letteratura che non si interessa alle parole di fini poeti e letterati, e forse anche ai meno fini, più che essere sollecitato a presentarsi, andrebbe espunto dalla scuola, forse. 

Mi permetto, per finire, di sottoporVi due questioni (non uso le parole riflessioni e suggerimenti con precisa volontà):

- nessuno insegna a leggere la poesia, a riconoscerne la struttura e le figure retoriche. A scuola si fa la parafrasi, si allena la memoria, ma l’atto della lettura (interiore, per se stessi) non è allenato. E qui risiede, a mio modesto parere, una delle ragioni dello scarso pubblico di “ascoltatori” (non lettori) della poesia;

- vendere libri in occasione degli eventi culturali può essere difficile sotto il profilo organizzativo e magari apparire sconveniente. È necessario, tuttavia, a mio avviso. 

Vi abbraccio e spero di (ri)vedervi presto. Magari a Milano a raccogliere ossigeno per reggere alla cappa beneventana».

Antonio

* * *

Caro Antonio, prima di tutto grazie per questa preziosa sollecitazione densa di spunti cui ho ritenuto di dover rispondere in maniera articolata.

Consentimi una breve contestualizzazione nel mio vissuto dell’evento “Atlante della nuvole”.

Come sai, nei primi anni Novanta, fresco laureato (con una poetessa, Biancamaria Frabotta, più volte evocata nella rassegna, su un poeta grandissimo), tornato a Benevento, per reggere la “cappa beneventana”, promossi degli incontri a casa mia in cui si leggeva poesia “a tema”. Da quegli incontri nacque “la rosa necessaria” (il nome lo propose Giovanni Varricchio) che iniziò a promuovere incontri sulla poesia o con poeti (o anche scrittori). Poco dopo uscì una “fanzine”, poi fattasi rivista, durata fino al 1999 con lo stesso nome. Lungo iato. Nel 2010 Raffaele Del Vecchio mi propone di curare una rassegna di poesia. Nasce “Poesia in forma di rosa”, che fu, purtroppo, evento rimasto isolato. Io decidevo intanto che era maturo il tempo per essere anche poeta, non solo amante della poesia. Dal 2013 sono usciti brevi plaquette poetiche. Nel 2022 entro in contatto con Casa Naima, qualcosa di più di una libreria indipendente portata avanti con coraggio e passione da Domenico Cosentino e Flavia Peluso. Diciamo un luogo di cortocircuiti intellettuali e creativi. Scopro che un gruppo di persone, il cui collante è Antonella Rosa (l’anima del Premio “Marco Di Meola”), si incontra per leggere poesie. In punta di piedi, incuriosito, inizio a partecipare agli incontri, che diventano per me un modo per ritessere fili interrotti della mia vita. Quella esperienza è divenuta un cenacolo poetico ribattezzato “Mandel” (Mandorla) in onore di Paul Celan. Lo scorso anno Raffaele Del Vecchio, divenuto Amministratore di Sannio Europa, mi ha chiesto se volevamo organizzare un ciclo di incontri di poesia. Io ho immediatamente coinvolto Domenico e Antonella. Insieme abbiamo pensato come strutturare l’evento e quali poeti e poetesse invitare. Ho ribadito che mi piacerebbe diventare parte di un insieme più grande in cui ci siano, in relazione e sinergia, il “Premio Strega Poesia”, il Pre-mio “Marco Di Meola” (Telese), il Premio “Mezzogiorno Poesia (Circello), il Premio “Nero su Bianco” (San Marco dei Cavoti). Una “rete” della poesia. Intanto, mi veniva affidata la Stanza per la poesia nella Biblioteca Provinciale in cui avviavo, in preparazione de l’Atlante, “Luogo comune”. 

Perdonami questo lungo cappello, ma mi è prezioso. È mia abitudine mettere “miliari” lungo il tracciato della mia esistenza intellettuale, che con te ha avuto un incrocio importante. 

E passo a rispondere analiticamente alle tue sollecitazioni.

Grazie ancora per la valutazione che dai della manifestazione, «non asfittica». So, avendo partecipato all’esperienza di «Sonar» quanto tu ritenga necessario uscire dai confini, appunto “asfittici”, del localismo. Condivido l’aspirazione, anche se, probabilmente a differenza tua, ritengo necessario valorizzare quanto di buono creativamente esiste e metterlo proprio in contatto con esperienze altre e alte. Per questo, ad esempio, nel 2010 volli dedicare un omaggio a Giuseppina Luongo Bartolini e a Sandro Pedicini, due belle voci della poesia sannita. 

Muovi dei rilievi critici alla mia constatazione, amara sicuramente ma anche aperta, della pressoché totale assenza di docenti di lettere agli incontri. 

Lungi da me aver pensato che fossero tali incontri per loro. Per me l’arte si dona naturalmente a tutti. Ma il mio ragionamento è il seguente: come è sperabile che un ragazzo possa provare un minimo di curiosità per la poesia del proprio tempo se questa curiosità non la prova nemmeno chi ha strumenti e dovrebbe sentire quasi il dovere professionale di conoscerne quanto meno i contorni? Posso dirti con certezza che un bravo docente di italiano della scuole superiore non conosce per nulla o quasi per nulla quanto scritto o teorizzato in Italia (lasciamo perdere il resto del mondo) dagli anni Ottanta in poi. A parte Alda Merini e, oggi, Franco Arminio, che sono eccezioni a conferma della regola, se vogliamo letti più per motivi extrapoetici (e questo al di là del valore indiscutibile di molte delle cose che hanno scritto). 

Faccio spesso l’esempio di mia madre, una buona docente di lettere in un istituto tecnico che, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, sentiva il dovere di conoscere almeno le voci più importanti della poesia italiana di quegli anni, motivo per cui avrei trovato prime edizioni dell’ultimo Montale o di Quasimodo negli scaffali su cui avviarmi lungo la via amorosa della poesia che avrebbe segnato la mia vita. 

Per me è paradossale che uno studente italiano legga e studi decine di testi poetici, dalla scuola primaria all’ultimo anno delle Superiori, e poi questa forma di espressione dell’umano scompaia del tutto, divenendo impensabile per lui acquistare e leggere un testo di poesia o andare ad ascoltare un poeta che legge i propri versi. 

È per questo che l’anno prossimo, se l’esperienza come mi augurò proseguirà, porteremo “Maometto alla montagna”, cercando di utilizzare la buona volontà e l’entusiasmo di alcuni docenti e facendo quel lavoro che tu evochi, dicendo che a scuola probabilmente la poesia si “insegna male”. 

Come ha detto Pecora, però, bisogna partire sicuramente dall’emozione (anche se la poesia non è solo emozione). Ovvero, bisognerebbe mettere i ragazzi, come fa il prof. Keating nel sempre memorabile film di Peter Weir, di fronte alla potenza trasformativa della poesia. E solo dopo passare alla comprensione attraverso apparati o rilievi critici. Il docente, innamorato dei versi, il nudo testo, un ragazzo che può trovare in quelle parole articolate “musaicamente” (e in genere così lontane dalla “lingua d’uso”) nutrimento per l’anima, verità e bellezza. 

Infine, sì, hai ragione, è importante che ci siano i libri di poesia. Il prossimo anno troveremo un modo per risolvere questa questione, più complessa di quanto si possa pensare.

Chiudo con una road-map del futuro prossimo: immaginiamo un evento che valorizzi le voci già strutturate, alcune delle quali con riconoscimenti importanti, della poesia sannita; a settembre riprenderemo gli incontri de La stanza della poesia e del cenacolo Mandel e inizieremo a strutturare la seconda edizione de l’Atlante delle Nuvole. 

Con il consueto piacere di aver dialogato con te, ti abbraccio.

Nicola