sabato 1 febbraio 2020

Giorno della Memoria 2020

Quest'anno la mia scuola ha dedicato tante iniziative alla memoria della Shoah. Scelta quanto mai necessaria, se è vero che molti Italiani pensano che essa non sia mai avvenuta o, almeno, non nei termini in cui viene "raccontata". 

E ancor più necessaria pensando che i testimoni oculari stanno scomparendo e che tra qualche lustro non ci saranno più.
L'intervento che ho tenuto all'interno della manifestazione organizzata dalla "Dante Alighieri" si è articolato intorno a pochi temi, arricchito dalla fisarmonica di Edoarda Iscaro e da due letture (Levi e Segre) dei nostri allievi: l'importanza della cultura ebraica (dalla spiritualità al fumetto) per la cultura mondiale (e per me!), cosa è accaduto, perché celebriamo questo genocidio e non altri (cosa lo rende unico?), una breve storia dell'antigiudaismo (soprattutto cristiano), l'antisemitismo moderno (legato al razzismo e al nazionalismo), l'universo concentrazionario e la sua massificazione e animalizzazione dell'ebreo (lo sfondo delle diapositive è sempre stata un'immagine di Maus con l'ebreo-topo), le responsabilità degli Italiani, "brava gente", gli ultimi testimoni, il senso di una memoria "attiva" e non solo celebrativa, le insidie del revisionismo e del negazionismo.
Ho chiuso con una lettura di un poeta che amo, come questo blog testimonia, quanto mai altri, Paul Celan, chiedendo ai presenti di chiudere gli occhi ed abbandonarsi al flusso di immagini archetipiche ed elementari (la pietra, l'erba), alle parole composte che cantano certo la dissoluzione, la perdita, la cenere ma anche la possibilità di ritrovarsi. Nella parola che salva. Questo l'immenso potere del canto di cui ho cercato di essere un umile medium.




STRETTA

Trasferito nella
landa
dalla traccia inconfondibile:

Erba, divisa da scritte. Le pietre, bianche,
con le ombre degli steli:
Non leggere più – guarda!
Non guardare più – va’!

Va’, la tua ora
non conosce sorelle, tu sei –
sei a casa. Una ruota, lenta,
sfila da sé, i suoi raggi
rampicano,
rampicano su nerastro campo, la notte
non richiede stelle, non vi è posto
ove si chieda di te.

Non vi è posto
ove si chieda di te –

Il luogo, ove essi giacquero, quel luogo
ha un nome – e non ne ha
alcuno. Non lì, essi giacquero. Qualcosa
giaceva frammezzo a loro. Essi
non vedevano oltre.

Non vedevano, no,
essi discutevano di
parole. Non vi fu
risveglio, il
sonno
venne su di loro.

Venne, venne. Non vi è posto
ove si chieda –

Sono io, io,
io giacqui frammezzo a voi, io ero
aperto, ero
udibile, vi mandavo un ticchettio, il
vostro respiro si adeguava, sono
ancor sempre io; voi
dormite.

Sono ancor sempre –

Anni.
Anni, anni, un dito
tasta in giù e in su, tasta
intorno:
suture, palpabili, qui
si schiude largo un vuoto, lì
s’è colmato, concrescendo – chi
lo ricoperse?

Ri-
coperse – chi?

Venne, venne.
Venne una parola, venne,
venne attraverso la notte,
voleva luccicare, luccicare.

Cenere.
Cenere, cenere.
Notte.
Notte-e-notte. – Va’
all’occhio, umido occhio.

All’
occhio, va’,
umido –

Uragani.
Uragani, da sempre,
turbinio di particelle, il resto,
tu
lo sai bene, noi
lo leggemmo nel Libro, ed era
opinione.

Era, era
opinione. Come
ci afferrammo
l’un l’altro – con
queste
mani?

Era anche scritto, che.
Dove? Noi
vi stendemmo sopra un silenzio,
nutrito di veleno, grande,
un
verde
silenzio, un petalo, cui s’univa
un’idea come di pianta –
verde, sì,
s’univa, sì,
sotto perfido
cielo.

Cui, sì,
come di pianta.

Sì.
Uragani, tur-
binio di particelle, restava
tempo, restava,
di tentare con la pietra – essa
era ospitale, essa
non ti tranciava la parola in bocca. Quanto
bene stavamo:

Granosa,
granosa e fibrosa. Striata,
densa;
uvata e radiata; glomerulosa,
levigata e
grumosa; sciolta, ra-
mificata –: essa, la cosa
non ti tranciava la parola, essa
parlava,
amava parlare ad occhi asciutti, prima di chiuderli.

Parlava, parlava.
Era, era.

Noi non mollammo, restammo
dentro, un
corpo poroso, e la cosa
venne.

Venne a noi, venne
attraverso, ricucendo
invisibile, ricucendo
l’ultima membrana,
e
il Mondo, un Millecristalli,
rapprese, prese forma.

Rapprese, prese forma.
Poi –

Notti, frante. Cerchi,
verdi oppure blu, quadrati
rossi: il
Mondo investe il suo intimo
nel gioco con le ore
nuove. – Cerchi,
rossi oppure neri, quadrati
tersi, nessuna
ombra d’un volo,
niente
geodesia, nessuna anima di fumo
si leva e sta al gioco.

Si leva e
sta al gioco –

All’imbrunire, impietrita
la lebbra,
fuggite
le nostre mani, nel-
l’estremo ripudio,
al di sopra
del vallo antiproiettile
presso il muro interrato:

nuovamente
visibili: i
solchi, i

cori, in quel tempo, i
salmi. O, o-
sanna.

Dunque ancora
vi sono dei templi. Una
stella, certo,
ha luce ancora.
Nulla,
nulla è perduto.

O-
sanna.

All’imbrunire, qui,
il conversare, grigio come il giorno,
delle tracce d’acqua profonda.

 (– – grigio come il giorno,
delle
tracce –

Trasferito
nella landa
dalla
inconfondibile
traccia:

Erba.
Erba,

divisa da scritte.)

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