Quando mi chiedono di intervenire in un Convegno o
incontro pubblico mi chiedo sempre quale sia il titolo che mi dà tale diritto.
Le parole, infatti, se prese sul serio, impegnano. Fare una dichiarazione
pubblica significa prendere un impegno nei confronti della comunità che ti ha
chiamato a pronunziarla, a meno che, come i geniali e pericolosi Sofisti greci,
non riteniamo la parola stessa un’arma da utilizzare per conquistare o
rafforzare ruoli egemonici e, dunque, alla Gorgia, la sganciamo da qualunque
dimensione pertinente l’ethos.
Sono
qui come amministratore, sebbene espressione della minoranza consiliare? Non
credo... Il tema di oggi, purtroppo, non viene intercettato dalla politica.
Sono qui come educatore? È realistico. I temi cui rapidamente farò cenno sono
parte integrante di una reale impresa educativa integrale, che abbia cioè la
giusta, doverosa ambizione di trascendere le discipline e contribuire a
plasmare (meglio: a far maturare) l’uomo e il cittadino che abitano negli
adolescenti affidatici. Sono qui come ex volontario dell’AVO? È assolutamente
probabile... Lo riconosco: fu atto d’amore nei confronti della mia allora
giovane fidanzata, oggi moglie, che viveva con intensità questa forma di
servizio al prossimo, ben radicata nella nostra formazione cattolica, avvenuta
tra i Missionari del Preziosissimo Sangue, e, personalmente, a contatto con l’esperienza
vincenziana di mia madre. All’epoca io ero troppo preso dal mio personale
dolore, dalla risoluzione di una cupa visione del mondo, debitrice del Leopardi
maturo e di Schopenhauer, di Guido Ceronetti e di Emile Cioran, per poter
essere toccato nei precordi dalla sofferenza altrui. Un paradosso... Eppure,
con imbarazzo, attraversai, col mio camice bianco, i reparti della solitudine e
del dolore, cercando nel profondo di me stesso una parola di conforto per gli
altri, che usciva sempre stentata, cigolando, quasi in falsetto. Non ero
pronto. Non so se oggi lo sarei. Forse non si è pronti mai, e bisogna deporre
ogni paura, ogni remora, zittire la ragione e lasciare esprimere il cuore.
Avendo dichiarato i titoli che rendono legittima oggi
una mia parola, è possibile pronunziarne una sensata su questi temi? Voglio
dire: ha senso parlare o bisognerebbe tacere e fare? Non c’è il rischio della
“chiacchiera” vacua, dello stereotipo sempre in agguato in una società che
predica la solidarietà e vive il suo “autismo corale”?
Proverò ad intrecciare elementi storici e filosofici
per cercare una parola sensata. Ebbene, a me pare doveroso partire dallo
Statuto dell’AVO che «opera nelle strutture ospedaliere e nelle altre strutture
socio-assistenziali con un servizio organizzato, qualificato e gratuito per
assicurare una presenza amichevole accanto ai malati nell’ambito delle
strutture stesse offrendo loro, durante la degenza, calore umano, dialogo,
aiuto per lottare contro la sofferenza, l’isolamento, la noia: con l’esclusione
però di qualunque mansione tecnico-professionale di competenza esclusiva del
personale medico e paramedico. È una presenza che integra e non si sostituisce
a quelli che sono i compiti perseguiti e le responsabilità assunte dalle
organizzazioni nelle quali svolge la sua attività». L’articolo 2, comma D, ci
illumina, in realtà, su un’intera configurazione storico-culturale delle
strutture ospedaliere e della funzione del medico e dell’infermiere che
dobbiamo saper cogliere, e non considerare eterna e immodificabile.
Voglio dire
che, con l’avvento della modernità, che collochiamo tra il XVI e il XVII secolo,
avviene una radicale trasformazione nella concezione dell’uomo e delle scienze,
in cui la stessa medicina viene coinvolta. Il dualismo di matrice cartesiana,
che separa nettamente “res cogitans” e “res extensa”, corpo ed anima, crea i
presupposti affinché la medicina perda sempre più i tratti che, con tutti i
limiti delle società premoderne, ne facevano cura integrale dell’uomo. Si
aprono le porte nel contempo ad immensi progressi ma anche ad una scissione mai
più ricomposta.
Un autore a me
carissimo, che provocatoriamente cito soprattutto di fronte ad amici medici,
Ivan Illich, scriveva in Nemesi medica,
circa quarant’anni fa: «Un mondo in cui la salute è ottimale e
diffusa è ovviamente quello dove l’intervento medico è minimo e soltanto
occasionale. Gli individui sani sono quelli che vivono in case sane con un’alimentazione
sana in un ambiente parimenti adatto per nascere, crescere, lavorare, guarire e
morire; sono sorretti da una cultura che favorisce l’accettazione consapevole
di una limitazione demografica, della vecchiaia, del ristabilimento incompleto
e della morte sempre incombente». Noi viviamo, al contrario, in un mondo in cui
quella che Illich chiama “casta” medica ha medicalizzato la vita (dall’utero al
fine vita), facendo di ciascuno di noi un individuo indigente, bisognoso
perennemente di cure e sempre potenzialmente malato. E, dunque, l’ospedale è
divenuto uno dei luoghi fondamentali della nostra vita, finanche per morirci,
in un’assoluta dimenticanza di quelli che sono i nostri bisogni umani più
profondi. E in questi ospedali, purtroppo, e in virtù di quella inevitabile
scissione prodotta dalla tecnoscienza che fonda la modernità, c’è spazio solo
per la cura della “res extensa”, dimenticando spesso che dentro quella carne
malata, afflitta, sofferente, si nasconde un’anima che anela cure e lenimenti,
balsami e refrigeri. Le donne e gli uomini dell’AVO diventano questo balsamo,
questo momento di senso nell’insensatezza del dolore o nella solitudine. Perché
– vedete – un altro grande male, di cui tutti diventiamo ogni giorno più
consapevoli, del nostro tempo è lo sradicamento planetario che sembra recidere
ogni legame con il territorio, la comunità, sembra spazzare via le relazioni
parentali, costringendoci ad un affollata solitudine, il cui dente appuntito
sentiamo soprattutto nella malattia. Il mondo della globalizzazione è un mondo di apolidi solitari...
La mia sembra una descrizione cupa. Probabilmente ci si
aspettava parole di speranza e, invece, ne ho pronunziate di oscure.
Il mio maestro più pericoloso, Martin Heidegger, mi ha insegnato
che nel momento del massimo pericolo, però, cresce anche ciò che salva...
Noi
viviamo un tempo propizio proprio in virtù della sua crisi di senso universale
che riguarda il pianeta e le nostre singole vite, le città inquinate e le
relazioni umane. E che cosa può salvare? Nel 2010 uscì un libro di Jeremy
Rifkin che vi invito caldamente a leggere. Si intitola La
civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi. In esso,
con una magistrale ricostruzione dell’intera storia umana, il sociologo
statunitense teorizza che questo tempo di crisi può segnare l’avvento di una
nuova umanità empatica, relazionale, capace, cioè di sanare quella frattura
fonda apertasi con la modernità tra “res cogitans” e “res extensa”, uomo e
uomo, uomo e ambiente: «La coscienza empatica si fonda sulla
consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se
empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita,
la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine
esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e
svilupparsi come se fossero le nostre. Il nostro abbraccio empatico è il nostro
modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita».
Ecco, a me sembra
che gli uomini e le donne dell’AVO appartengano all’avanguardia di una nuova
umanità, che sta nascendo, oscuramente, nel nascondimento, umilmente, come i
grandi simboli cristiani ci insegnano, educando, attraverso l’esempio, ad un
rapporto in cui l’Altro, il volto dell’altro, nella sua fragilità ci interpella
costringendoci a rispondere a questo appello attraverso parole e gesti sensati.
Il sogno è quello di luoghi di cura, familiari e accoglienti, dove la scissione
della modernità venga superata, dove medici empatici curino la persona nella
sua interezza, tornando al senso dell’antico giuramento ippocratico: «in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei
malati».
Fino ad allora il ruolo dell’AVO resterà insostituibile
e impagabile.
Una persona a me cara, di cui vi ho già parlato, ha
scritto nel 1988, rivolgendosi ai malati cui andava a far visita, Mafalda,
Giulia, il vecchietto che non può parlare. Con le sue parole, decentrandomi, mi
congedo, da diversamente credente o da credente inquieto che pure continua a
guardare alla croce, gesto di apertura e chiusura dei giorni, con stupore e
venerazione: «E quando mi perdo nel vuoto del modo, del dire, del
fare senza un perché, che voi tutti mi mancata ancora di più. È stato solo nel
“volto” scolpito in quell’antico legno che per un attimo si è dileguata la
nullità del mio essere, ma in quel volto c’eravate anche voi».
* * *
In limine all’intervento ho chiesto ai presenti di riflettere sulla parola “persona”, molto utilizzata da chi era intervenuto prima di me, ricordando la sua etimologia.