È dal concetto di amicizia che devo partire, perché è in esso che s’innerva tutto ciò che dirò su Nicola Sguera. Il che non significa convergere su idee e analisi o fare scelte comuni. Anzi. Posso dire, per esempio, che sulle analisi politiche e sulle scelte conseguenti non ci siamo quasi mai trovati d’accordo. Nelle ultime elezioni, lui non ha votato per me.
Ovviamente ha fatto bene, perché le mie possibilità di elezione alla Camera dei deputati, dovendo vedermela con una serie di mostri sacri del nostro mondo politico, erano anche più remote della possibilità di essere scelto come astronauta per una spedizione su Marte. E, tuttavia, se avessi votato a Benevento, viceversa, avrei votato sicuramente per Sguera sindaco. Che poi lui non fosse stato scelto lo considerai un’ulteriore conferma della verità del mio assunto - che cioè gli eletti sono lo specchio più fedele della comunità che li esprime e che i partiti (o movimenti) spesso seguono vie molto misteriose nella selezione dei gruppi dirigenti.
Non perderò la speranza che per il prossimo futuro potremmo finalmente ritrovarci anche d’accordo sul coté politico. Ma, conoscendoci bene entrambi, non ci giurerei. E così togliamo subito dal tavolo un aspetto importante del problema: Nel libro Nicola non parla delle sue esperienze politiche. Se qualcuno volesse leggerlo in tal senso, ecco, diciamolo subito, non troverebbe nulla a riguardo. Il racconto si sarebbe conquistato il proscenio, spedendo tra le quinte la molla fondamentale che è alla base dello scritto: il bisogno di mettere “a nudo il proprio cuore”, un bisogno che nasce dalla sua coscienza etica di essere, con se stesso e con il lettore, onesto e trasparente, fino in fondo.
Dunque, affermo che Nicola è uno dei miei amici più cari. Lui ha voluto che scrivessi qualche pagina introduttiva. Avevo del resto, con lui, un debito. Avendogli chiesto di vergare una prefazione al mio. Nicola non si limitò a questo. Svolse quasi la funzione di editor.
Ho scritto che il suo è un libro importante e impegnativo. Con il consueto gioco di parole che è solo in apparenza una forma di divertissement Nicola le parole le ama e le coltiva, con impegno e rigore, anche perché, per uno dei suoi maestri di riferimento è il linguaggio la casa dell’Essere. I titoli esprimono veri e propri programmi di lavoro. L’agenda della ricerca, l’ordine dei temi su cui riflettere. Con un pensiero che non è mai quieto, sereno – Filosofare non è mai comodo, ricorda Bruno, e il pensatore nolano lo sperimentò ben direttamente sul suo corpo vivo. Il filosofare, sempre, nel suo farsi, deve fare i conti con il conflitto, con la lotta, con la durezza, con l’affanno, con l’angoscia, con il tragico. “Devo assumere che ci sia qualcosa in comune tra tragedia e filosofia, scrive Agnes Heller nell’opera con cui conclude la sua vita. La filosofia appare, infatti, quando la tragedia scompare. Come se la prima veicolasse un messaggio simile a quello della tragedia, quasi a prendere, in un certo senso, il suo posto. Così, mentre si tenta di cogliere e bloccare il pensiero nel suo arché, se ne minano radicalmente, utilizzando la dinamite nietzscheana, ma soprattutto la profondità hedeggeriana, i pilastri più profondi. Nicola ricostruisce il “suo” percorso in-sorgente, avvalendosi di pensatori a lui molto cari. In verità alcuni molto cari anche a me: penso a Ernst Bloch del principio-speranza (“Sono un filosofo che abita la propria costruzione filosofica” e che respinge una vita da cane (Hundeleben) che si sente solo passivamente gettata nel mondo, in una situazione incomprensibile”, alla Simone Weil – l’imperativo categorico in gonnella secondo la definizione del suo preside – della prima radice e, più di tutti, al Dietrich Bonhoeffer di Resistenza e resa, del pastore che ci invita ad essere davanti a Dio come se Dio non ci fosse, a rifiutare la visione del dio tappabuchi.
Nicola affranca Eraclito dal mantra liceale del “panta rei”. E, ovviamente, fa continuamente i conti con lo sciamano di Messkirck, Heidegger, il grande amore, sulla cui vita non esemplare e sulle cui opzioni naziste Nicola non tace, insistendo sempre sulla necessità che lectio e mores non dovrebbero mai scindersi. E tuttavia, nonostante le colpe egli mostra come non si possa fare a meno del pensiero di Heidegger per comprendere a fondo i problemi della “terra del tramonto”. Sarà necessario raccontare una storia diversa dell’Occidente per salvare l’Occidente”, affidandoci, appunto, all’antica sapienza, quella dei presocratici – si badi bene, non la filosofia, di cui si annuncia la fine – che deve tornare ad abitare l’oikos, su cui costruiamo da sempre versi anche stupefacenti, ma che continuiamo sconsideratamente a depredare. L’oikos non ci appartiene, essendo “la terra di Dio”, come nel titolo di un straordinaria lettera di Giovanni Franzoni, l’abate di san Paolo fuori le Mura combattuto dalla gerarchia, negli anni Settanta, e che noi leggemmo con grande intensità. Dopo cinquant’anni che gioia ritrovare alcuni elementi delle analisi di quel cattolico marginale – come Franzoni si definisce nella sua autobiografia – in alcuni passaggi dell’enciclica di papa Francesco. Occorre non perdere la speranza: “guardavo il bel Cielo azzurro e mi meravigliavo che il sole potesse risplendere con tanto fulgore quando l’anima mia era inondata dalla tristezza”. Scrive Teresa di Lisieux in una pagina della Storia di un’anima. Il libro è scandito da capitoli (logos, fusis-tecnè).
“Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, in cui la ricchezza del vocabolario fa sì che ogni parola affermi un contatto diretto e vario della realtà, l'ho amata perché quasi tutto quello che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”. Scrive Marguerite Yourcenar in Le memorie di Adriano.
I capitoli raccontano le vicende della sua “in-quieta” ricerca. Con cui fornisce, a se stesso e al lettore, il portolano per navigare nel gran mare dell’Essere, come i sassolini bianchi di Hansel e Gretel per affrontare la complessità della foresta. Ma in verità i capitoli tra di loro dialogano, rimandano, stabiliscono connessioni. Arrivati a questo punto, dovremmo porci la domanda fondamentale. A che serve un libro come questo? Che poi, tradotto è: Qual è il ruolo? Qual è la funzione di un intellettuale, oggi? In questi giorni tristi, dopo la pandemia, che ci ha ricordato la nostra finitezza? Insieme al cambiamento climatico, essa ci sta mostrando come non sia la politica a intervenire sulla natura ma che è la natura a decidere come debba essere la politica. Ci siamo illusi anche che si potessero creare le condizioni per trasformare la crisi in potenziale rinascita. Poi c’è la guerra. E la guerra è un’altra cosa. È un evento che ci riporta ai principi, all’articolo 11, che ci spinge a interrogarci sui valori fondanti, non solo su quelli civili o politici, ma proprio sulle grandi questioni etiche. Questo tempo c’impone l’obbligo di mettere in campo una nuova visione del mondo, una nuova prospettiva circa il futuro del nostro paese e dell’intero pianeta. Si avverte l’esigenza di un cambiamento radicale di paradigma. Ed il ruolo di un intellettuale è proprio quello di uscire dalle secche del pensiero unico, dall’informazione univoca, dalla linea binaria dei social. Dalle rappresentazioni dei cosiddetti talk, dove si ritrovano sempre le medesime compagnie di giro che, deposto ormai, nell’armadio della loro camera, lo scatolone del “piccolo epidemiologo”, lo hanno sostituito con quello del “piccolo Machiavelli”. Spuntano analisti e politologi e storici improvvisati come funghi. E quando Francesco ha trovato che sia scandaloso – e io, nella mia piccolità, come diceva mia nonna, concordo con lui – spendere tanti soldi in armi, senza pensare ai primi bisogni concrete delle persone, anche Francesco è stato oscurato. Le domande sgorgano, come attraverso una polla, e tutte ci riguardano. Ne citerei solo una che e riguarda il nostro lavoro, quella relativa al senso perduto di una scuola che ha smarrito, dietro le sirene dell’economicismo neoliberista, la sua funzione primaria (una società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima scrive Nicola: Non insegnate ai bambini Non insegnate la vostra morale «è così stanca e malata / Potrebbe far male», canta Giorgio Gaber.
Nicola è convinto che la poesia sia lo spazio privilegiato per costruire l’alternativa migliore alla mera logica dell’utile. Ma io che poeta non sono, preferisco parlare in prosa. E qui, davanti a voi, sento il bisogno di denunciare la terribile condizione in cui si trova la scuola italiana, tutta imbracata in schematismi burocratici e, prima di tutto, lontanissima dal secondo comma dell’articolo 3 che è la declinazione dell’Utopia - nel senso più alto del termine - dei nostri padri e delle nostre madri costituenti. Saprete che in questi giorni si stanno svolgendo i famigerati concorsi a cattedra. Che illusione pensare che chi dovrà contribuire all’educazione di giovani uomini e di giovani donne possa essere scelto da una macchina muta, crudele e spietata, come se si trattasse di conseguire una patente di guida; che illusione giudicare non in grado di entrare a scuola chi già ci lavora da molto tempo contribuendo a tenere in piedi una delle poche istituzioni in grado mantenere unito il paese; che illusione pensare alla falsa narrazione della meritocrazia che serve alla società per giustificare le proprie disuguaglianze. Ogni comunità ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze, scrive Piketty in Capitale e ideologia. Così le seducenti narrazioni dei cantori indefessi delle scelte politico-economiche degli ultimi decenni non riescono più a coprire l’impoverimento generalizzato. Non hanno perso i vecchi e hanno guadagnato i giovani. Hanno perso tutti. Deserto, macerie e arretramento sul campo dei diritti, sociali e civili. A utilizzare la distinzione pasoliniana: uno “sviluppo” pari a zero e un “progresso” diventato un oggettivo regresso. La scuola ha cessato da molto tempo di superare le disuguaglianze, contribuendo, viceversa, ad accentuarle. Siamo stati muti testimoni di azioni malvagie. Le esperienze della vita ci hanno resi sempre più diffidenti e indifferenti. Sovente siamo stati in debito di parole di verità e di libertà. Negli anni Settanta portavamo gli operai a scuola, oggi portiamo giovanissimi studenti a morire di lavoro. Sarebbe il caso di chiedere scusa per aver creduto e diffuso a piene mani questa cosiddetta scuola delle competenze in cui si passa la vita ad acquisire crediti e a saldare debiti, come dei qualsiasi clienti di una banca, a costruire fantasmagorie ed effetti speciali, che spesso non nascondono che il vuoto, facendoci strada tra acronimi orrendi ed espressioni inglesi per essere a la page e, infine, quando è il tempo, a sistemare i banchetti degli open day, per magnificare la merce e acquisire così i pochi clienti rimasti. La scuola deve ritornare ad essere uno dei pilastri per un mondo pluralistico e democratico. Il libro di Nicola ci invita così a “restare fedeli al nocciolo più autentico del nostro approccio alla realtà”, ben consci del fatto che, quando abbiamo costruito un pensiero che sembra elevarsi come un blocco compatto, sappiamo già che ci stiamo muovendo in un altri mari e in altri boschi. Chiudo con una citazione di Isaia.
“Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?”
“La sentinella risponde:
«Viene la mattina, e viene anche la notte.
Se volete interrogare, interrogate pure;
tornate un'altra volta».
Con la sua ricerca, Nicola è una sorta di sentinella. L’intellettuale svolge il compito della sentinella che deve avvistare carri, cavalli, cavalieri. È la sentinella che vede la caduta di Babilonia. Un compito non semplice. Occorre restare svegli, desti. Continuare ad interrogarsi e ad interrogare. Sono certo che lui continuerà a farlo. Con dignità e intelligenza, Per se stesso e per noi.
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