Il 26 aprile ho scritto su Facebook:
«Una riflessione sul 25 aprile 2020. Ci è mancato il corteo (invero a Benevento abbastanza ridotto di solito). Forse quest’anno sarei addirittura riuscito a portare Caterina che in III media ha studiato e iniziato a capire. Però è stato bello vedere tante condivisioni e, soprattutto, molti giovani “ereditare” lo spirito antifascista.Resta, però, insoluto e, ad ora, insolubile, “il” problema specifico dell’Italia: l’atto di fondazione della nuova Italia è divisivo, come inevitabile che fosse in un paese largamente e convintamente fascista almeno fino alla seconda metà degli anni Trenta. L’americano repubblicano o democratico si riconosce nel 4 luglio, il francese gollista o socialista si riconosce nel 14 luglio. L’italiano? Come docente ogni anno mi confronto con giovani che simpatizzano per il fascismo pur conoscendolo in maniera rudimentale. Convintamente antifascista, iscritto all’ANPI da quando è nata a Benevento, partecipe tutti gli anni (credo di averne saltati due per motivi di salute) al corteo del 25 aprile, continuo ad essere interpellato da questa “fondazione” escludente. D’altronde, quanti di noi non hanno amici che non si definirebbero antifascisti e che, al contrario, provano simpatie per quel regime? E dico amici che leggono queste parole, amici tutt’altro che ottusi o ignoranti. Al contrario, spesso colti e raffinati. Ne verremo mai a capo? Umberto Saba nel 1946 scrisse una delle sue folgoranti Scorciatoie (andrebbero fatte leggere a scuola).“Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe.Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. “Combatteremo – fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto – fratelli contro fratelli”. Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che – diventato chiaro a se stesso – finalmente si sfoghi. Gli italiani sono l’unico popolo, credo, che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio. Ed è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione.Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”».
Ne è nata discussione, come auspicavo.
In particolare, Antonio Furno ha scritto:
«L’Italia ha un altro mito fondativo ed è il Risorgimento. C’è un pezzo d’Italia, tra cui Nicola, che riconosce solo la Resistenza e non il Risorgimento».
La mia risposta:
«L’Italia nata il 17 marzo 1861 (non democratica e profondamente "razzista" nei confronti della sue regioni meridionali, annesse "per caso" e al di fuori di un progetto serio di unificazione nazionale, per Cavour stesso prematuro in quel momento) muore l’8 settembre del 1943 con il tradimento (l’ennesimo!) dell’ultimo Savoia. Il fascismo non è "accaduto" per caso ma anche con la connivenza (o, meglio, per volontà) di Vittorio Emanuele III, erede degno di una stirpe che ha sempre covato pulsioni autoritarie (Crispi e governi italiani di fine secolo insegnano). Ciò non toglie che quel processo vada accettato. Ma bisogna raccontarlo senza mitologie […]. Per altro la ferocia inaudita nella repressione del brigantaggio, che non fu solo delinquenza comune ma anche esplosione del disagio sociale (al di là delle inaccettabili mi(s)tificazioni neoborboniche), e l’amplificazione della "questione meridionale" aggravano un quadro già critico. Si può essere italiani, ed orgogliosi di esserlo, guardando con lenti critiche il processo (casuale, come ripete spesso Mack Smith) di nation building».
Antonio Furno, come spesso gli capita, ha accusato la mia ricostruzione storica di essere «rozza», di voler decidere il “mito” fondativo della nostra nazione e altre amenità, con il sottinteso (difficile da sradicare in chi è mosso da pregiudizi) che io sia “neoborbonico”.
Il mio amico ritorna sulla questione senza citarmi (anche questa è prassi per lui inveterata). Scrive:
«Adesso vi racconto una cosa sul 25 Aprile, sulla Resistenza, sul 1861, sull’Unità d’Italia e il Risorgimento.Il 19 novembre 1863, durante la guerra di secessione, Abramo Lincoln va ad inaugurare il cimitero militare di Gettysburg. Sono passati 4 mesi dalla battaglia di Gettysburg, gli stati del Nord sono ormai prossimi alla vittoria e Lincoln pronuncia un discorso che cambierà la storia degli Stati Uniti d’America e del mondo.“Four score and seven years ago our fathers brought forth on this continent a new nation, conceived in liberty, and dedicated to the proposition that all men are created equal”.Lincoln in queste poche parole segna la nascita della nazione americana. Dice che 87 anni prima («four score and seven years») i padri fondatori hanno fondato una nazione, i cui principi sono la libertà e l’uguaglianza tra le persone. Fino a quel momento, il documento fondativo degli Stati Uniti era da tutti considerato la Costituzione, promulgata nel 1788, un testo frutto di una lunga negoziazione tra gli Stati che conteneva le regole di funzionamento della federazione americana. Lincoln a Gettysburg sposta la nascita degli Stati Uniti d’America al 4 luglio 1776, alla dichiarazione di indipendenza.Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità.Lincoln a Gettysburg crea gli Stati Uniti d’America semplicemente scegliendo il mito fondante della nazione.Le nazioni sono invenzioni umane che si reggono sui racconti e i miti condivisi.Quelli che oggi scelgono di fare nascere l’Italia dalla Resistenza e non dal Risorgimento, compiono un atto politico, legittimo per carità, ma pur sempre politico».
E, nei commenti: «Se nel racconto della nazione parti dal 1861 e prendi Cavour e il liberalismo piemontese come padre della nazione è un conto». E, poco dopo, ribadisce la matrice neoborbonica di una posizione diversa, malgrado il suo interlocutore (Ottavio Cosentini) gli ricordi tutte le “criticità” del Risorgimento italiano.
Mi fa piacere trascrivere tutto qui perché è un peccato che queste discussioni si perdano.
Schematizzo.
1. La storia non è scienza “dura” né “esatta”. Essa è pesantemente condizionata dall’epoca in cui viene scritta, dai punti di vista, dall’appartenenza di classe et cetera. Non so se la mia ricostruzione delle vicende italiane, che vado raccontando ai giovani da circa venticinque anni, dopo averle studiate in una discreta Università (La Sapienza) con discreti docenti (e qualche libro letto negli anni) sia “rozza”. Possiamo discuterne (se gli interlocutori partono dalla consapevolezza del conflitto interpretativo e dismettono, ma capisco che questo per Antonio è come per la gomena passare nella cruna d’un ago, pretese veritative “assolute”).
2. Un dato è inoppugnabile (per altro ben resto dal titolo di un libro di un intellettuale che pure non amo: La morte della patria): il tradimento dei Savoia dell’8 settembre pone fine alla storia iniziata il 17 marzo 1861.
Scrive a proposito Galli Della Loggia:
«L’elemento storico decisivo dell’8 settembre, ripeto, non sta nel fatto, ma nel come. E il come è memorabile – degno di essere ricordato, come di fatto è ricordato, a cominciare dalla data, che forse è a tutt’oggi la più conosciuta della nostra storia da parte dell’uomo della strada – perché quel come riassume e simboleggia la piena legittimità storica – anzi addirittura la crucialità – della domanda sul “carattere degli italiani” quale domanda obbligatoriamente preliminare ad ogni idea di nazione e di Stato di cui li si immagini (o li si voglia) partecipi. E perché l’8 settembre è altresì simbolo del fallimento rovinoso in cui prima o poi è destinata ad incorrere qualsiasi risposta alla suddetta domanda che sia esclusivamente ideologica e/o politica, estrinsecamente e volontaristicamente tale. Di fronte a quanto ora accennato – vale a dire all’ampiezza ed alla profondità di una crisi dell’idea di nazione che indusse tanti a pensare di non essere più una nazione, o di non esserlo mai stati, o di non essere stati capaci di esserlo quando solo e per davvero contava, cioè nel momento del cimento supremo – di fronte a questa crisi tanto grave in coincidenza con la guerra, non stupisce che la vita politica e lo spirito pubblico dell’Italia dell’ultimo cinquantennio ne siano stati segnati così profondamente».
3. La storia non si può discutere? Questo è probabilmente l’assunto di molti. Una giustificazionismo di (inconsapevole?) matrice hegeliana. E, invece, la storia va discussa criticamente pur nella consapevolezza della immodificabilità delle sue conseguenze. Bisogna ricostruire in maniera non mitizzante il Risorgimento, svolgendo una (doverosa!) opera “revisionistica” (che ha costretto molti di noi a liberarsi di impalcature mentali costruire sin dall’infanzia, quando Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II venivano rappresentanti nelle aule elementari tutti insieme appassionatamente). E, dunque, i punti di vista "conservatori o “reazionari” (da Verga a Tomasi di Lampedusa agli storici neoborbonici) risultano assolutamente preziosi nella loro parzialità.
4. In realtà, la matrice (ideologica come è giusto che sia) del discorso di Antonio è in quel elogio di Cavour e del liberalismo piemontese come origine della nazione. Poiché Antonio è un liberale (di destra o di sinistra in base alle definizioni ottocentesche lo lascio a lui decidere ma l’elogio di Cavour non lascerebbe dubbi…) desidera che quel contorto e molto casuale processo di unificazione nazionale, nato soprattutto dalla volontà delle grandi potenze europee, venga accettato acriticamente, chiedendo, dunque, di dimenticare le nefandezza già elencate. Ribadisco il mio no, grazie. Sono italiano, e orgoglioso di esserlo. E, come sempre, scelgo di stare, rileggendo la storia, “dalla parte del torto”, del Risorgimento sconfitto (in cui affondano le linfe più vitali della Resistenza). «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento» ha scritto un comandante partigiano francese. A ciascuno l’onere di “ereditare”, di costruire la sua personalissima genealogia. Immagino che Antonio mi obietterà che io sono un docente di storia e ho responsabilità “pubbliche”. Voglio rassicurarlo: entro certi limiti (umani), mi sforzo di dare ai miei allievi punti di vista plurali.
5. La polemica con Antonio in realtà consente di problematizzare ulteriormente l’oggetto originario del mio post (l’origine divisiva della storia italiana): sia il 25 aprile che il 17 marzo sono “miti fondativi” divisivi per gli Italiani. Antonio eredita Cavour, il suo liberismo, il suo liberalismo, io eredito Pisacane. Amici si sentono eredi di Mussolini e del fascismo, io dell’antifascismo. Salvatore Esposito obietta: quale origine non è divisiva? Certo, però nel tempo quelle divisioni sono state “assorbite”. Perché solo in Italia non accade, al punto che nell’ultimo trentennio c’è stato, per esempio, il fiorire del “neoborbonismo”?
6. Ripeto, e spero di non essere ancora frainteso: non ho soluzioni a questo problema (serio). Cerco di contribuire con i miei «rudimentali» (cit.) strumenti alla discussione.