Aristotele e Spielberg montati su un fotogramma di "Stalker" (A. Tarkovskij) |
Mi capita
spesso di ripensare ad una sera del 1982 in cui andai a cinema per vedere, pensavo,
un film di fantascienza, dello stesso regista di Alien, e questo era una garanzia. Frequentavo la prima liceale, corso
B, del Giannone.
Quell’evento, la visione di Blade Runner, mi avrebbe, in qualche modo, cambiato la vita. Fu
un’esperienza estetica certamente dirompente. Quella Los Angeles futuribile
eppure così realistica, battuta da una pioggia sporca e pesante, senza requie,
e una commistione di razze, di usanze, le musiche elettroniche di un
compositore greco, poi assurto a grande fama, Vangelis. Ma soprattutto il tema
affrontato: androidi che si ribellano, che ricercano disperatamente
un’identità, che pensano, che amano! Poi avrei scoperto che il film di Scott
era tratto dal racconto di un geniale e sfortunato scrittore, Philip Dick, e
che il titolo di quel racconto suona in italiano: Possono gli androidi sognare pecore elettriche?.[1]
Fui talmente impressionato da quel film che, quando il nostro professore di
italiano, Vittorio Cappelluzzo, ci chiese per il compito in classe di parlare
di un avvenimento che ci aveva colpito, io sentii l’urgenza di parlare di ciò
che quel film aveva prodotto in me. In particolare, riflettevo sulla
possibilità inaudita che un essere artificiale potesse avere un anima… E
risuonavano quelle parole straordinarie, pronunciate dal leader degli androidi
in fuga, sotto la pioggia: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste
immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e
ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti
quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia. È
tempo... di morire».
Quando decisi (sì, ricordo che lo decisi a diciassette anni) di diventare professore, presi solenne impegno di non tradire le mie passioni giovanili: il cinema ma soprattutto il fumetto. Come avrei letto in una poesia di Eluard, sognavo di stabilire rapporti «fra le grotte fatate e la valanga / fra gli occhi pesti e le risa allo stremo […] / fra l’araucaria e la testa di un nano» (La necessità).[2] Avevo l’oscura percezione che quei mondi fatati non erano il rifugio di fantasie adolescenziali. La mia esperienza di questi anni è stata una risposta a quella promessa: penso al corso di fumetto fatto per due classi ginnasiali, penso alle lezioni sulla spiritualità in Battiato (durante le giornate di LIC…enza) e l’opera di De André, penso, soprattutto, all’uso che faccio del cinema nel mio insegnamento tanto della storia quanto della filosofia. È possibile coniugare il lasciato straordinario degli antichi saperi, della cultura greca, della filosofia, l’indagine storica, con i mezzi espressivi creati nel corso del XX secolo.
2. La didattica filosofica e
il cinema
Per fortuna, la
riflessione sul rapporto tra cinema e filosofia si è consolidata negli ultimi
anni anche a livello accademico. In un recente manuale di didattica filosofica,
ad esempio, tra i vari contributi spicca quello di Umberto Curi dedicato,
appunto, alla questione. Rileggendo e riattualizzando alcune indicazioni della
Poetica aristotelica, Curi arriva a sostenere che «è possibile “imparare” e
“ragionare” guardando le immagini, meglio e più facilmente, di quanto non possa
accadere con l’esercizio filosofico tradizionale». [3]
Per questo motivo preferisco rinviare ad una bibliografia di base quanti
fossero interessati tanto agli aspetti teorici del problema quanto ad alcune possibili
applicazioni pratiche, dedicandomi, invece, ad illustrare il lavoro sul campo
svolto con le mie classi.[4]
Ho sempre
considerato il cinema uno strumento prezioso nell’insegnamento della filosofia,
seppure per motivi diversi. Non ho mai avuto in mente in particolare i film
nati con una voluta connotazione “filosofica”, come ad esempio le pur pregevoli
opere divulgative dell’ultimo Rossellini (Cartesio,
Pascal, Agostino), quanto film che si prestano ad una lettura filosofica.
Sin dall’inizio, dunque, del lavoro di sperimentazione che ho sempre cercato di
condurre, soprattutto nell’insegnamento della filosofia, ho innestato, in
momenti diversi dell’anno, dei momenti di visione di opere cinematografiche
legate a problematiche affrontate attraverso gli autori canonici del “programma”.
Negli ultimi anni ho provato, invece, ad inserire un vero e proprio modulo
integralmente dedicato all’analisi “filosofica” di un film, con tanto di
verifica finale.[5]
3. Matrix
e Platone
Lo scorso anno, con una
prima liceale, ad inizio anno, ho dedicato tre lezioni alla visione di Matrix, film di fantascienza uscito nel
1999 dei scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowsky. Ho avuto cura,
durante la visione, di dare una serie di chiarimenti e di stimolare nei ragazzi
la riflessione su possibili significati “nascosti” del film. Credo che il
vantaggio (rispetto ad un testo esplicitamente filosofico) di un film (oltre al
medium stesso, il linguaggio del quale i ragazzi conoscono precocemente) sia
soprattutto nella compresenza di più livelli di lettura. Matrix, ad esempio, può essere visto come uno spettacolare ed
intrigante film fantasy, in questo paragonabile a molti altri “prodotti”
dell’industria cinematografica, che per lo dedita all’intrattenimento. Ma,
nello stesso tempo, come alcuni altri film di “genere” (ad esempio, I.A. di Spielberg), si presta ad una
lettura molto più complessa. Questa la sintesi del film: «In un indeterminato
futuro la specie umana è controllata e sfruttata dalle macchine che, in forza
del livello tecnologico che hanno raggiunto, fanno credere agli esseri umani
che questi vivano liberamente nel mondo del XX secolo mentre in realtà sono
imprigionati in speciali contenitori, allevati unicamente allo scopo di
ottenerne l’energia necessaria alla sopravvivenza meccanica».[6]
Alla fine di un complesso lavoro di “conoscenza”, il protagonista, il cui nome
da hacker è Neo, riuscirà (apparentemente, perché poi ci saranno due sequel che complicheranno la vicenda) a
liberare gli uomini da Matrix. È evidente che il riferimento più esplicito è al
“mito della caverna” (Repubblica,
VII, 514 b – 520 a ).
I fratelli Wachowsky, dunque, illustrano in maniera innovativa l’antichissima
credenza, tipica di alcune religioni orientali e del platonismo, che il mondo
sia una “copia”, e che la maggior parte degli uomini vivano immersi nelle tenebre,
e che solo attraverso un doloroso processo sia possibile liberarsi e accedere
alla luce della verità. Altro tema portante del primo Matrix è la critica al macchinismo, che ha una nobile genealogia
nella cultura fantascientifica, se pensiamo a molte opere di Asimov o, nel
cinema, a film come Metropolis di
Lang, per citare un classico, o Terminator,
per citare un film di grande successo. I riferimenti filosofici in Matrix, però, sono tali e tanti che uno
studioso americano, William Irwin, ha pubblicato un’opera collettanea (con la
prestigiosa collaborazione di Zizek) tradotta in italiano con il titolo Pillole rosse,[7]
titolo che si riferisce alla possibilità che viene offerta a Neo da Morpheus,
leader della resistenza al mondo delle macchine, di scegliere (il tema della
scelta e del libero arbitrio sarà il cuore del secondo Matrix, Reloaded) tra una pillola che lo liberi dall’illusione e
una che gli faccia dimenticare tutto e tornare, come se nulla fosse successo,
alla sua vita normale.
Il film è disseminato di citazioni esplicite: ad esempio,
sulla porta della cucina dell’Oracolo (che è una donna di colore), campeggia la
scritta del tempio delfico, in latino: «Temet nosce», che – come sappiamo – è
uno dei fulcri dell’insegnamento socratico. E il percorso di scoperta di ciò
che il protagonista è realmente (l’Eletto, chiamato a salvare l’umanità)
definisce l’intero plot del film.
Perché, dunque, un film come Matrix
si presta bene ad un’operazione di innovazione nell’insegnamento della
filosofia (a patto che esso si integri in un programma dove ci sia spazio per
la lettura diretta dei testi filosofici e la discussione problematica sui
grandi nodi del pensiero)? Perché, mentre il ragazzo si appassiona ad una
storia intrigante, piena di colpi di scena, inseguimenti, sparatorie, lotte
modellate sulle arti marziali, mentre entra ed esce dal per lui familiare mondo
dei videogiochi, se opportunamente guidato può interrogarsi su alcune questioni
capitali della filosofia: il mondo che io percepisco con i sensi esiste
realmente? Esiste un mondo non percepibile con i sensi? Io sono libero o tutto
ciò che faccio è “programmato”? Chi sono io? Mi conosco realmente o sono solo
le maschere che la società mi ha costretto ad indossare? E posso liberarmi da
queste maschere? Gli uomini sono realmente i “padroni” del mondo o hanno posto
le basi per un dominio tecnico delle macchine, rischiando così di diventare
“servi del proprio servo” (cioè le macchine che inizialmente lo servivano)? Le
macchine possono “pensare”? I ragazzi, per approfondire queste tematiche, hanno
avuto a disposizione anche un saggio di Diego Marconi[8]
e il saggio di Irwin, “Computer, caverne e oracoli: Neo e Socrate” (tratto da Pillole rosse), un brillante confronto
tra il protagonista del film e il fondatore della filosofia occidentale, in cui
mostra come il messaggio finale del film riguardi l’invito a seguire la propria
strada con coraggio e determinazione, anche rischiando la morte. La verifica del
“modulo” è consistita, come mio costume, in una breve analisi testuale (tratta
da un altro saggio dello stesso libro, “La simulazione di Matrix e l’epoca postmoderna”
di David Weberman) e una serie di domande a risposta aperta del tipo: «Perché
Cypher tradisce Morpheus?»; «Che cosa dice l’Oracolo a Neo? Che lui è l’Eletto?
Che lui non è l’Eletto? Altro ancora? Motiva la tua risposta»; «Qual è il rapporto
tra uomini e macchine in Matrix?»; «Quali sono le scelte decisive
che Neo compie nel corso della vicenda?»; «Come si manifesta la consapevolezza
acquisita da Neo di essere l’Eletto? Chi svolge il ruolo di tramite verso
questa consapevolezza? In che modo?». La collocazione del lavoro tra ottobre e
novembre ha consentito di utilizzare una serie di conoscenze realizzate
attraverso questo modulo atipico per la prosecuzione del programma.
4. La “sottile linea rossa” tra la il fisico e il metafisico
Quest’anno, invece, ho innestato l’analisi di un
film diverso sull’impianto radicalmente diverso della programmazione, avviata
nella prima liceale con un modulo dedicato alle cosmogonie e alle cosmologie
(da Esiodo a Vito Mancuso, un cui testo chiudeva la riflessione). Ho scelto
un’opera molto complessa, sicuramente difficile per dei ragazzi: La sottile linea rossa di Terrence
Malick.[9]
In questo caso lo “zucchero” era costituito dalla parata di star presenti nel film, volti noti al
pubblico giovanile: da John Travolta a Nick Nolte, da Sean Penn a George
Clooney. Il film racconta della conquista di un campo d'aviazione giapponese
posto in cima ad una collina dell'isola di Guadalcanal durante la seconda
guerra mondiale. Il gruppo di militari è guidato dal mite capitano, agli ordini
di un ambizioso colonnello: «durante il lungo assalto alla collina si
consumeranno le vicende e i tormenti interiori di un gruppo di uomini costretti
a confrontarsi con i propri doveri e la follia della guerra, mentre la natura,
lussureggiante e indifferente, sembra cullarli e contrapporsi alla loro logica».[10]
La complessità del film mi ha spinto a preparare una sorta di schema dei
personaggi, ognuno dei quali incarna una possibile risposta alla grande domanda
posta all’inizio: «Cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura? Perché
la natura lotta contro se stessa? Perché la terra combatte contro il mare?».
Dunque, il film, che erroneamente fu interpretato – visto anche la quasi coeva
uscita di Salvate il soldato Ryan –
come un film “di guerra”, utilizza, come Matrix,
un genere codificato per porre un interrogativo filosofico, antichissimo, se è
vero che Eraclito l’Oscuro scriveva: «Il Conflitto (Polemos) è padre di tutte le cose e di tutti re».[11]
La guerra, chiede interrogativamente Malick, è non solo ciò che rende l’uomo
tale ma principio nascosto dell’intera vita naturale, che non lascia scampo a
nessun possibile “paradiso”? Il protagonista del film, una sorta di “idiota”
dostoevskijano, un personaggio mite e gentile, sembra aver trovato questo
paradiso in un villaggio aborigeno, salvo scoprire alla fine che anch’esso è
minato dallo stesso oscuro male del conflitto e della violenza, e, dunque,
accettare il destino del conflitto, morendo da eroe. Non esiste salvezza
nell’amore, se un altro personaggio, che dialoga incessantemente con la donna
amata al di là delle acque dell’oceano, divenute una sorta di Acheronte,
evocative del mito di Orfeo ed Euridice, scopre alla fine che ella lo ha abbandonato.
L’unica risposta positiva sembra essere quella tutta umana del sergente duro
con i suoi uomini ma intimamente lacerato dalle loro sofferenze e del capitano
che sacrifica la sua carriera alla salvezza dei suoi. Risposte etiche, per così
dire, che si contrappongono al cinismo di altri ufficiali, sospinti da volontà
di potenza, speranza di ascesa sociale. Alla fine, però, il film sembra
ribaltare questa cupa visione del mondo, perché una voce recita questa sorta di
preghiera panteistica: «Dove eravamo insieme, chi eri tu? Quello col quale ho
vissuto, camminato, il fratello, l'amico. Buio dalla luce, conflitto dall'amore.
Sono il frutto di una sola mente, i tratti di un solo volto. Oh anima mia, fa
che io sia in te adesso, guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai
creato. Tutto risplende». A rimarcare questa torsione religiosa del film, ho
fatto leggere e commentare ai ragazzi una pagina del Baghavad-Gita, dove, in particolare, Krhsna erudisce Arjuna: «Tu
non desiderare, non domandare; agisci,
ma lascia il frutto delle tue azioni. Cerca rifugio in questa disciplina, senza
attaccamento alcuno. Il successo e l’insuccesso sono uguali».[12]
Mi è parso, infatti, che il comportamento del protagonista nasca
dall’illuminazione sulle cose del mondo, e dalla consapevolezza che bisogna
agire senza curare il frutto delle azioni. Perché? Perché questo mondo è
“apparenza”, Maya. Altrove c’è la risposta alla domanda iniziale, in una
dimensione sovratemporale, meta-fisica, che solo attraverso la purificazione e
la morte si può raggiungere. E, sempre in una prospettiva “religiosa”, ho letto
una celeberrima poesia di Montale, Spesso
il male di vivere ho incontrato,[13]
dolente meditazione, senza illuminazione finale, se non il “distacco”,
l’atarassia, sulla sofferenza cosmica. Infine, i ragazzi hanno letto alcuni
saggi critici dedicati al film, alcuni densi di riferimenti letterari e
filosofici.[14]
Nella verifica di fine modulo chiedevo, ad esempio, di schematizzare le vari
opzioni “esistenziali” (cioè le scelte di vita) dei personaggi principali del
film, di descrivere la vicenda amorosa del film, i simboli e i miti ad essa
connessi, di analizzare il rapporto padre/figlio che viene ripetutamente
evocato, di discutere criticamente i testi letti e i saggi critici analizzati.
In riferimento alle cosmologie classiche e ai primi filosofi greci, ho chiesto,
ad esempio, di analizzare gli elementi presenti nel film. Un’allieva ha scritto:
«Il loro compito è quello di concentrare l’attenzione sul rapporto uomo-natura.
L’elemento più presente è l’acqua. Quella del mare rappresenta il grembo
materno, la perfezione che ognuno di noi ha provato almeno una volta e di cui
avverte la mancanza. Non a caso rappresenta il raggiungimento finale della
“gloria” da parte del protagonista.[15]
Al fuoco sono riconducibili sia le scene di distruzione (bombe, capanne in
fiamme) sia il rapporto con Dio. Il capitano prega e si vede una candela come
simbolo mistico, porta attraverso la quale la realtà divina entra in rapporto
con quella umana (con evocazione di una simbologia biblica). La terra è,
invece, il simbolo della mortalità: “Siamo polvere, siamo solo polvere…”».
La risposta dei ragazzi è stata molto interessante
in entrambi i casi. È stato per me possibile veicolare contenuti complessi,
densi, spesso oscuri, utilizzando la forza suggestiva delle immagini, che hanno
grande importanza nella filosofia studiata il primo anno.
5. Il cinema,
linguaggio universale del mito contemporaneo
Il mio percorso molto anomalo probabilmente spiega
l’ansia di sperimentare nuove strategie e nuovi approcci alla disciplina.
Infatti, il mio incontro con la filosofia non ha avuto un passaggio, se non marginale
e, per certi versi, casuale, accademico.[16]
Diciamo (questo ripeto il primo anno agli alunni) che sono un autodidatta.
Probabilmente questo consente maggiore libertà rispetto ai “programmi”
canonici. Soprattutto nei primi due anni del triennio (il terzo con l’esame di Stato
pone problemi particolari, ovviamente), pur mantenendomi nei limiti cronologici
previsti e con ampi riferimenti agli autori canonici, cerco di impostare moduli
alternativi. Quello sul cinema è una dei possibili, ma certamente quello più
intrigante per un adolescente, quello che lascia tracce maggiori nel tempo. Io
spero che, oltre ad avere positivi effetti per lo studio della filosofia, tale
scelta sviluppi anche una maggiore attitudine critica nella fruizione del
cinema, che – anche grazie alle pay tv – è diventato uno degli strumenti
primari di formazione di coscienza etica e gusto dei giovani. Inoltre è mia
persuasione che il bagaglio di “miti” che ogni civiltà presuppone nei suoi
membri (il mondo degli dei e degli eroi omerici per la Grecia , ad esempio) oggi
sia plasmato, appunto, dall’immaginario cinematografico. È mia persuasione che
la funzione “modellizzante” un tempo svolta da Achille, Enea, Orlando, dai tre
moschettieri, oggi venga svolta dagli eroi di celluloide. È molto più facile
stabilire un ponte comunicativo con i ragazzi utilizzando il codice filmico e
tutto l’immaginario ad esso connesso che sforzandosi di inculcare loro modelli
e miti “fuori tempo”. Sia chiaro: non sto dicendo che quel mondo vada
abbandonato. Non dobbiamo, però, illuderci che esso funzioni come trenta o
quaranta anni fa.
Conto, dunque, di proseguire questo tipo di
esperimenti: penso, in particolare, a Spielberg e al suo cinema “etico”, a
Bergman e al suo “esistenzialismo”, a Tarkovskij e al “mistero” che egli
indaga.[17]
Ma non necessariamente deve trattarsi di film “difficili”. Ad esempio, ritengo
che La guerra dei mondi di Spielberg,
apparentemente solo un film di fantascienza, sia una perfetta esemplificazione
dell’etica della responsabilità.[18]
Il cerchio si
chiude: quell’adolescente che per la prima volta fu indotto a pensare da un
film, oggi cerca di spronare al pensiero i suoi allievi utilizzando macchine
spettacolari, attualizzando antiche ricette pedagogiche: «Cosí a l'egro fanciul
porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato
intanto ei beve, / e da l'inganno suo vita riceve».
[1]
P. K. Dick, Ma gli androidi sognano
pecore elettriche?, Fanucci, 2007.
[2]
Cit. in A. Gnisci, Spighe. Saggi di
letteratura comparata, Carucci 1986, p. 43.
[3]
U. Curi, Cinema e filosofia, in
AA.VV., Insegnare filosofia. Modelli di
pensiero e pratiche didattiche, a cura di L. Illetterati, Utet, 2007, p.
292.
[4]
G. Deleuze, L’immagine-movimento,
Ubulibri, 1985; G. Deleuze, L’immagine-tempo,
voll. 1 e 2, Ubulibri, 1989 e 2004; U. Curi., Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina,
2000; J. Cabrera, Da Aristotele a
Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, 2000; A.
Sani, Il cinema tra storia e filosofia,
Le Lettere, 2002; J. A. Rivera, Tutto
quello che Socrate direbbe a Woody Allen,. Cinema e filosofia, Frassinelli,
2005; U. Curi, Un filosofo a cinema,
Bompiani, 2006.
[5]
Ottimi spunti per la sperimentazione di moduli su cinema e filosofia si trovano
negli articoli che Andrea Sani va pubblicando sulla rivista «Diogene.
Filosofare oggi», edita dalla Giunti (si veda anche il sito: http://www.diogenemagazine.eu). Ecco
alcuni titoli: Dalla robotica alla
robotica. L’etica nel mondo dei robot (n. 1, ottobre 2005), Frank Capra e il migliore dei mondi (n.
3, maggio 2006), Kubrick, Nietzsche e il
Superuomo (n. 7, maggio 2007)
[6]
Voce “Matrix” di Wikipedia,
http://it.wikipedia.org/wiki/Matrix.
[7]
AA.VV., Pillole rosse. Matrix e la
filosofia, a cura di W. Irwin, Bompiani, 2002.
[9]
Malick è una delle figure più originali dell’attuale panorama cinematografico.
Autore di soli quattro film nell’arco di trent’anni, laureato in filosofia ad
Harvard, nel 1969 ha
tradotto in inglese l'opera di Martin Heidegger, Vom Wesen des Grundes - The
Essence of Reasons, (Evanston, Northwestern University Press).
[10]
http://it.wikipedia.org/wiki/La_sottile_linea_rossa_(film_1998)
[11]
È il celebre frammento 53, in
H. Diels-W. Kranz, I Presocratici (a
cura di G. Reale), Bompiani, 2006, p. 353.
[12]
http://www.guruji.it/bhagavadgita/gita.htm
[13]
E. Montale, L'opera in versi,
Einaudi, 1980.
[14]
A. Piccardi, “Lo sguardo disumano: La
sottile linea rossa”, B. Fornaia, “In viva morte morta vita vivo”, P.
Vecchi, “Il regista che cadde sulla terra”, F. La Polla , “Soldati e filosofi”,
in «Cineforum» n. 382, marzo 1999.
[15]
« Un uomo guarda un uccello morente e pensa che la vita non sia altro che
dolore senza risposta, ma la morte che ha l’ultima parola ride di lui. Un altro
uomo vede lo stesso uccello e sente la gloria, sente nascere la gioia eterna
dentro di sé». Era uno degli aforismi tratti dal film che abbiamo analizzato.
[16]
Per “imposizione” della mia docente di letteratura italiana contemporanea,
Bianca Maria Frabotta, con la quale mi sarei laureato con un tesi sull’opera
poetica di Franco Fortini, seguii un esame di filosofia (Estetica, Emilio
Garroni), che poi mi avrebbe consentito l’acceso al concorso a cattedra.
[17]
Considero l’opera di Andrej Tarkovskij uno dei grandi lasciti dell’arte
novecentesca tout court, e le sue
riflessioni sul cinema un libro fondamentale di estetica, poesia e spiritualità
(Scolpire il tempo, Ubublibri, 2002).
[18]
Molto interessante l’esperienza didattica svolta al Carducci di Roma sul
rapporto tra il cinema di Kieslowski e l’etica di Lévinas, descritta in http://www.swif.uniba.it/lei/scuola/scuole/etica.pdf.
[Apparso in «Api ingegnose», 2016]
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