giovedì 21 aprile 2022

Pensiero in sorgente IV: alcuni chiarimenti a partire dalle parole (profonde) di Teresa Simeone

 

Cara Teresa, le parole che hai voluto dedicare al mio ultimo libro portano prima di tutto il segno di una oramai antica amicizia. Ci conoscemmo, credo, al pranzo di fine anno di una classe di Colle Sannita dove tu eri arrivata e che io avevo lasciato. Ci siamo, da allora in poi, incrociati in varie iniziative (ricordo in particolare la Notte Bianca della scuola pubblica sannita che organizzammo al Convitto Nazionale giusto dieci anni fa) e, finalmente, siamo divenuti colleghi. Ci legano amicizia e stima che rendono possibile, in maniera atipica, uno “scontro” di idee per me assai proficuo (e mi auguro anche per te!). E di questo ti ringrazio: come ho avuto modo di dire nella presentazione del 4 aprile, chi scrive ha bisogno di lettori critici. E tu, che per altro leggesti per prima già due anni fa il manoscritto, lo sei in maniera profonda. Per questo sento il dovere di rispondere ad alcune questioni che hai sollevato.

1. In cauda venenum, dicevano gli antichi. Invece, tu lo hai messo in capite, quando scrivi dell’«ultima fatica letteraria»! Non accetti, ed è comprensibile dal tuo punto di vista, che la mia possa essere un’opera di “pensiero”. Convinta che io sia soprattutto un poeta e che tra poesia e pensiero (volutamente non scrivo filosofia perché ritengo che essa sia specie rispetto al genere) non ci sia alcune correlazione, così come tra cuore e ragione.  «La filosofia è razionalità». Un’affermazione assai impegnativa! Però, ti dico, se questo è vero, perché insegniamo ai nostri allievi il “pensiero” di autori come Kierkegaard o Nietzsche (faccio due esempi che mi sono particolarmente cari) che davvero hanno ben poca razionalità nei loro non-sistemi? Non ti pare che questa definizione “illuministico-idealistica” sia figlia di una ricostruzione tendenziosa (di parte, come lo sono tutte) della storia del pensiero? La distinzione pensiero-filosofia l’ho appresa da quel “pensatore” (che tu espungeresti da una storia “della filosofia”?) su cui abbiamo duellato spesso in passato, cioè Martin Heidegger. Egli scrive in Fine della filosofia e il compito del pensiero (conferenza del 1964, raccolta in Tempo ed Essere): «La fine della filosofia si mostra come il trionfo dell’organizzazione pianificabile del mondo su basi tecnico-scientifiche e dell’ordinamento sociale adeguato a questo mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione del mondo fondata sul pensiero dell’occidente europeo. 

Ma allora la fine della filosofia nel senso del diramarsi nelle scienze è anche già la compiuta realizzazione di tutte le possibilità, in cui il pensiero che si è realizzato come filosofia è stato posto? O c’è per il pensiero oltre l’ultima possibilità così definita la risoluzione della filosofia nelle scienze tecnicizzate una prima possibilità, da cui il pensiero filosofico dovette certamente partire, ma che proprio in quanto filosofia non fu in grado di esperire ed intraprendere?»

Dunque, c’è pensiero oltre la filosofia! E non è nostalgia del mito ma di quella prima possibilità del “pensiero filosofico” che la filosofia (da Platone in poi) non è stata in grado di esperire, facendosi prima metafisica, poi tecnoscienza.

2. Parli di «visione naturocentrica». Su questo mi permetti un chiarimento importante. Non ho mai pensato che l’uomo debba essere cancellato dal pianeta! E non so quali mie parole possano averti indotto a pensarlo. La metafora del tumore mi è suggerita da Latouche, il quale scrive spesso che l’unica cosa che cresce in maniera indefinita in natura è, appunto, il tumore. Tutto il resto, raggiunto un limite, si ferma. Come dovrebbe fare e non riesce a fare l’uomo, mettendo a repentaglio la sopravvivenza del tutto. Malgrado la fascinazione che alcuni panteismi e la loro incarnazione contemporanea (l’ecologia “profonda”), non ho una visione “orizzontale” dell’universo. L’uomo, straordinario mistero, non è un “animale” come gli altri. Egli è capace di scelta, è libero, ha “responsabilità”. E uno dei compiti di un “pensiero poetante”, riconciliato con la Natura, è proprio un’assunzione di responsabilità, lontana sia dal “terrore sacro” (che essa infondeva negli uomini premoderni) sia dal prometeismo distruttivo dell’uomo moderno.

3. Quando ho letto le tue parole su poesia e filosofia mi è parso di sentire Croce, come se non ci fosse stato tutto il Novecento (ma anche il tardo Ottocento)! La filosofia, scrivi, è «rigore logico». Perché insegniamo ai ragazzi il contenuto dello Zarathustra di Nietzsche? La poesia, scrivi, è «una sensibilità». Io, invece, in Char o Celan, in Luzi o Bonnefoy trovo uno sguardo sul mondo che trascende l’individuo ed è capace di cogliere ciò che sfugge al pensiero “calcolante”, che lascia “accadere la verità”.

4. Cara Teresa, non sono contro il progresso! Lo sai, lo vedi nel nostro lavoro quotidiano a scuola. Al contrario. Nessuna nostalgia per mondi rurali e arcadie. Non sono una «forza del passato», malgrado il pensiero tradizionale mi sia servito come strumento di comprensione del mio tempo. Vorrei sentirmi parte di un’avanguardia che prefigura un rapporto armonico con la creazione, in cui la tecnica non sia la dominatrice dell’uomo, ma realmente al servizio non dell’uomo ma della creazione stessa e di tutti gli esseri che la attraversano.

5. «Non è un mistero, d’altronde, che a Nicola piaccia provocare. Lo fa continuamente e sapientemente. Usa espressioni forti, acuminate, a volte dando l’impressione che sia innamorato del suono delle belle parole che riesce a costruire/decostruire senza preoccuparsi di come possa essere interpretato». Non amo lo “scandalo” di per sé. Anche in questo mi conosci nella quotidianità. Sono “agonistico”. Ancor di più nel tempo eracliteo che anche personalmente credo di vivere in questa fase della vita. 

6. «Le analisi spietate di Heidegger sulla presunzione dell’ente, l’invito a immergersi suggestivamente nella natura di Thoreau, l’appello alla lentezza e alla decrescita di Latouche sono state importanti nel mettere in guardia dalle distorsioni ma non sarebbe il caso di iniziare a proporre soluzioni più concrete e meno utopistiche?» Certo! E tu sai bene che ho deciso, per diversi anni della mia vita di confrontarmi con problemi assai pratici da consigliere comunale (dove collocare, ad esempio, il depuratore cittadino), ma sempre nutrito da un’utopia “concreta”. Nessuna pragmaticità diversa da quella distruttiva che continuiamo ad esperire si dà senza un “anders denken” (un pensiero “straniero”, altro). 

7. Su Heidegger ci siamo confrontati già in passato. Aggiungo semplicemente che la discussione animatasi con la pubblicazione dei Quaderni neri (illeggibili anche per me) mi pare funzionale alla liquidazione tout court di un pensiero che, invece, ha ancora una straordinaria carica “insorgente”.

Per il resto, non posso che ringraziarti delle parole profonde che scrivi, soprattutto sull’ultima parte del libro, quella con cui sicuramente ti sei trovata più a tuo agio, più “letteraria”, per usare una categoria a te cara e che io considero, invece, inutilizzabile. 

Non amo le partizioni disciplinari. Pensiero è vita, vita è pensiero, che nutre il nostro agire come esseri in relazione nel mondo con altri uomini e altri esseri viventi, che ci interpellano con i loro volti. Sono un homo, sapiens e demens, come mi ha insegnato Morin, fatto di cuore e ragione inestricabilmente legati. Non mi appartiene il sogno di una razionalità algida che riesce a guidare le azioni dell'uomo. E credo che troppe volte il sogno della ragione abbia generato mostri. Il sogno, bada, non il suo uso corretto, consapevole del limite, che è cosa doverosa e essa sì degna di uomo che riconosce, in generale, la sua finitudine e la sua creaturalità. Quando, dunque, penso e agisco lo faccio nella totalità di ciò che sono: in relazione (stabilendo connessioni fra cuore e ragione, fra «il calcedonio e l’inverno pungente»), in sorgente, insorgente.


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