Però come al solito sono abbastanza intelligente da pormi queste domande ma non abbastanza intelligente da saper rispondere in modo ordinato.
Quindi vorrei sapere se avete da consigliarmi qualche libro o saggio riguardo il caso e come regna sulla nostra vita, e come noi non possiamo fare niente e non è vero che homo faber fortunae suae».
Cara Letizia, prima di tutto mi fa moltissimo piacere che ti e mi ponga tali interrogativi. Vuol dire che gli anni trascorsi insieme sono serviti nel senso che ho sempre auspicato, ben al di là dell’ampliamento del bagaglio culturale cui troppo spesso si riduce l’insegnamento della filosofia (ma la filosofia si può insegnare o, come voleva Kant, si può insegnare solo a filosofare?). E mi fa particolarmente piacere che tu mi scriva nei giorni in cui è iniziato un meritorio Festival filosofico che dovrebbe indurre tutti i partecipanti (numerosissimi, e questo è un dato confortante) a meditare, facendo del pensiero strumento di trasformazione esistenziale piuttosto che, come purtroppo spesso accade, vano deodorante per l’anima. Se il primo, vero filosofo (l’unico?) occidentale si è definito άτοπος (e tu hai il privilegio di non necessitare di una traduzione possedendo un quel codice di accesso universale al sapere che è il greco), come è possibile “collocare” in un luogo la filosofia, a-topica e u-topica per definizione?
Demandando ad altri strumenti i materiali che mi chiedi, mi permetto, a cinquantadue anni e ben oltre il fatidico “mezzo del cammin”, di darti la mia risposta, limitandomi per altro ad un solo autore che per altro non è un filosofo (sebbene risulti imprescindibile in molti ambiti di tale disciplina).
Ho amato Schopenhauer. È stato autore genetico della mia passione filosofica, pure rapsodica, se è vero che in realtà, laureatomi in Lettere Moderne, sono di fatto un autodidatta. Lo considero ancora un maestro al punto da citarlo ripetutamente nel mio primo tentativo romanzesco, Il potere del canto, cui mi farebbe piacere dessi un’occhiata. Il protagonista, che è un me possibile di tanti anni fa, si rifugia nelle pagine del Mondo per trovare sollievo alla sua angoscia. Un lungo percorso (per aspera, come amo dire) mi ha portato a siderale distanza dall’antico maestro della mia adolescenza. Un filosofo che egli detestava, insieme ai sodali idealisti, cioè Fichte, ha scritto che noi scegliamo la nostra filosofia in base a ciò che siamo e vogliamo essere: «La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un inerte suppellettile, che si possa prendere o lasciare a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che l’ha» (Prima introduzione alla dottrina della scienza, 1797). Ebbene, a mio avviso la filosofia di Schopenhauer è adatta ad uno spirito rassegnato, disperato, che ritiene il mondo dominato dal “principio di ragione sufficiente” (e dalla sua quadruplice radice, per citare la fondamentale operetta del pensatore tedesco). Insegno ai ragazzi, e credo di averlo fatto anche con la tua classe, vivacissima intellettualmente, che nel sistema schopenhaueriano alberga una clamorosa contraddizione: da una parte egli afferma che tutto sia necessitato, che, dunque, ad esempio, le nostre azioni, al di là delle apparenze, obbediscano allo stesso principio (diciamo, per semplificare, la causalità) che opera nella caduta di una tegola a causa del vento (per rimanere all’attualità delle scuole chiuse oggi); dall’altra, però, riempie pagine e pagine per dimostrare che esista una via di fuga dalla ferrea necessità della Volontà, senza mai spiegare dove sia questo residuo, anche minimo, di libertà che consentirebbe all’uomo, egli stesso transeunte espressione dell’eterna radice noumenica del reale, di emanciparsi, raggiungendo una sfera priva di sofferenza già in vita. Insomma, come intuì il suo più geniale “discepolo, Schopenhauer è dentro la storia del “nichilismo” occidentale, inteso come rinunzia al mondo.
Il mio invito, cara Letizia, è quello di inverare il tuo nomen, che misteriosamente è sempre un omen. Vivi “lietamente”, e quindi inevitabilmente liberamente, credendo in ogni istante della tua vita che ciascuno di noi è un essere capace di scelta, che al di là dei condizionamenti (biologici, sociali, culturali), abbiamo sempre un residuo (nella nostra più profonda interiorità) che ci consente di prendere una via piuttosto che un’altra. Lascia ai disillusi e ai rassegnati l’idea (per me spaventosa) che tutto è già scritto, che Ἀνάγκη regni sulle vicende umane. Siamo (anche tragicamente talvolta) liberi!
Il suggerimento di cui ti dicevo, con cui mi congedo, rinviando a un colloquio privato altre indicazioni di lettura. Nel capitolo XXV di quel meraviglioso libro che è Il Principe (e che tutti dovrebbero leggere integralmente se non altro per la lingua in cui è scritto), il Segretario fiorentino scrive: «Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà, o poco meno, a noi». Lasciamo perdere il contesto politico in cui lui elaborò questa visione del rapporto tra libertà e necessità (l’Italia percorsa dagli eserciti dei grandi Stati nazionali in costruzione). Prova a pensarla, questa massima, per la vita. Il caso, la fortuna o il destino (che per me alludono, nelle loro differenze, a quanto non dipende dall’uomo) sono arbitri per una metà delle nostre azioni. La biologia, la società, la cultura incidono nelle nostre vite. Ma per metà ciascuno di noi è faber fortunae suae. Scegli bene, dunque, Letizia, la tua filosofia per non scoprire, alla fine, di non aver mai vissuto.
Post scriptum
Cara Letizia, scriverti in pubblico serve anche a suggerire che il lavoro di un docente non si misura dalle ore che trascorre in classe o nei consigli, occupando, oggi grazie a questo medium che sto utilizzando, altri spazi dei giorni o, come in questo caso, degli anni. E, in una giornata di chiusura decretata dal Sindaco in cui dovremo sentire ancora che lavoriamo «sei mesi all'anno» probabilmente potrà servire a qualcuno, di dura cervice, a comprendere che questo lavoro non ha mai fine, che quanto leggerò o scriverò oggi è lavoro, appunto, perché rifluirà nella mia attività quotidiana.
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