Mad Max ed Ernst Bloch su uno sfondo distopico di Corrado Roi. |
1.
È
possibile ancora sognare ad occhi aperti? Ernst Bloch, ha scritto che la
speranza, nettamente superiore alla paura, è «sogno a occhi aperti», «sogno in
avanti», nel senso dell’anticipazione di ciò che non è ancora dato. Bloch
distingue nettamente i sogni notturni dai «sogni a occhi aperti»; nei primi
l’adempimento di desideri è «nascosto e antico», nei secondi è «fabulatorio e
anticipante».
2.
Da
una ricerca de «La Stampa» del 2014: «Siamo
immersi, appunto, in un “presente continuo”, siamo ininterrottamente online:
dove ieri e domani si confondono con l’odierno, senza soluzione di continuità.
Non era così anche solo vent’anni fa».
3.
Stiamo vivendo una “presentificazione dell’esperienza”. Se questo è
vero, allora ne vengono modificate le esperienze sia del passato che del
futuro. Viviamo, dunque, un tempo senza memoria e senza radici, a partire dalla
dimensione familiare. E, dunque, viviamo un tempo senza futuro, senza speranza,
se non nelle sue forme corrotte e degradate, e senza progetto.
4.
Non
ritengo casuale il successo di opere (romanzi o film) distopici e
catastrofisti, che spesso utilizzo nelle mie attività didattiche: da La strada a Mad Max, da Waterworld a L’esercito delle 12 scimmie. È come se
il nostro tempo riuscisse ad immaginare il futuro solo come catastrofe. Certo,
questo è anche il frutto del fallimento delle utopie ottocentesche, soprattutto
il socialismo, nelle sue possibili varianti: «Le utopie del diciannovesimo
secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La
globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo
fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un
presente continuo» (Augé).
5.
La
“fine della storia” è uno dei concetti-chiave dell'analisi filosofica del
politologo Francis Fukuyama: secondo questa tesi storiografica, il processo di
evoluzione sociale, economica e politica dell'umanità avrebbe raggiunto il suo
apice alla fine del XX secolo, snodo epocale a partire dal quale si starebbe
aprendo una fase finale di conclusione della storia in quanto tale. Dagli anni
Novanta, nella cultura occidentale si è ripetuto il mantra secondo cui “la
storia è finita”. Non plus ultra... A
tutto questo si è dato spesso il nome di “postmodernità”. Se la modernità è
stata percorsa dal “sogno”, dall’utopia di “andare oltre il presente”, di
plasmare un futuro (o un altrove) migliore, se la storia stessa è stata vista
da Marx come gravida di un forza motrice che necessariamente «abolisce lo stato
di cose presente», la post-modernità abbandona questo sogno pericoloso, acquietandosi nell’eterno presente della televisione e dei mondi digitali,
uniche realtà o surrealtà alternative possibili, ma anche esse “pensate” da
un’oramai onnipervasiva industria dell’intrattenimento.
6.
La parola deriva dal greco οὐ (“non”)
e τόπος (“luogo”)
e significa “non-luogo”. Nella parola, coniata da Tommaso Moro (1516), è presente in origine un gioco di parole con l'omofono inglese eutopia,
derivato dal greco εὖ (“buono” o “bene”)
e τόπος (“luogo”),
che significa quindi “buon luogo”. Questo, dovuto all'identica pronuncia, in
inglese, di “utopia” e “eutopia”; eutopia (buon luogo). L'utopia sarebbe
dunque un luogo buono/bello ma parimenti inesistente, o per lo meno
irraggiungibile.
7.
Secondo Massimo Cacciari, l’utopia
nasce con la modernità (e il suo “prometeismo”), va di pari passo con la
consapevolezza dell’uomo di poter plasmare il mondo attraverso la tecno-scienza
(e, dunque, tutto ciò che impropriamente si chiama utopia nel mondo premoderno
avrebbe più a che fare con la profezia). Questo progetto si compirebbe proprio
nel capitalismo tecnologico in cui siamo immersi.
8.
«Una carta geografica del mondo
che non comprenda Utopia non merita neanche uno sguardo, giacché lascia fuori
l’unico paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando l’Umanità vi arriva
guarda altrove, e scorgendo un paese migliore, alza le vele e riparte. Il
progresso è la realizzazione delle Utopie» (Oscar Wilde).
9.
Esisterebbe, sempre secondo
Cacciari, a partire dal XX secolo, una variante “profetica” dell’utopia,
incarnata soprattutto dall’opera di Ernst Bloch, il teorico del
“principio-speranza”. In ogni caso, sia nella variante moderno-tecnologica che
in quella novecentesca-profetica, l’utopia era un sogno collettivo, che
riguardava tutti o almeno molti. Si dava per assunta la natura “politica”
dell’uomo, secondo quanto avevano detto i grandi pensatori greci come Socrate,
Platone e Aristotele.
10. In realtà, dice Bauman,
il sostituto contemporaneo dell’utopia è la fuga individualistica del
consumatore: «Alle tue preoccupazioni e ai tuoi sforzi non rimane altro che
concentrarsi sulla lotta per evitare di perdere, lotta che deve assorbire gran
parte della tua attenzione e delle tue forze». Questa utopia individuale e
consumistica, fuga perenne, non postula un punto di approdo: la felicità è
sempre avvenire: «Un’utopia strana, non ortodossa, ma comunque un’utopia, che
promette lo stesso premio irraggiungibile sbandierato da tutte le utopie, vale
a dire una soluzione definitiva e radicale ai problemi umani passati, presenti
e futuri, e una cura definitiva e radicale dei dispiaceri e dei dolori della
condizione umana. Non è ortodossa soprattutto perché la terra delle soluzioni e
delle cure non è più collocata in un “altrove” remoto, ma nel “qui e ora”».
11. È possibile veramente,
per parafrasare Char, vivere senza futuro dinanzi? Scriveva Karl Mannheim in Ideologia e utopia (uscito nel 1929):
«Una rimozione dell’elemento millenaristico dalla sua posizione centrale nella
cultura e nella politica priverebbe il mondo del significato della vita». Ciò
avrebbe condotto a «un indebolimento della volontà umana». Senza «ideali»,
l’uomo sarebbe diventato una creatura dominata da meri impulsi». Che è quanto
sta accadendo oggi. L’homo non è
costitutivamente utopicus? Ma se
l’utopia “moderna” è stata realizzata dal capitalismo, per quale utopia c’è
spazio?
12.
Bernard Stiegler mostra come l’uso immeditato delle
tecnologie porti a ciò che chiama «disindividuazione» ovvero disintegrazione
dei singoli e dei gruppi. La successione rapida e incessante di stimoli
impedisce agli uomini di elaborare quelle che definisce «protensioni», vale a
dire speranze, progetti, ambizioni. E questo perché parte delle «ritenzioni»,
diciamo della memoria, non trovano il tempo di formarsi. Senza di esse viene
meno «l’orizzonte di attesa», cioè quel trampolino verso il futuro che anima la
vita dell’uomo. E questo per l’implosione del tempo necessario al formarsi di
connessioni tra le diverse generazioni. La velocità delle informazioni incatena
gli uomini alla loro individualità facendo evaporare ogni forma di continuità
con predecessori e contemporanei. Ma senza continuità non c’è vita. Ogni cosa
si acciambella su se stessa e non trova il respiro della storia. Ecco che
allora prevale l’estenuazione. Il non senso di qualunque azione diventa
dominante. L’eclissi dell’avvenire non è senza conseguenze. Disintegra l’uomo.
Estinguendosi ogni forma di progettualità, gli uomini si ritrovano rinserrati
in un eterno presente. «La distruzione del narcisismo primordiale – riconosce
Stiegler – conduce alla follia, vale a dire alla perdita della ragione e più
precisamente della ragione di vivere da cui proviene il sentimento di
esistere». Senza lo slancio verso il futuro ispirato dalla cura di se stessi il
mondo sembra fermarsi. Peggio. Pare che si muova per puri automatismi a
prescindere dall’uomo, al punto da generare quella che Stiegler definisce
«epoca senza epoca». Cioè la nostra. Per uscirne non si deve rifiutare
asceticamente le tecnologie. Ma farsene carico come fossero un farmaco, portentoso
e letale al tempo stesso.
13.
Riscoprire
l’utopia, liberatasi dalla ὕβϱις della modernità che ne ha sancito il fallimento nelle
sue varianti fino ad ora prodotte, significa anche tentare di contrastare lo
sradicamento planetario che pare destino ineluttabile di quella che Antonio
Martone chiama “e-polis”. Il radicamento, secondo la Weil, è uno dei bisogni
primari dell’uomo. Il realismo capitalista, invece, sceglie come proprio
“cliente” l’homo consumens (Bauman)
senza radici, senza memoria, senza passato, totalmente assorbito dai propri
bisogni materiali. Va da sé che questo comporta un progetto politico ambizioso
e di lungo periodo che imbrigli la globalizzazione con i suoi perniciosi
effetti, senza cadere nella soluzione regressiva dell’identitarismo patriottico
o, peggio, etnico (come purtroppo sta accadendo un po’ ovunque, ivi compresa
l’Italia).
14.
Ritessere
il legame con il passato. Tornare a coltivare la memoria. A livello personale e
collettivo. Questo mi pare il primo imperativo. Che non significa cadere nella
“retrotopia”, per citare sempre Bauman, nella idealizzazione del passato.
Significa “radicarsi” in una storia di cui ci sentiamo parte e che continuerà
dopo di noi perché ci slanciamo, con gli occhi ben aperti, anche in un’altra
dimensione costitutiva del nostro essere che è il futuro. Sono persuaso che se
non veniamo spinti dall’anelito ad un mondo migliore, ci rassegneremo sempre ad
un presente percepito come immodificabile. Abbiamo di nuovo bisogno di
profezia. Senza cedere, però, al demone della perfezione, a quella voce
diabolica che sussurra che il migliore dei mondi è possibile.
15.
In
questo tempo apocalittico-rivelativo, dove nel massimo pericolo sorge anche ciò
che salva, non è proprio il cristianesimo (lo dico - si badi! - da non
cristiano, da diversamente credente), il modello cristiano (meglio: gesuano) di
vita, in quanto fondato sull’amore fraterno (esteso all’intero creato, e quindi
sul rigetto radicale dell’individualismo consumistico) e sulla speranza che non
delude, il più alto progetto utopico? Non è quel messaggio saldamente radicato
nel passato e profeticamente aperto su un futuro di speranza e attesa? Che
torni a risuonare, dunque, l’antica preghiera: «Veniat Regnum Tuum». Sia il
sogno ad occhi aperti del futuro la stella che guida il nostro viaggio, la
cometa che ci conduca al tempo messianico.
Testi di
riferimento
M. Augé, Un
altro mondo è possibile, Codice Edizione, 2012.
Z. Bauman, Modus
vivendi, Laterza, 2018.
E. Bloch, Il
principio-speranza, Garzanti, 2005.
E. Bloch, Lo
spirito dell’utopia, Rizzoli, 2009.
M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, 2016.
M. Fisher, Realismo
capitalista, Nero, 2018.
F. Fukuyama, La
fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.
K. Mannheim, Ideologia
e utopia, Il Mulino, 1972.
A. Martone, Antropologia
della tecnica, Rubettino, 2018.
L. Mumford, Storia
dell’utopia, Donzelli, 2008.
T. Simeone, Il
dovere della speranza, Aletti, 2017.
B. Stiegler, Reincantare il mondo, Orthotes, 2012.
Questi
frammenti rielaborano l’intervento tenuto al Liceo Classico “Luigi Sodo” di
Cerreto Sannita il 21 febbraio 2019 all’interno di un ciclo di incontri sul
sogno.
Il testo a stampa si trova in «Api ingegnose» (n. 7, 2019)
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