Finalmente, dopo quattro anni (!) sono tornato in una sala cinematografica, insostituibile luogo di laica attenzione condivisa. Ho visto Avatar, prodotto dell’industria cinematografica, costosissimo e avanzatissimo tecnologicamente. A spronarmi l’entusiastico giudizio di Spielberg, autore che ammiro da sempre.
Ho avuto la ventura di assistere al film, in un sala vuota, solo con un mio carissimo cugino cinefilo, il quale, avendo deciso, dopo dieci minuti, che il film era pessimo, ha iniziato a chiosarne ogni scena, accusandolo di essere inutile rivisitazione di topoi già battuti dal cinema americano: un personaggio border-line incontra una nuova civiltà, prima scettico e persuaso della sua inferiorità, poi sempre più coinvolto (anche affettivamente da una femmina dell’altro popolo), fino a diventarne parte integrante ed arrivare a combattere contro il proprio popolo di appartenenza. Balla coi lupi, in maniera molto alta, e – pur bello – L’ultimo samurai affrontavano questo tema: lo “scontro di civiltà” che ha – genocidiariamente – cancellato i nativi americani e - l’altro - “modernizzato” il Giappone. Perché riproporre, dunque, questo tema nel futuro? Solo per dispiegare il potente armamentario degli effetti speciali? Elaborando questa provocazione sono giunto alla conclusione che “Avatar” sia uno splendido film, non solo per la tecnologia utilizzata, pur fascinosa, ma soprattutto perché ripresenta il tema dello “scontro” dotandolo di un retroterra scientifico-filosofico-spirituale che non poteva esserci in film analoghi. Infatti, se è vero che tanto la cultura dei nativi americani che quella giapponese è intrisa di profonda spiritualità con tratti panteistici, e comunque profondamente rispettosa della natura, solo a partire dagli anni Sessanta si è iniziato a strutturare un pensiero che, incrociando ecologia, fisica, biologia e spiritualità, ha rimesso in discussione il paradigma “meccanicistico”, durissimo a morire, pure sottoposto a colpi potenti dalla seconda rivoluzione scientifica (quella di inizio Novecento). Penso alla divulgazione che di queste acquisizioni ha fatto Fritjof Capra in libri come Il Tao della fisica, Il punto di svolta, La rete della vita: «Si tratta di elaborare un nuovo pensiero, caratterizzato in senso olistico, o meglio sistemico: esso viene così denominato perché privilegia il sistema, cioè la rete complessa costituita dalle molteplici interrelazioni, e non le singole unità costitutive (come voleva l’approccio analitico di stampo cartesiano). Seguendo tale orientamento che privilegia la “rete della vita” (immagine di grande efficacia più volte impiegata da Capra) e le interconnessioni cosmiche, l’uomo stesso è visto come parte della natura (e non in contrapposizione ad essa)» (Wikipedia). Ecco, io credo che Avatar sia un film paradossale e geniale perché con il massimo della tecnologia ci dice che la tecnologia non ci salverà, che anzi essa porterà al peggiore omicidio che noi possiamo commettere che non è quello di Dio Padre, come credeva Nietzsche, ma quello della Madre Terra (cosa avvenuta nel film). Ed è un film radicale perché contrappone alla vita comunitaria dei Na’vi il “superomismo” individualistico degli uomini, monadi solitarie ed ossessionate solo dal denaro. È un film radicale perché immagina un mondo in cui, consapevoli di essere parte della rete della vita, si uccide sì per nutrirsi ma si prega sul cadavere dell’animale ucciso, sapendo che “noi siamo quello”.
Soprattutto, e finisco di rispondere a mio cugino, spostare nel futuro lo scontro di civiltà era necessario per illuderci (benefica illusione!) che ci sarà un lieto fine: sappiamo che le tribù indiane furono spazzate via, costrette alle riserve, annichilite infine con i casinò; sappiamo che il Giappone, dopo la restaurazione Meiji, mutuò dall’Occidente i più sinistri tratti dell’imperialismo e del razzismo. Guardando “Avatar” ela Madre Eywa che distrugge gli avidi colonizzatori possiamo sperare che non tutto è già deciso, che, in qualche modo, spezzando l’incantesimo iniziato nel 1600, sappiamo ritornare ad essere parte di Gea/Pandora, figli devoti, “docili fibre dell’universo”.
Ho avuto la ventura di assistere al film, in un sala vuota, solo con un mio carissimo cugino cinefilo, il quale, avendo deciso, dopo dieci minuti, che il film era pessimo, ha iniziato a chiosarne ogni scena, accusandolo di essere inutile rivisitazione di topoi già battuti dal cinema americano: un personaggio border-line incontra una nuova civiltà, prima scettico e persuaso della sua inferiorità, poi sempre più coinvolto (anche affettivamente da una femmina dell’altro popolo), fino a diventarne parte integrante ed arrivare a combattere contro il proprio popolo di appartenenza. Balla coi lupi, in maniera molto alta, e – pur bello – L’ultimo samurai affrontavano questo tema: lo “scontro di civiltà” che ha – genocidiariamente – cancellato i nativi americani e - l’altro - “modernizzato” il Giappone. Perché riproporre, dunque, questo tema nel futuro? Solo per dispiegare il potente armamentario degli effetti speciali? Elaborando questa provocazione sono giunto alla conclusione che “Avatar” sia uno splendido film, non solo per la tecnologia utilizzata, pur fascinosa, ma soprattutto perché ripresenta il tema dello “scontro” dotandolo di un retroterra scientifico-filosofico-spirituale che non poteva esserci in film analoghi. Infatti, se è vero che tanto la cultura dei nativi americani che quella giapponese è intrisa di profonda spiritualità con tratti panteistici, e comunque profondamente rispettosa della natura, solo a partire dagli anni Sessanta si è iniziato a strutturare un pensiero che, incrociando ecologia, fisica, biologia e spiritualità, ha rimesso in discussione il paradigma “meccanicistico”, durissimo a morire, pure sottoposto a colpi potenti dalla seconda rivoluzione scientifica (quella di inizio Novecento). Penso alla divulgazione che di queste acquisizioni ha fatto Fritjof Capra in libri come Il Tao della fisica, Il punto di svolta, La rete della vita: «Si tratta di elaborare un nuovo pensiero, caratterizzato in senso olistico, o meglio sistemico: esso viene così denominato perché privilegia il sistema, cioè la rete complessa costituita dalle molteplici interrelazioni, e non le singole unità costitutive (come voleva l’approccio analitico di stampo cartesiano). Seguendo tale orientamento che privilegia la “rete della vita” (immagine di grande efficacia più volte impiegata da Capra) e le interconnessioni cosmiche, l’uomo stesso è visto come parte della natura (e non in contrapposizione ad essa)» (Wikipedia). Ecco, io credo che Avatar sia un film paradossale e geniale perché con il massimo della tecnologia ci dice che la tecnologia non ci salverà, che anzi essa porterà al peggiore omicidio che noi possiamo commettere che non è quello di Dio Padre, come credeva Nietzsche, ma quello della Madre Terra (cosa avvenuta nel film). Ed è un film radicale perché contrappone alla vita comunitaria dei Na’vi il “superomismo” individualistico degli uomini, monadi solitarie ed ossessionate solo dal denaro. È un film radicale perché immagina un mondo in cui, consapevoli di essere parte della rete della vita, si uccide sì per nutrirsi ma si prega sul cadavere dell’animale ucciso, sapendo che “noi siamo quello”.
Soprattutto, e finisco di rispondere a mio cugino, spostare nel futuro lo scontro di civiltà era necessario per illuderci (benefica illusione!) che ci sarà un lieto fine: sappiamo che le tribù indiane furono spazzate via, costrette alle riserve, annichilite infine con i casinò; sappiamo che il Giappone, dopo la restaurazione Meiji, mutuò dall’Occidente i più sinistri tratti dell’imperialismo e del razzismo. Guardando “Avatar” e