Quando Nicola mi ha chiesto di coordinare l’incontro di stasera ne sono stato, immediatamente, felice. Eppure, subito dopo, pensando a questo esatto momento mi sono accorto che qualcosa mancava, che stavo tralasciando un pezzo sconosciuto ma fondamentale, con quella brutta sensazione che ritroviamo quando, ormai a partenza avvenuta, avvertiamo di aver dimenticato qualcosa ma non riusciamo a metterla a fuoco.
Per dare un nome a questa urgenza, e comprenderla, ho fatto istintivamente l’unica cosa che potessi fare, e cioè andare a ritroso e riavvolgere il nastro fino a quel 2006 che mi permise di conoscere “il professore Nicola Sguera”. Lui non poteva ancora saperlo ma entrando in classe stava trovando, tra i tanti, uno studente in crisi al suo ultimo anno liceale. Avevo litigato con formule, funzioni e nodi lunari e questo in fin dei conti non sarebbe stato un grosso problema… se non mi fossi trovato tra le pareti di un Liceo scientifico. Mi sentivo, quando andava male, un inetto che aveva giocato a perdere con il proprio futuro, incastrato involontariamente in un tempo già segnato da una crisi economica che non avrebbe ammesso sprechi di tempo e, quando invece andava bene, un traditore della patria che aveva rinnegato la propria vocazione scientifica.
Grazie a Nicola scoprii, in quell’ultimo banco e ultimo anno, l’esercizio del dubbio come sistematico strumento di crescita personale, i diversi linguaggi dell’arte alimentati dalla curiosità e non da un canone arido e precostituito, il cinema, la musica, i fumetti al servizio del mondo delle Lettere, Chaplin e Monicelli portati in aula come estensioni fertili da accompagnare ai libri di storia e filosofia. Ricordo ancora nitidamente la ”tragica” visione della corazzata Potemkin, troppo ardua per tanti di noi studenti cresciuti, invece, con “l’occhio della madre e il montaggio analogico” di quella Kotiomkin. Ricordo l’attraversamento, per mano, della “fornace” di Nietzsche e degli altri filosofi sulle macerie del secolo breve di Hobsbwam. Ricordo con lui la scoperta di maestri e maestre dello spirito che mi accompagnano tutt’oggi, e tanto altro ancora.
Capii che esiste un tempo che scavalca lo studio pomeridiano abituale e diventa approfondimento come esercizio di libero volo, e “gioco” in alcuni casi. Quando, verso la fine del mio anno scolastico, mi ritrovai circondato dai libri di Svevo, Pirandello, Dostoevskij e degli altri, contento di esserlo, capii che si era compiuto il mio orientamento scolastico, avevo maturato la mia scelta. E tutto questo senza PCTO, tra l’altro.
Dunque l’ho centrato, poi, quel mazzo di chiavi lasciato chissà dove, riconoscendo che, fin da allora, ho sempre incontrato Nicola e le sue parole in passaggi critici del mio percorso. E anche questa volta non ha fatto eccezione: reduce da un Concorso-tritacarne, divenuto tristemente celebre, ad attendermi c’erano le sue pagine. È stata una lettura febbrile, emotivamente profonda, non di rado arrabbiata eppure lenitiva per il mio animo ammaccato, grazie alla quale ho più volte ascoltato realmente l’eco di quel “Non ti disunire” che adesso ho fatto mio, come fosse quasi un mantra.
E sono, ancora, sinceramente dispiaciuto se in sede concorsuale ho fatto confusione tra participio assoluto e congiunto, e non ho saputo riconoscere che “Readium è un'estensione di Google Chrome che permette di leggere ebook in formato epub2 ed epub3”, ma la mia scuola è un’altra, ed è quella dove mi è stato insegnato che lo studio nasconde infinite possibilità creative, e conseguentemente, di crescita personale.
Nel pensiero insorgente di Nicola ho trovato, ancora una volta, parole libere che cercano di farsi strada attraverso la speranza, come la luce del sole verticale che prova a spaccare le feritoie. Ed ho realizzato che si tratta della stessa speranza che anima le altre due persone che sono con noi questa sera e li unisce. Il nostro vescovo Felice Accrocca che, ad esempio, con il suo impegno testardo a favore delle aree interne tiene accesa la fiaccola della fiducia in un territorio che troppo spesso sembra prendere le sembianze di Cartagine dopo le guerre puniche, sulle cui rovine la leggenda vuole che fu sparso del sale in modo che nulla potesse più crescere. E il professore Amerigo Ciervo, prezioso agitatore culturale del nostro tempo e della nostra terra, che mi ricorda ogni santo giorno l’intenzione ostinata di una scuola che scavalla sigle e acronimi impronunciabili, a vantaggio invece della cura delle persone e del confronto tra di esse.
Spes contra spem, dunque, per me un motto ritrovato, che le parole di Nicola, nel suo libro, incarnano così: «È doveroso reclamare la fine della follia, un ordine nuovo, una semplicità che è difficile a farsi. Ma tale difficoltà e lo smacco che realisticamente ci attende non devono esimerci dal tentare. La speranza rimane un dovere: politico, po-etico e spirituale».
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