Sto leggendo, con un piacere che è pari solo alle aperture che percepisco nella mia testa rispetto a certi processi, l’ultimo libro di Carlo Galli (Democrazia, ultimo atto?). Come spesso mi capita negli ultimi anni, ne estrapolo dei passaggi particolarmente suggestivi, li monto con i miei rudimentali mezzi grafici, con il vezzo di un monogramma (ispirato al logo di “Giustizia e Libertà”).
Un caro collega, Gianluigi Panarese, che anima spesso e volentieri
le discussioni su temi di attualità sulla chat dei docenti, ha lasciato un
commento che riporto.
Ho promesso a Gianluigi una risposta articolata. È questa.
Scompongo il suo commento, breve ma densissimo di
sollecitazioni.
1)
Equivocando il senso della frase di Galli (che
stigmatizza, e fa benissimo, la cecità di buona parte della sinistra, che già
era non solo post-comunista ma anche, col senno di poi, post-socialista),
Gianluigi parla del fallimento del comunismo “reale” (quello sovietico e dei
paesi orbitanti intorno all’URSS, potremmo riflettere sul fatto che uno dei più
popolosi e ricchi paesi del mondo si definisce comunista, ma sarebbe discorso
altro, lungo e complesso). Per esso non ho alcun rimpianto, ovviamente. Posso solo invitare il collega a leggere il libro di
Galli, che è una mirabile ricostruzione a volo d’uccello del Novecento e del
primo scorcio di XXI secolo. La tesi è che la democrazia, in virtù della
dialettica sociale, politica ed economica, ha subito diverse modificazione,
arrivando alla sua ultima incarnazione: la democrazia al tempo del
neoliberismo. Galli la vede (giustamente!) in crisi (mettiamo in fila ripresa
dei conflitti, il ritorno del “politico” almeno dal 2001, crisi economica dal 2007,
crisi pandemica nel 2019) e prova ad immaginare cosa potrebbe accadere. Quindi,
il Nostro, che scrive su «Repubblica», non esattamente un organo bolscevico, è
solo un lucido, realista (ma anche critico) teorico della democrazia, vista in
maniera non astorica e atemporale ma incardinata nel proprio tempo cangiante. E
io con lui: la democrazia è “la” regola del gioco, il perimetro entro cui
realizzare società più (per me) o meno (per altri) eguali.
2)
Nella seconda sollecitazione Gianluigi evoca,
immagino, Beppe Grillo. In realtà, il personaggio non ha elaborato nulla di
originale: il tema della decrescita, che mi appassiona da almeno due decenni,
ha grandi teorici (non solo il più celebre, Latouche). Precisamente, il
sociologo francese parla di “decrescita conviviale” (riprendendo il tema da un
gigante del pensiero novecentesco, Ivan Illich). È invece Maurizio Pallante in
Italia che parla di “decrescita felice”. Non mi avventuro nel tema, anch’esso
ricchissimo. Quando militavo nel M5S dedicammo un approfondimento alla
questione. In ogni caso, la mia personale opinione è che sia un approccio
corretto e mi sorprende che una persona come Gianluigi, così legata alla cultura
della terra (come me) e alfiere della vita “sana” e semplice, non senta il
bisogno, ben oltre Grillo, di approfondire. Mi farà piacere,
dunque, continuare a parlarne con lui.
3)
Credo profondamente alla democrazia, ritengo che
vadano innestati momenti di democrazia diretta nel quadro di una inevitabile
rappresentanza (stante la mole degli Stati moderni), che rendano i cittadini
protagonisti delle decisioni ed evitino derive tecnocratiche (o post-democrazie
o democrature, come sta accadendo in alcune parti del mondo o dell’Europa
stessa). E sono convinto che una democrazia vitale e sana debba avere la forza
(politica!) di redistribuire la ricchezza prodotta e lavorare per l’eguaglianza
(attraverso servizi ai cittadini diffusi e di qualità). Il punto (che sempre
Galli rimarca) è il seguente: il capitalismo (che ha una storia lunga, almeno a partire dal 1300) nella sua configurazione attuale (neoliberista) è compatibile con la
democrazia di cui parli? È contenibile? Il capitalismo (Marx docet) non è “perfido”.
Rifuggiamo dalla visione moralistica della società e dell’economia. Il
capitalismo è… capitalismo! Cioè, un sistema economico il cui scopo è produrre
dal denaro più denaro. Punto. Non importa come. Lo si può temperare? Sì. Lo
dimostrano i “Trenta gloriosi” (1945-1975), in cui in Occidente crebbero
salari, profitti e diritti (con dure lotte, però, non lo si dimentichi). Ma,
cosa accadeva “fuori dall’Occidente”? Quel benessere, in cui il capitale
accettò di essere “contenuto” dalla virtù politica, non fu il portato di una
violenza invisibile altrove (in Estremo Oriente piuttosto che in Africa o
America Latina)? E, soprattutto, finito quel compromesso tra politica ed
economia, oggi il capitale è disposto a lasciarsi nuovamente contenere, dopo
che i suoi dioscuri (Thatcher nel Regno Unito e Reagan in USA) ruppero le sue
catene?
Chiudo. Tre sono le strade innanzi a noi:
1)
il capitalismo, libero da freni e controllo
politico, continua la sua opera di devastazione, producendo rifiuti di ogni
tipo (anche umani, come i disoccupati o i working-poor) e estraendo ricchezza
dalla natura e dalle periferie imperiali (Arrighi);
2)
la democrazia riesce a rimettere nel recinto il
cavallo fuggito e limitarne gli “spiriti animali” (con il ritorno dello stato
sociale e del welfare);
3)
il capitalismo viene superato da un’organizzazione
economica in cui il mercato ha evidentemente un ruolo importante ma non fagocita tutte le
sfere della vita, rivitalizzando l’etica del dono, la cooperazione (contro la
competizione), lo sharing, il tempo più che libero liberato, le relazioni
umane et cetera. Un altro paradigma non solo economico ma di società. Sempre Marx ci ha insegnato che il capitalismo non è "la" forma atemporale dell'economia ma una sua possibile configurazione.
Come già detto,
mi farà piacere continuare a parlarne con il collega perché la scuola è un
luogo, pur oberato da compiti inderogabili, dove, nelle pieghe, cresciamo
insieme tra diversi.