lunedì 27 ottobre 2025

Federalismo europeo. Ma anche no [πολιτική]

 

Immagine generata con Ideogram

(immagine generata con Ideogram)

Ho provato a resistere. Ma, come Roger Rabbit, non ce l’ho fatta. 

Eppure, ero stato buono, in silenzio durante e dopo l’incontro. Niente, devo esternare, devo cantare il mio "flit", malgrado le mie comunicazioni urbi et orbi sulla fine (suona roboante, visto il poco che ho fatto) del mio impegno “civile e politico”, che mi sta spingendo a disertare piazze (di cui pure condivido integralmente lo spirito) per una idiosincrasia sempre più forte verso un certo tipo di comunicazione.

I fatti (che poi quasi sempre si limitano ai comunicati quando l’evento non diventa trend) li trovate qui.

Presentazione di un libro dedicato al federalismo di un giovane e brillante studioso. Un entusiasta nato nell’anno in cui la mia generazione assisteva sgomenta al crollo della più grande utopia novecentesca.

Confesso spudoratamente che ero lì per affetto nei confronti di uno degli amici più cari della mia maturità, Amerigo Ciervo, e poi perché l’evento aveva il logo dell’ANPI, di cui (malgrado il mio disimpegno di cui sopra) sono orgogliosamente parte. Imparo sempre ascoltando Amerigo, mi piace la sua capacità di tenere insieme tante cose, di legare al presente ciò di cui parla, di mescolare sapientemente il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.

Infatti, già nel suo intervento erano presenti elementi critici nei confronti dello stato dell’arte, particolarmente evidenti quando ha evocato uno degli studiosi che più ammiro per il rigore e la coerenza (anche umana), Emiliano Brancaccio (e sarebbe utile andare a rileggersi i suoi articoli sull’euro, moneta “tedesca” degli ultimi dieci anni e quelli sull’UE “franco-tedesca”, carolingia). Amerigo ha chiuso, però, con un richiamo alla necessità dell’utopia (che io stesso avevo evocato in altro contesto, la poesia di Celan e Il meridiano, di cui ha scritto magnificamente Daniela Piesco). 

Dovremmo, però, intenderci sul senso di questa parola. C’è utopia e utopia. Come c’è Europa ed Europa, in fondo. Una stessa parola può significare tante cose diverse e, dunque, può diventare un alibi. E se so che Amerigo, che rivendica sempre la sua formazione (e la tesi) sull’opera di Ernst Bloch, la intende in un modo affine al mio, ho dubbi sull’intervento di Giulio Saputo, di cui pure ho apprezzato la passione e la cultura vasta. 

Sintetizzo: da anni io, fieramente europeo anche in virtù di quello che in età matura mi appare un vero e proprio lavaggio del cervello subito in gioventù sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’Europa unita, sono diventato scettico tanto sull’euro come moneta unica tanto su questa Europa “liberale” (e che ha imposto il pareggio di bilancio in Costituzione), Europa delle banche che mi pare assai lontana da quella (socialista!) evocata nel Documento di Ventotene

Nelle riflessioni vaste di Saputo (per altro originario del nostro Sannio) ho colto almeno due “falsificatori” potenziali delle sue stesse tesi a difesa del federalismo: i limiti della democrazia attuali nell’UE e la gestione delle crisi migratorie. Insomma, il giovane studioso pretende, come tutti i paladini di “più Europa” un atto di fede (ecco la dimensione utopica), pur (per onestà intellettuale) avendo ben chiari gli elementi assolutamente (e dire inemendabilmente…) critici. Potremmo, però seguirlo nella sua esortazione “utopica”: superiamo le barriere nazionalistiche, uniamoci sempre più, costruiamo un mondo senza guerre. Insomma, la bellissima (ancora una volta) utopia kantiana della “pace perpetua”, del grande Illuminismo europeo, di cui, in fondo, il federalismo è prosecutore. 

Mi appello ad un libro meraviglioso, e invito tutti a leggerlo.

Per me è stato illuminante. L’Europa attuale nasce come meccanismo di “spoliticizzazione” delle masse (perché ci lamentiamo che la gente non va a votare: è quello che si voleva!), di disinnesco degli elementi troppo “socialisti” (sic!) di alcune Costituzioni (in primis quella italiana). Inoltre, è questa l’obiezione sostanziale, Streeck mostra come la democrazia vera possa darsi solo su scala “piccola” o media (d’altronde, ce lo aveva già insegnato Rousseau). Così come la difesa dei diritti sociali. Ecco, io credo che il “sogno europeo”, metamorfico (i diritti, il green deal, ora la “difesa” contro la minaccia russa), sia la carota posta davanti all’asino per farlo andare avanti, la promessa che non sarà mai mantenuta (“fate questo e finalmente raggiungeremo la tanto ambita meta”). Siamo difronte ad un “cattivo infinito”.

Ma allora bisogna tornare al nazionalismo? Come “utopia” o “Europa” "nazionalismo" è parola che si può declinare in molti modi. La nazione è, ad oggi, l’unico organismo politico in cui sono stati realmente plasmati e tutelati i diritti sociali e in cui il “popolo” ha esercitato la sovranità (nei limiti…). Di gran lunga, dunque, preferibile alla “tecnocrazia” che ci governa, al “pilota automatico” (al servizio di potentati economici capaci di fare pesantemente lobbying). 

Io non vedo alcuna contraddizione tra un “nazionalismo democratico” e l’inter-nazionalismo (che presuppone, a mio avviso lo Stato-nazionale)

Il libro di Streeck è una contestazione radicale anche della globalizzazione, ovviamente, decisione politica (non “evento naturale” come volevano gli "ideologi" al servizio di chi la promosse), che ora mostra la corda.

Stiamo entrando, d’altronde, come ricorda Brancaccio, nel “momento Lenin”. Con queste cose dobbiamo fare i conti.

L’evento è stato organizzato da giovani federalisti entusiasti. Ed è giusto alla loro età sognare senza voler fare i conti con la “realtà fattuale”. Sono diventato uno spietato “realista” machiavellico? No. Resto un fiero alfiere dell’utopia e anche della “rivoluzione”. Ma nel modo in cui ne scriveva Paul Celan nel 1968 (che in Das Meridian rivendicava l'eredità di Kropotkin e di Landauer...)



 


domenica 26 ottobre 2025

Euthymios. Il medico greco che incontrò Yeshua [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


Il mio primo romanzo editato... Inutile nascondere l’emozione, il senso di un nuovo inizio che segue una cesura (esistenziale), i cui momenti emblematici considero la fine della scuola come luogo di realizzazione fondamentale e la partenza di Caterina per Roma. È come se la scrittura di storie, prive di qualunque supporto teorico, sia stato il modo per elaborare questo “passaggio”. Mi rendo conto che la mia vita psicologica è assai semplice: alcune parole ritornano in tutte le stagioni. Ad esempio, “passaggio” o “soglia”. Ricordo una poesia che mi piaceva molto di Hesse (autore che ho voluto rileggere quest’estate, dopo oltre quarant’anni…). Si chiamava Gradini. Diverso fu il senso della scrittura, diaristica e poetica, quando si trattò di fare i conti con la perdita di mia madre (mi rendo sempre più conto di come il tempo sbiadisca i contorni, forse per questo ringrazio Dio di avermi concesso di lasciare tracce scritte di ciò che accadde una volta e, dunque, per sempre). Ora ritorna, sorgivo, il piacere di abbandonarmi ai voli fantastici. Per certi versi, mi sento il bambino che nella sua stanza raggiungeva vette di beatitudine. Quando scrivo ritorna il fortino di legno, la gru, la scatola di Dixan con i soldatini di plastica. E gli spillati della Corno. Torna, certo, con la consapevolezza di un adulto che ha vissuto perdite, catastrofi, amori, che ha letto libri, che ha perso e ritrovato un Dio sempre metamorfico e che, in fondo, è il tema di tutto quel che vado scrivendo. Dio che ringrazio ogni giorno, in questo tempo di grazia, per i doni copiosi. 

Non so cosa accadrà. Io ho fatto il meglio che potevo. Talvolta, penso di essere stato un folle a scrivere un romanzo storico che parla (anche) di Gesù. Altre volte, rileggendone dei passi, penso che, in fondo, dovevo farlo per chiudere riflessioni che mi hanno preso per anni. 

La prefazione del prof. Cesaretti mi conforta. Un grande studioso mi ha promosso. La cosa mi dà da sperare. Ora mi affido al giudizio più importante: quello dei lettori, che non saranno più i pochi, fidati amici che hanno letto le mie poesie e i miei saggi. 

Io continuerò a scrivere. In questo momento è davvero l’unica esperienza (al netto di quelle affettive) che mi dà un senso di pienezza, quella che provavo, appunto, da piccolo, giocando preferibilmente da solo. È un illusione demiurgica? Sentirmi “creatore” di mondo, plasmatore di realtà (alternative)? Ci rifletterò. In futuro, quando questo fiume in piena che da marzo scorso ha iniziato a scorrere in me, liberatomi (per fortuna!) da tediose figure che immiserivano la mia vita, si placherà, cercherò (ma già ho iniziato) a ragionare, a “studiare”. Per ora, mi godo questa fase naïf e gioiosa. 


P.S.

Il romanzo è già ordinabile presso la casa editrice

Dal 30 sarà su tutte le piattaforme (Ibs et cetera) e nelle librerie.



martedì 21 ottobre 2025

Prima lettera a Luca Rando sullo scrivere narrazioni

 


Caro Luca, mi rendo conto che questa è la prima lettera “pubblica” che ti scrivo. 

Ci conosciamo dai primi anni Settanta. Scuole elementari. Poi ci perdemmo di vista. Ci ritrovammo. Divenimmo inseparabili. Abbiamo condiviso tanto in una fase della vita decisiva: nel senso che decide chi saremo. Non ci siamo più persi di vista. Purtroppo, la vita ha separato la nostra quotidianità, e sai quanto mi manca. Te lo scrivo almeno un paio di volte all’anno. 

la rosa necessaria” si concluse nel 1999, nella stagione dei concorsi. La prosa della vita batteva rumorosamente alle porte. Rispondemmo. Riprovammo a creare, con “soglie”, un nuovo sodalizio “digitale”. L’esperimento durò poco (per limiti oggettivi e soggettivi). Da allora, purtroppo, a parte i due numeri di “segnavia”, stampati in poche copie, non ci sono stati momenti di condivisione intellettuale.

Tu, però, sei sempre stato presente nella gestazione dei miei libri, come primo lettore, correttore di bozze, giudice severo.

Ora sta per iniziare una nuova stagione della mia vita di scrittore (non esito a definirmi tale rispetto al passato). Mentre fino ad oggi la scrittura era praticata negli interstizi delle occupazioni principali (in particolare, la scuola), ora essa è divenuta urgenza, febbre quotidiana, magnete che sembra attrarre tutto il resto, con quell’eccesso che sai caratterizzarmi da sempre all’avvio di una passione. La rottura con chi dirige la mia scuola, professionale e umana, ha liberato energie che si sono riversate, in maniera inattesa, nella scrittura di storie. 

Anche stavolta ne sei primo lettore e giudice severo. Stroncasti il mio primo tentativo romanzesco, nato in un momento di riposo estivo forzato, dovuto agli acciacchi degli anni. Stroncatura benefica, che mi ha costretto a rivederlo continuamento. È ancora in attesa di “carta” e lettori. Prometto a me stesso, però, che prima o poi vedrà la luce perché c’è troppo di me, delle mie passioni, dei miei rovelli.

Ora sta per uscire Euthymios. Lo hai letto, giudicato senza troppo entusiasmo (ma con quello che per me è un complimento, definendolo “hessiano”). 

Ti sto inviando ogni tanto i racconti che scrivo (talvolta inviandoli a concorsi). I tuoi giudizi, per quanto laconici, sono sempre preziosi.

Mi hai chiesto, in una delle nostre discussioni a distanza: «Ma… Nicola? Dov’è in questi racconti?»

Questa tua domanda mi ha interpellato, e finalmente ho una risposta che ti do qui, in pubblico, perché è un momento di chiarezza anche per me.

Ho scritto da quando avevo diciassette anni, prediligendo una scrittura intima (il “Diario”, che continuo a tenere), la poesia, poi articoli e saggi. Sempre quanto elaboravo era consapevolezza ma anche guida per la vita, scrittura-azione, che non a caso faceva il paio con l’impegno civile o politico (che racchiuderei tra il Comitato pro-Sofri e l’impegno con l’ANPI, con dentro esperienze anche eterogenee, tra cui un pezzo di consiliatura con il M5S). In questi mesi, nello scrivere in maniera caotica e gioiosa decine di racconti, bozze di tre o quattro romanzi e poesie, mi sono reso conto di un profondo mutamento, che volevo provare a dirti, rispondendo alla tua domanda. Hegel (il mio odiato Hegel, che oggi citerò ben due volte) afferma che i processi, dopo essere cresciuti quantitativamente, subiscono un mutamento qualitativo (come l’acqua che bolle, divenendo altro, cioè vapore). Ebbene, io percepisco prima di tutto che le tante ore che dedico a scrivere stanno producendo un mutamento qualitativo nella mia scrittura. Il secondo cambiamento è più radicale. Ancora Hegel per spiegarlo. Ricorderai che per il pensatore tedesco la filosofia è come la nottola di Minerva che si leva sul far della sera, cioè alla fine dei processi che hanno strutturato una civiltà. Ebbene, io sento che la mia vita è “finita”, che ho fatto tutto quel che volevo, dovevo e probabilmente potevo. Il Signore ha esaudito tutti i miei desideri: una relazione compiuta (seppure tra travagli che ne costituiscono la storia, ma d’altronde Hegel sottolinea continuamente l’importanza del momento dialettico, la forza del negativo nello spingerci verso nuove configurazioni), una figlia che ora si avvia a scegliere cosa essere, un lavoro bellissimo, pochi amici fidati su cui far sempre conto. E tante altre cose importanti: le mie sorelle e le loro famiglie, San Cumano… Insomma, non ho altro da chiedere a Dio nelle mie preghiere. In questo senso la mia vita è “finita”, compiuta. È la mia sera, dunque. In cui si è levata la civetta, non di Minerva, però, ma di Calliope, se fosse possibile. Dunque, dov’è Nicola in quello che scrivo e che scriverò? E che cosa scriverò? In questo momento, mi sento di dire racconti, romanzi e rade poesie, molto diverse dalle precedenti. Nei racconti ci sono le mie passioni, soprattutto, nei romanzi, ad ora, molto di me nei protagonisti (in Eliseo, in Eutimio, in Arnaldo). Paradossalmente, la cesura maggiore si avverte proprio in ambito poetico: ho deciso che era finito il tempo della poesia come trasfigurazione lirica dell’esistenza. Probabilmente, la prossima raccolta che uscirà (Una luce che risplende in luoghi oscuri) sarà il congedo da un’intera stagione creativa. Ora sto scrivendo testi barocchi, concettosi e continuerò scientemente a farne. Insomma, l’io regredisce, appare solo in forme mediate. 

So bene che queste riflessioni possono apparire (perché lo sono!) confuse. È il primo acerbo tentativo di “pensare” quel che vado facendo. Continuerò a farlo, finita questa fase strurmeriana e garibaldina, rivolgendomi a te, che con pazienza mi ascolterai.