lunedì 13 aprile 2020

Teresa Simeone: Sempre con Prometeo. Risposta a Nicola Sguera [φιλοσοφία]

Martin Heidegger, Nicola Sguera e Ivan Illich: incontro impossibile su un mondo partorito dalla fantasia di Moebius

L’appassionata critica di Nicola mi costringe a una replica, da lui intelligentemente preparata, d’altronde, col generoso endorsement di qualche giorno fa. 
I punti toccati sono tanti e impossibile da esaurire, per cui cercherò di rispondere a quelli che ritengo più importanti. 

1. Il primo riguarda una mia sottintesa “codardia” nel non citare esplicitamente Heidegger. Non l’ho fatto perché non mi rivolgevo soltanto a lui ma a una categoria di pensatori che negano la modernità e la riducono a puro tempo del dominio, riducendo ogni intervento umano a tentativo di sottomissione e di violenza prevaricatrice e dunque sminuendo la portata liberatrice di un sapere che cerchi di emancipare l’essere umano dalla potenza, dove incontrollabile, della natura. Non ho fatto citazioni perché stavo esponendo una mia personale visione del tema; non sempre le citazioni sono segno di cultura: a volte lo sono di erudizione. Il mio pensiero, per quanto discutibilissimo nelle sue articolazioni e conclusioni, è il mio e non intendo trovare l’appoggio in continui e pedanti riferimenti esterni, per quanto autorevoli, a meno che non citi posizioni di altri e dunque debba documentarle. Come farò, ad esempio, anche nel corso di questa risposta laddove l’ho ritenuto necessario. 

2. Mi dispiace deluderlo, ma l’articolo non è stato affatto occasionato dalle sue lezioni su FB: lo avevo pronto da un po’; tra l’altro Nicola conosce bene la mia posizione che ho sempre pubblicamente espresso, de visu e attraverso miei scritti, come nel libro da lui gentilmente ricordato. Corrisponde a verità, invece, il riferimento alla Foresta Nera che ho inserito, nel rivederlo, poco prima di inviarlo in redazione, dovendo cercare un’immagine esemplificativa per meglio veicolare il mio pensiero. 

3. Non sono io a dare giudizi definitivi, ci mancherebbe altro: la damnatio memoriae cui allude è della storia e di pensatori come Anders, Jonas, Arendt, Löwith, Lévinas, Jaspers, Adorno, alcuni dei quali avevano intuito che la filosofia di Heidegger è la negazione di ogni forma di autonomia morale. Il “ Mago di Meßkirch”, come lo indicavano i suoi studenti, il “ nazista privo di rimorsi”, secondo Habermas, uno che avvolge “ le proprie parole come arance nella cartavelina” secondo Adorno, continua a essere per me un pensatore, algido e privo di ogni calore empatico, certo, comunque extra-ordinario, ma pessimo uomo. Al posto di Nicola mi chiederei come filosofi di quel calibro lo abbiano, a un certo punto della loro vita, del tutto ripudiato. Forse si sorprenderà ma anch’io, in gioventù, sono stata affascinata dal respiro di Heidegger, salvo poi accantonarlo, quando ho capito dove conduceva la svolta degli anni ’30, proprio quella svolta che invece è cara a lui e a tanti poeti del Novecento.

4. Mi dispiace ma giudico frettoloso e sospetto il modo in cui liquida i Quaderni Neri che, invece, sono il vero punto di rottura con la narrazione “elevata” che è girata per molto tempo sulla doverosa (per i suoi fedeli) separazione tra pensiero e biografia, come compreso da una sua appassionata studiosa, Donatella Di Cesare, che è arrivata a dimettersi dalla carica di vicepresidente della Martin Heidegger-Gesellschaft dopo aver capito come il suo antisemitismo fosse non solo razziale quanto addirittura metafisico e dunque ancor più pericoloso e profondo. «Il pensiero più elevato – conclude - si è prestato all’orrore più abissale». E, più che considerare Heidegger un nazista, lo ritiene un sofista. Un ammaliatore, evidentemente, cui preme, non la ricerca della verità, bensì la dimostrazione di apparire, appunto, un gigante del pensiero. 

5. Non costruisco un obiettivo polemico di comodo, anzi, mi pare che lo stia facendo Nicola, con il suo intervento: io mi sono limitata ad esporre una tesi che, ovviamente, chiama in causa la modernità di cui Heidegger è feroce critico. Nicola, invece, si ostina a pensare a me come a una scientista acritica e incapace di considerare i limiti della ragione e della scienza. Gli ho dato prova più volte del contrario, soprattutto perché la concezione di una scienza come conoscenza assoluta è un ricordo dell’Ottocento positivista, abbondantemente superato dal novecentesco concetto di scienza, come procedimento rigoroso ma limitato da un lavoro lento e continuo di rettifica e adeguamento e sottoposto costantemente al vaglio di una ragione non certo ritenuta infinita. D’altronde Popper, col suo principio di falsificazione, non è certo passato invano. Nicola mi fa torto, ma capisco che debba vedermi in questo modo per poter criticare la mia impenitente fiducia nella scienza (quella buona, non la mala scienza), verso cui ha da sempre un chiarissimo intento demolitore. 

6. Quando mi riferisco al ritorno a un mondo preindustriale capisco di provocare, ma cos’è un mondo in cui la rivoluzione scientifica, la modernità, il pensiero razionale sono presentati come negatori dell’essenza più vera dell’essere, non del solo esser-ci, si badi bene?

7. Nicola mi accusa di storicismo, anzi di giustificazionismo, ma non si rende conto di ridurre a una sola categoria quella che è una realtà complessa: cosa significa il suo attacco? Che tutti quelli che credono nell’essere umano sono giustificazionisti? Seguendo il suo modus argomentativo, allora, coloro che non vi credono devono essere considerati passatisti, conservatori e reazionari, esattamente la critica da cui sta cercando di liberare Heidegger. Della serie: uso lo stesso meccanismo riduzionistico che contesto per confutare categorie riduzionistiche che voglio respingere. È un buon allievo di Heidegger, che usa il filosofare per decretare la fine della filosofia. Piuttosto che criticare solo quello che a lui non piace, perché Nicola non risponde alle domande che pongo nell’articolo? Sarei curiosa, veramente, di sapere come sia possibile respingere tutto ciò che è modernità e progresso senza utilizzarne le conquiste. Non rimanendo nell’astrazione, per favore, ma dando risposte concrete, con esempi reali.

8. Quando riferisco la critica di antiumanismo di Heidegger (durante i nostri incontri, non nell’articolo, in cui non ne faccio menzione) è con riferimento all’umanismo storico e filosofico: sarebbe veramente sciocco sostenere che il filosofo di Meßkirch voglia la fine dell’uomo. Quando mai l’ho detto o scritto? In ogni caso Heidegger, dopo la svolta, non considera l’ente colui che può
interrogare l’Essere, che diventa centrale mentre l’esser-ci arretra. L’esser-ci, per lui, deve mettersi “in ascolto” dell’Essere, lasciar fare, abbandonarsi alla sua maestà, rinunciare, di fatto, a pensare. Dopo aver “ragionato” secondo le proprie premesse e modalità, il nostro filosofo ne La questione della tecnica, confessa: «Così domandando, noi attestiamo lo stato di difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che costituisce l’essere della tecnica, e con tutta la nostra estetica non custodiamo più ciò che costituisce l’essere dell’arte. Tuttavia, quanto più interrogativamente consideriamo l’essenza della tecnica, tanto più misteriosa diventa l’essenza dell’arte»; per finire con una frase a effetto: «Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano ad illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà (Frӧmmigkeit) del pensiero» (Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, p. 27). Il che sta a indicare che il pensare chiede (a chi?) pietosamente, aspettando che qualcuno (Chi?) risponda. No, il domandare non è la pietà del pensiero: è la sua forza.

9. Per quanto riguarda Illich, Nicola dimentica che ne abbiamo discusso, qualche tempo fa, quando ne citò, in un articolo del 28 novembre 2016, su Il Vaglio.it, scritto in riposta a un mio pezzo, l’opera Nemesi medica. Scriveva in quel pezzo: «il monopolio medico sulla cura della salute si è sviluppato 
senza freni usurpando la nostra libertà nei confronti del nostro corpo […] La società ha trasferito ai medici il diritto esclusivo di stabilire che cosa è malattia, chi è o può diventare malato e che cosa occorre fargli […] L’impegno sociale di fornire a tutti i cittadini una massa pressoché illimitata di prodotti del sistema medico rischia di distruggere le condizioni ambientali e culturali necessarie perché la gente viva una vita di costante guarigione autonoma». E, nello stesso articolo continuava, con riferimento alla mia difesa della scienza medica (è sempre stato un mio pallino, lo confesso!): «La contrapposizione non è , dunque, quella decisamente riduttiva di Teresa, ma fra chi crede che esiste un’unica medicina, depositaria della verità nel campo della salute, in nome della quale imporre a tutti i protocolli, e che ritiene che esistano una pluralità di “atti medici” volti alla salute dell’individuo che rimane il padrone della propria vita, non alienabile ad uno Stato o alla corporazione medica» . Così scriveva Nicola, in pieno amore pentastellato e avversione per la medicina, a cui, ovviamente, risposi che aveva ragione perché, se mi accusava di difendere la scienza medica, non sbagliava affatto. L’opportunità di un’azione preventiva che la medicina non solo deve proporre ma propone già, di fatto, non la esonera, nel momento in cui insorga
un’emergenza, però, dall’intervenire né sminuisce la necessità di affidarsi alla competenza di chi ha dedicato studio, energie e intelligenze alla medicina. Tralascio il ruolo che i vaccini (Nicola avverte sempre come una spina nel fianco le mie critiche ai No-vax) hanno svolto nel tempo per liberare l’umanità da malattie terribili come la peste, il vaiolo, la lebbra, la poliomielite, la tubercolosi perché stiamo toccando con mano la necessità di averne uno contro il covid-19. Tutti concordano che potremo uscire dall’emergenza solo quando la comunità scientifica lo troverà.

10. Per quanto riguarda il fatto che Descolarizzare la società mi farebbe rabbrividire non so a cosa si riferisca Nicola, dal momento che:
a) ho insegnato Pedagogia e Sociologia per molto tempo e lo proponevo come testo rivoluzionario dal punto di vista educativo già trenta anni fa;
b) non mi pare di accondiscendere acriticamente alle scelte di una scuola-azienda che non manco di criticare e di cui denuncio quotidianamente gli sciagurati effetti, non ultimi quelli legati a un marketing che costringe gli istituti a una competizione vergognosa nella corsa ad accaparrarsi iscritti. E lui lo sa benissimo.

11. Nicola rivendica, con orgoglio, la sua appartenenza ai romantici epimeteici contro gli illuministi prometeici: non ho nulla da aggiungere se non che, etimologicamente, Prometeo è “colui che riflette prima” , mentre Epimeteo è “colui che pensa dopo”. Come dire che l’ignoranza è grande cosa rispetto allo sforzo della conoscenza.

12. Nicola mi “accusa” di essere una neoilluminista. Credo che se la filosofia oggi abbia ancora un senso, è nell’indicare una strada eticamente e umanisticamente fondata: la caratteristica peculiare, non l’unica, beninteso, dell’uomo è la sua ragione critica, lo strumento veramente egualitario che ci possa difendere da intolleranza, pregiudizi e misticismo. L’illuminismo ha avuto un ruolo decisivo nel fornire all’occidente i mezzi per fissare i principi inderogabili di “dignità umana”, di “diritti”, di “autodeterminazione”, di “democrazia”, di “autonomia del procedere filosofico”, di “divulgazione del sapere”, di “laicità” dello Stato e del conoscere. Certo che sono fortemente debitrice a tale corrente di gran parte della mia formazione! E faccio del Sapere aude oraziano, ripreso da Kant, una delle poche convinzioni che ancora guidano la mia vita. Ridurre l’illuminismo a una corrente “razionalizzante”, ottusamente prometeica e superata nel suo lascito di principi importanti, benché ovviamente storicizzati, significa negarle la capacità demistificatrice nei confronti di false credenze e superstizioni e il ruolo emancipatore nella storia dell’umanità . È singolare che Nicola respinga tale corrente il cui prodotto storico si è espresso in una rivoluzione il cui armamentario ideologico e linguistico è ancora utilizzato da un movimento dal quale si è staccato istituzionalmente ma che non ha mai rinnegato.

Mi avvio alla necessaria conclusione anche se il discorso potrebbe continuare per altre lunghe pagine tanto stimolante è la discussione che Nicola, com’è suo intelligente costume, accende.
Il linguaggio di Heidegger, come rileva Guido Calogero, è arcaico e privo di contenuto “determinabile”. «Provate – sottolinea – a pensare l’essere e vedrete che equivale a pensare il nulla, cosa altrettanto impensabile». È legittima o no, allora, la domanda se tale nebulosità non voglia nascondere un’elitaria e aristocratica appartenenza al suo entourage da parte di quei pochi che “riuscirebbero” a comprenderne il significato? In un bell’articolo di qualche mese fa, Alfonso Berardinelli scriveva che Heidegger non si fa capire, «E chi non si fa capire, in filosofia ha successo, attrae, affascina. Essere chiari e dare spiegazioni è troppo “democratico”, giustificarsi non è signorile, usare una lingua comune non è “esclusivo”, non distingue, non eleva…».
D’altro canto, come sosteneva Miguel De Unamuno, «la puntualità è la cortesia del re; la chiarezza lo è dei filosofi». Evidentemente Heidegger non era cortese. Ciononostante Lettera sull’umanismo è lì, a parlarci e a dirci che, se è ovvio che il filosofo di Essere e tempo non vorrebbe la fine dell’uomo, certamente, non per questo non è contro la visione di un uomo capace di porsi come attore della propria esistenza. La sua posizione è arretrata e decentrata rispetto all’Essere. Quel conta, per lui, è l’Essere, non l’uomo.
La filosofia è sguardo d’insieme e visione delle implicazioni di una tesi proposta. “Dove ci porta un determinato ragionamento?” è non “una”, ma “la” domanda che dobbiamo sempre porci quando leggiamo un filosofo. È chiaro che se giudichiamo ciascuno secondo il suo modo di procedere non avrà mai torto perché è lui a condurre il gioco e a guidarci dove vuole. Nel caso di seduttori della parola come Heidegger, poi, finiamo per lasciarci incantare dalla magia di un linguaggio volutamente ammaliatore, dimenticando di pensare. Cosa che non dovremmo mai fare. È per questo che rifuggo da populismi e incantatori di anime. I pifferai magici che, con il pretesto di voler parlare alle emozioni, cercano di obnubilare la ragione, hanno fatto più danni all’umanità di qualsiasi calamità naturale.
Dovremmo evitare, perciò, di rimanere ai dettagli e guardare, soprattutto, alle implicazioni pratiche di determinate tesi: come può esser rivoluzionario un pensiero che invita ad abbandonarsi all’ascolto
dell’Essere? Che non si preoccupa in nessun modo di etica ma solo di ontologia? E, poiché è fondamentale la questione, come può essere umanistica una filosofia che invece di attualizzarsi in scelte che migliorino la vita di chi le fa, la rendano nei fatti ignobile? Come può non essere inverata da posizioni che aiutino
l’umanità e non ripudino ideologie negatrici del valore della vita umana? Invece di ricordare soltanto i tanti allievi che ha avuto Heidegger, perché Nicola non si chiede il motivo per cui questi allievi lo hanno ripudiato? Karl Lӧwith, che riporta come nel discorso di Friburgo giustificasse la scelta di Hitler parlando di un “destino che bisogna volere” , ricorda come Heidegger, ancora nel ’36, in un incontro a Roma, in cui non mancò di appuntarsi sul vestito la spilla del NSDAP, avesse affermato che la «concezione di storicità sviluppata nove anni prima in Essere e tempo era alla base del suo nazionalsocialismo». Löwith, dopo un accurato lavoro di analisi, conclude che non si tratta soltanto di vicende biografiche ma che «c’è una sostanziale omogeneità della filosofia di Heidegger con l’atmosfera e la mentalità nazionalsocialiste». È esattamente quello che sostiene Victor Farias quando, molti anni prima della pubblicazione dei Quaderni neri, affermava che il nazismo non è stato per Heidegger solo una scelta politica, ma un’opzione più profonda e che egli cercasse un fondamento filosofico per il nazionalsocialismo. D’altronde, già nel lontano 1987, quindi molti anni prima della pubblicazione dei Quaderni neri, denunciava non solo un nazismo mai ripudiato da Heidegger, ma lo accusava anche di aver collaborato con la Gestapo e di aver denunciato almeno due professori universitari. Allo stesso modo argomenta Emmanuel Faye, che parla di anima nazista nell’opera speculativa heideggeriana, e anche un illustre italiano, prima estimatore del filosofo di Meßkirch, Maurizio Ferraris, quando sostiene che «(...) quello che non si è visto in generale (e che ha provocato una semi-cecità circa le propensioni ideologiche di Heidegger) è che il pensiero heideggeriano nel suo insieme è iper-gerarchico, e che l'appello al nichilismo e alla volontà di potenza, l'insistenza sulla Decisione, l'abbandono della nozione tradizionale di "verità", costituiscono una adesione profonda e non opportunistica al Führerprinzip» (Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012, p. 15). Per non parlare di Jeanne Hersch, di Roberta De Monticelli e di tutta una schiera di critici di Heidegger che Nicola respinge come letteratura secondaria, stranissimo in lui che invita i suoi studenti ad approcciarsi alle questioni anche attraverso Wikipedia.
Capisco che aprire all’arte piuttosto che alla filosofia sia suggestivo e ammaliante, ma se soltanto la poesia può arrivare all’Essere, che le si svela, allora la filosofia non ha alcuna funzione nel cercare la verità. Noi docenti di filosofia staremmo indicando ai nostri studenti una falsa via e staremmo mentendo, iniziando da me e finendo a lui: per coerenza, Nicola dovrebbe smettere di insegnare filosofia e tornare alle sole radici letterarie della sua formazione. Io non riuscirei a insegnare qualcosa nel cui valore non credessi più. E la filosofia è, non dimentichiamolo, sforzo e indagine: anche se questa ricerca è inesauribile e determina un imprescindibile stato di frustrazione, deve, comunque, conservare la fiducia nella sua validità di fondo e nella possibilità per l’uomo di ricercare qualcosa che, pur sfuggendo, rimane l’obiettivo della ricerca. Per Heidegger ciò che conta è «l’estraniazione dell’esser-ci dall’Essere»: un vero amen per l’umanismo, con buona pace di contorsionismi interpretativi.
Inoltre, e concludo, le scelte si valutano anche in virtù dell’afflato morale che le connota: mettere sullo stesso piano accademici che hanno giustificato il nazismo, che ne sono stati persino ideologi, e quelli che lo hanno combattuto è profondamente ingiusto perché vuol dire arrivare ad annullare del tutto i legami tra pensiero e vita e, soprattutto, svuotare la filosofia di quella che è la sua matrice e natura, l’amore per la conoscenza, il discrimine tra ciò che è bene e ciò che non lo è, il tentativo di trovare dei principi che diano un senso vero alla nostra esistenza.
La biografia, misera anche a detta di Nicola, di Heidegger non è per nulla separata dalla sua visione filosofica che, nell’invitare all’ascolto dell’Essere, pone l’uomo in posizione “passiva” : l’uomo diventa libero so lo se appartiene all’ambito del destino, diventando un semplice “ascoltante”. Nel recuperarlo come subordinato ad esso e, nell’esaltare un arretramento che rischierebbe di contaminarlo, rivendica come necessaria la battaglia contro il progresso, la scienza, la modernità, culle dell’umanesimo storico e dell’umanismo filosofico. In questo senso Heidegger è un anti-umanista. Secondo quanto sostengono i suoi critici e quanto ci fa concludere l’argomentare filosofico.




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