Il mio intervento è divisivo e immagino urticante per molti (all'interno dei seminari ANPI) perché volutamente politico e in un crinale della storia in cui abbiamo sperimentato quanto illusoria fosse la speranza (chiamiamola così) che essa fosse di per sé dotata di una razionalità capace di sintesi, quasi automaticamente, che il progresso lineare potesse garantire a tutti benessere e libertà. Che, insomma, fosse finito il conflitto, che polemos fosse il motore non della storia ma della preistoria che oramai era alle spalle. Il 2001 ha sepolto sotto le macerie delle Torri questa speranza, questa fola vana, prodotto di un errore teorico e pratico inescusabile, da cui pochi di noi sono esenti. La “grande recessione” del 2008 ha mostrato come il capitalismo fosse tutt’altro che retto da una miracolosa mano invisibile, la pandemia ha polarizzato conflitti e mostrato le crepe di una società fondata sul profitto privato, incapace di farsi pubblico benessere, la guerra ai confini dell’Europa ha dato il colpo di grazia all’illusione di una pacificazione globale, senza guerra (se non marginali e invisibili), dove tutti si sarebbero arricchiti. Insomma, non che la storia si fosse fermata: è che noi abbiamo voluto illuderci che così fosse e abbiamo plasmato strumenti teorici, soggetti politici e azioni coerenti con questa illusione. È suonata la sveglia. Cerchiamo di attrezzarci con nuovi strumenti all’altezza della sfida.
La mia è una lettura né dialettica né pacificatrice. Al limite, tragica. Fortini è uno sconfitto, rimosso. Non ci lascia alcuna eredità. O, meglio, se essa sopravvive, lo fa in maniera catacombale, presso una cerchia ristretta di adepti, senza alcuna incidenza sulla società e sulla società letteraria.
Per me è stata occasione di tornare “sul luogo del delitto” trent’anni dopo circa (nel 1990 iniziai a scrivere la tesi sull’opera poetica di Fortini, “impostami” dalla mia meravigliosa docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Biancamaria Frabotta, che avrei discusso nel dicembre 1991, e il correlatore era un vecchio antagonista di Fortini, Alberto Asor Rosa, mio professore di italiano).
E questo ritorno alle origini avviene dentro un percorso di recupero “adulto” di un bagaglio giovanile dettato dalle urgenze politiche del presente e del futuro, dal disastro che attraversiamo, nel trionfo apparentemente senza avversario di un neoliberismo quanto mai rapace e totalmente pervasivo nelle esistenze materiali e nelle coscienze. Personalmente dopo l’illusione e la disillusione “populista”, se volete, per utilizzare una categoria analizzata proprio qui due anni fa, di cui pure è necessario ereditare ampie componenti. Non per ritornare ad una categoria oramai per me inutilizzabile, quella di “sinistra”, nel suo continuo slittamento di significato, ma tornare a parole, cariche di contraddizioni, “tragiche”, ma esse sì portatrici di un significato, certo non univoco ma inquadrabile: per esempio, socialismo o, meglio, comunismo.
Per altro, mi rendo conto, appena uscito il mio secondo libro saggistico, che si è aperta una nuova fase di riflessione (me ne accorgo anche dalle mie reazioni anche rispetto alla guerra ucraina) che segna un nuovo transito tutto da esplorare. E credo che il recupero dell’opera di Fortini per me, “maestro” del tutto assente nei due libri che ho scritto, oserei dire “rimosso”, significhi tanto. Probabilmente, giunto anche ad una tappa di maturazione biografica, familiare, esistenziale, l’approdo ad un realismo che dismette ogni tentazione angelica, irenica, che c’è sempre stata nel fondo del mio animo, del mio carattere. È come se, mediata dalla riflessione su Eraclito, dalla breve ma intesa esperienza politica diretta, fosse finito il tempo di sognare, di auspicare. Dell’anelito che salva l’anima. Che sia venuto il tempo di accettare “il movimento reale” senza però cadere nel giustificazionismo dell’esistente, mettendo l’accento, dunque, non tanto sul “reale” ma sul “movimento”. Ma anche senza cedere alla (fortissima, credetemi) tentazione di credere che tale movimento prescinda dall’azione dei soggetti storici.
Sicuramente mi allontana da Fortini: l’incapacità di amare, di cui era perfettamente consapevole: «Ho saputo soltanto una parte, / ho inteso soltanto la vita che m’era nemica, / e non l’amore, che esiste».
Turbamento mi suscita il rapporto con la figlia adottiva Livia, convinta sionista, su cui è difficilissimo trovare materiale critico.
Quella di Fortini è la storia di una “rimozione”. Il PCI funzionava da “ortodossia” che rendeva possibile, secondo una celebre affermazione di Bloch”, le feconde “eresie” (tra cui quella fortiniana). Venuta giù la Chiesa, anche le eresie si sono dissolte, lasciando spazio ad una indistinta melassa liberal-riformista, rapidamente declinata in individualismo dei diritti, capitalismo ben temperato, gestione dell’esistente.
Questo è un invito, un “tolle, lege” articolato in quattro quadri: i nodi biografici, il Fortini poeta, il Fortini saggista, Fortini oggi.
Ho letto due testi a me cari: La gronda in versi e Il comunismo che, per ironia della sorte, venne rifiutato da «L’Unità» e pubblicato da «Cuore».
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