Il libro di Adolfo Scotto di Luzio è prezioso strumento, e
non solo per motivi generazionali, come ho cercato di argomentare su «Sonar».
Mi fa piacere tornare su alcuni punti che non ho potuto
toccare, calandoli nel mio vissuto.
* * *
Scotto di Luzio descrive gli anni Ottanta,
nella prima parte, correttamente come tempo di “riflusso”. Solo una parte
minoritaria continuava a praticare le sedi di partito.
La percezione che ricevevo della politica
in generale, in una famiglia solidamente cattolica e democristiana, vicina alla
cosiddetta “sinistra” e al suo astro nascente, all’epoca, Ciriaco De Mita, era
di qualcosa di lontano dai miei bisogni. Mia madre aveva guardato con orrore
allo “scempio” che prima il ’68 e poi il ’77 avevano fatto alla Roma in cui
aveva studiato con Sapegno e Paratore. Schifavo Pasolini, in un ambiente
fondamentalmente omofobo e anticomunista.
Gli anni del Liceo (dal 1980 al 1985) li vissi
nella totale indifferenza qualunquistica. Eppure erano ancora riconoscibili le
grandi famiglie politiche filiate dalla stagione precedente: c’erano i “comunisti”
(Antonio Romano, Nicola Savoia), i “socialisti” (Silvio Bozzi), i “democristiani”
(Antonio Carrino), i “fascisti” (Pelè Perrotta, Federico Paolucci). Il
corpaccione del Giannone, però, era come me. Ma si era gentili (e quando capitava
qualche scontro non era per motivi squisitamente politici), si condividevano le
stesse passioni.
Scotto di Luzio sottolinea come quella
generazione cercò altrove, negli “eroi” della lotta alla camorra e alla mafia,
i propri modelli di ispirazione. Le uniche discussioni che ricordo (ma mi
farebbe assai piacere sentire i ricordi degli altri amici di quegli anni) serie
furono legate al movimento contro la camorra (fino al 1983). Ricordo
chiaramente che la madre del mio miglior amico, Luca Rando, era
preoccupatissima perché temeva attentati alle nostre marce.
Insomma, gran parte di quella generazione –
ed è conferma della tesi del libro – si è formata lontana da partiti e
movimenti strettamente politici, sviluppando, nel migliore dei casi, un
antagonismo di tipo “etico” ad un mondo in cui apparivano sempre più
distintamente i tratti della corruzione (anch’essa prima di tutto morale).
Credo che per molti di noi il passaggio all’Università
fu decisivo. Io scelsi Roma per motivi squisitamente “disciplinari” (ambivo a
studiare con Alberto Asor Rosa, con cui avrei fatto gli esami e che sarebbe
stato mio correlatore). Lì maturò la mia coscienza politica. Parliamo di un’Università
(e di un Dipartimento) in cui l’eredità degli anni precedenti era vigorosa.
Iniziai a comprare «il Manifesto» e «Rinascita» diretta da Asor Rosa. Iniziai a
“capire” cosa fosse successo nel ventennio alle mie spalle. Divenni “comunista”
(anche per un atavico senso di colpa di matrice cristiana nei confronti delle
persone meno abbienti). Ma anche quel comunismo era nutrito di linfe etiche
(ancora una volta la radice profonda era nell’educazione cristiana).
L’altro elemento fondamentale (e qui mi
pare che Nel groviglio degli anni Ottanta
sia un po’ carente) fu la sensibilità ecologica. I due eventi probabilmente più
importanti furono, almeno per me, Chernobyl e il disastro della Exxon Valdez.
Iniziai ad acquistare abitualmente «Nuova ecologia». Il mio ecologismo aveva
una chiara scaturigine romantica, per quanto paradossale nel figlio di un
commerciante di petrolio.
Seguii con passione le vicende interne al
PCI. Presi la tessera per il primo anno del PDS. La malattia di mia madre non mi
consentì di vivere sul serio il momento dell’impresa, come la definisce Scotto
di Luzio, la “Pantera”. Ricordo confusamente alcune serate passate a Lettere.
Ma mia madre moriva, i miei pensieri erano altrove. L’anno che seguì la sua
morte fu decisivo per me perché dedicato alla tesi su Fortini, che mi diede
strumenti molto più rigorosi di decifrazione del passato e del presente,
spingendomi verso i francofortesi e Benjamin, verso Bloch e Lukács. Ma gli anni
Ottanta oramai erano alle spalle.