domenica 5 aprile 2020
E. Troisi - Gesù e la Verità. Risposta a Nicola Sguera [Τέως]
Qualche giorno fa «Sonar» ha pubblicato una mia breve riflessione sullo stato degli studi dedicati al «Gesù storico».
Il prof. Emanuele Troisi ha voluto ribattere a quanto scritto, e io sono ben lieto di riportare le sue riflessioni sul mio blog.
Domani cercherò di rispondergli.
* * *
Il professore e filosofo Nicola Sguera ha recentemente pubblicato su «Sonar Magazine» un interessante articolo nel quale, a pochi giorni dalla Pasqua, ha voluto riproporre la grande questione della storicità di Gesù, considerando questo «un tempo quanto mai opportuno per interrogarsi su chi sia stato veramente colui che viene considerato il fondatore di questa nuova religione». La domanda intorno a cui ruota tutto il suo ragionamento è perché e quando il Cristianesimo sia diventato “fede in Gesù Cristo, figlio unigenito». Com’è noto , è stato lo stesso Gesù di Nazaret o Joshua Ha-Nozri, come forse preferirebbero chiamarlo i colti lettori di Corrado Augias, a proclamarsi “Cristo”, ma Sguera sgombra subito il campo da possibili fraintendimenti, affermando che «è necessario liberarsi dalle “lenti” cristiane » per capire chi sia stato Gesù nella sua verità storica. Così, dopo aver ricordato che fuori del mito Gesù era l’oscuro figlio di un carpentiere di Nazaret, un probabile discepolo del battezzatore Giovanni e un maestro che si mosse sostanzialmente nell’alveo dell’ebraismo , attribuisce il vero inizio del cristianesimo al “genio teologico” di Paolo di Tarso e al trionfo della sua teologia. Paolo infatti, «che non conobbe Gesù», ebbe la meglio su Pietro e su Giacomo nel durissimo scontro che ebbe con loro in merito alla questione della circoncisione (del cuore e non della carne).
Senza nulla togliere ai meriti e alle buone intenzioni del professore Sguera, anzi proprio in virtù di quelli e di queste, è giusto, credo, accogliere il suo articolo come un invito alla discussione e provare a muovere alcune obiezioni alle sue tesi.
Innanzitutto occorre precisare che la nascita di Gesù non ha nulla di oscuro. Se non fu per intervento dello Spirito Santo che Maria si ritrovò incinta di Gesù, perché questo ovviamente non può essere assunto come dato storico ma solo come verità di fede, non c’è nessun motivo di dubitare che il vero padre di Gesù sia Giuseppe. È legittimo che la ragione dubiti della verginità di Maria, non della sua onestà. Se di concepimento naturale si è trattato, è nell’ambito della “sacra” famiglia che questo è avvenuto.
In secondo luogo, non risulta da nessun documento che Gesù sia stato discepolo di Giovanni. Gesù era “cugino” di Giovanni e ricevette da lui il battesimo nelle acque del fiume Giordano. Questo dicono i Vangeli. Quale sarebbe, del resto, la dottrina di cui Gesù sarebbe debitore a Giovanni? Giovanni aveva ben chiara quale fosse la sua missione, preparare la via alla venuta del Messia, ed è quello che ha fatto, fino a prova contraria. Anche Gesù sapeva per quale motivo era venuto al mondo. Si fece battezzare da Giovanni per «portare a pienezza ogni giustizia», come leggiamo nel Vangelo di Matteo. «Gesù con quel gesto di umiltà vuole rappresentare la sua adesione al progetto divino di salvezza: facendosi battezzare in mezzo ai peccatori, Gesù si fa solidale con loro, rivela l’incarnazione, si fa prossimo all’umanità e al suo peccato, proprio com’era nel disegno celeste (G. Ravasi)».
In terzo luogo non ha alcun senso affermare che sia stato Paolo il vero iniziatore del cristianesimo, dal momento che è lo stesso “Apostolo delle genti ” a porre Cristo al centro della sua teologia e a definire se stesso nulla di più che un operaio di Dio:
«Nessuno – scrive infatti nella Prima lettera ai Corinzi – può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1 Cor 3,11). E qualche riga più avanti scrive ancora: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15, 3).
Gesù di Nazaret, dunque, è il solo, unico fondatore del cristianesimo e questa religione, la nostra, sia detto senza offesa per nessuno, si chiama così, “Cristianesimo”, e non “Gesuismo”, perché per i cristiani Gesù non è solo il figlio del carpentiere Giuseppe e della sua giovane (e vergine) sposa Maria, ma è soprattutto “Cristo”, «il Figlio del Dio vivente». E chi si pone alla sua sequela non può essere chiamato in altro modo se non cristiano.
Non è stato Paolo a fondare il cristianesimo, come non lo è stato nessuno degli altri apostoli. A cominciare da Giovanni, Pietro e Giacomo, per limitarci ai soli testimoni della “Trasfigurazione” sul Monte Tabor, quando Gesù, al cospetto di Mosè ed Elia, si rivestì di luce davanti agli occhi, resi pesanti dal sonno, dei tre apostoli che egli aveva voluto con sé. E Pietro, che nella sua semplicità di uomo nulla poteva capire di ciò che stava avvenendo, si offrì di «fare tre tende» (Lc 9, 33).
Non è la Chiesa ad essere cristiana in virtù degli apostoli, ma – come ha detto Giovanni Paolo II nel libro-intervista “Varcare le soglie della speranza ” (1994) – è la Chiesa ad essere «apostolica in virtù di Cristo »!
Gli apostoli sono stati i primi testimoni di Cristo, quelli che per primi «hanno piantato e irrigato il campo di Dio». Gesù Cristo li ha scelti e a loro ha affidato la missione di annunciare al mondo il suo Vangelo, la Buona novella. Apostoli, appunto. Ad ognuno di loro ha chiesto qualcosa di particolare, ha dato un compito preciso. A Paolo, quello di predicare il Vangelo tra i gentili, adottando le loro categorie e misurandosi a viso aperto con il loro pensiero (e con il loro scherno); a Giovanni di testimoniare, con i suoi scritti e con la sua vita, la verità più grande che avevo appreso, che «Dio è amore». È sua, infatti, la più importante frase di tutta la Bibbia (1Gv, 4, 8)! l’unica in virtù della quale – dice Sant’Agostino - l’umanità sarebbe salva se fosse l’unica frase della Bibbia a conservarsi ; a Pietro di guidare il popolo, come suo vicario. Non c’è stata alcuna lotta per il primato tra gli apostoli. Il primato Gesù lo aveva già conferito a Pietro («Tu sei Pietro …») a Tabgha, sul lago di Tiberiade, e nessuno osò sollevare dubbi. Discussioni sì, ce ne furono tante, com’era normale che fosse. Come tante ce ne sono state nella lunga storia della Chiesa. Ma non lotte, non divisioni, come purtroppo è accaduto dopo. Ogni discussione tra gli apostoli, anche quelle più accese, finivano sempre con una stretta di mano «in segno di comunione». Ed è Paolo stesso a dirlo nella Lettera ai Galati.
Ma non è tanto su queste questioni, pur importanti, che voglio soffermarmi, quanto sulla conclusione del discorso di Sguera. Nelle ultime righe del testo infatti, il filosofo afferma che «il confronto con il Gesù storico consente a chiunque, credente o no, di trovare (o ritrovare) un uomo unico , che intravide un Dio paterno e misericordioso… predicò una vita di altruismo vissuto… e credette ardentemente in un mondo più giusto». Ci sarebbe da scrivere un intero volume su queste parole e spero che qualcuno più autorevole e competente di me lo faccia. Intanto provo a scriverne qualcosa io, pur con mezzi e conoscenze limitate, rivolgendomi direttamente all’autore che, oltre ad essere un collega, è anche un amico.
Caro Nicola, non possiamo dire che Gesù sia stato solo un «uomo unico». Non lo possiamo dire non perché siamo cristiani, e lo siamo tutti in Occidente per cultura, a prescindere dalla fede, ma perché Gesù stesso, in più occasioni, ha detto di sé di non essere solo questo. Te ne voglio ricordare solo un paio.
A Filippo che gli chiede di mostrar loro il volto del Padre, Gesù risponde con tono di dolce rimprovero: «Come puoi dire: mostraci il Padre? Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre ». E poi prosegue dicendo: «Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie le sue opere» (Gv 14, 8-10). Non possiamo scindere il messaggio di Gesù, estrapolando kantianamente il nucleo morale, razionale, del suo insegnamento, dimenticando ciò che Lui ha detto di sé. E’ da qui che dobbiamo partire. Dalle sue parole e dalle sue opere.
Davanti a Pilato che gli chiede “che cos’è la verità”, Gesù resta in silenzio. Ma le parole che aveva pronunciato prima sono di quelle che cambiano la storia: «Il mio Regno non è di quaggiù. Per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla Verità». La domanda di Pilato è legittima, semplice, forse provocatoria. E’ la domanda di un uomo di media cultura, probabilmente un romano scettico, che nel governo di una regione difficile, la Giudea, si trova di fronte uno che, a dispetto degli stracci che indossa e della polvere ai piedi, dice cose strane e, forse, pericolose. Un ribelle e un bestemmiatore. Glielo presentano così i suoi nemici e lui, alla fine, lo condanna alla crocifissione per questi ragioni. Lui, Pilato, non conosceva altra verità che non fosse quella coincidente con il dominio di Roma.
Ma quella domanda ha attraversato i secoli. L’uomo ha continuato a porsela, ignorando, però, le parole che l’avevano provocata . Lui, Gesù, non dice di aver intravisto, predicato o creduto in una verità, come tu sostieni. E non è neanche uno che abbia ricevuto un’illuminazione, come Buddha (l’Illuminato). Lui di sé ha detto «sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla Verità». Non è un rompicapo per gli storici, come può esserlo stato Socrate. No, Gesù Cristo è molto di più. E’ un mistero che inquieta, interroga, interpella l’uomo in quanto tale ed è con questo Gesù che dobbiamo confrontarci, se davvero pensiamo che «il suo messaggio, vissuto all’altezza del proprio tempo, sia quanto mai attuale». Da questo confronto non possiamo escludere, allora, le questioni di fede, la miracolosa nascita, i miracoli, la risurrezione soprattutto, che «per lo storico non possono neanche porsi».
Quello della storicità di Gesù è un falso problema, un gioco intellettuale fine a se stesso, se in assenza di documenti storici che ci giustifichino, separiamo Gesù da se stesso! Chi si incammina su questa strada lo fa non per stabilire una verità, ma solo per sfuggire agli interrogativi drammatici che Gesù pone e che solo «nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo » possono trovare una risposta che soddisfi la ragione (San Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 1998). Se vogliamo confrontarci in spirito di verità con la figura del nazareno, dobbiamo tenere insieme fede e storia, guardando all’umanità di Gesù senza escludere la divinità di Cristo. Non ci si può porre davanti a Gesù, come ci si pone davanti a Socrate, a Siddharta Gotama, a Confucio o, che so io, a Gandhi. No, di questi possiamo ben dire che sono stati “uomini unici”, eccezionali maestri dell’umanità. Ma Gesù, per quanto possa sembrare simile a questi per tanti aspetti, non è uno di loro. Non è un filosofo. Non è un sapiente. Non è uno che ha cercato la verità.
Certo, l’accostamento che tu fai tra Gesù e Socrate non è nuovo. Tanti, possiamo citare Kierkegaard, lo hanno fatto. Anche Socrate fu, come Gesù, condannato ingiustamente. Anche Socrate, come Gesù, non ha lasciato nulla di scritto. Anche Socrate, come Gesù, lo conosciamo attraverso ciò che di lui ne hanno scritto quelli che lo avevano conosciuto. E Socrate ci appare ogni volta diverso, a seconda delle fonti che consultiamo. Ma le somiglianze finiscono qui, amico mio, perché ciò che Socrate ci ha insegnato non ha nulla a che vedere con quello che ci ha detto Gesù.
Per la verità, anche rispetto a Socrate c’è stato chi ha posto la questione della storicità, non tanto della persona, quanto del pensiero. Tutti, quando leggiamo soprattutto i dialoghi giovanili di Platone, ci poniamo la domanda se il filosofo ateniese abbia effettivamente detto ciò che gli si fa dire. Sembra che lo stesso Socrate, con la sua consueta ironia, abbia sollevato il problema. Eppure non ci discostiamo da quelle fonti e ci confrontiamo con Socrate, dando credito a quelle autorevoli testimonianze. Attraverso queste, da venticinque secoli, ci misuriamo con il suo pensiero e, soprattutto, con il suo metodo di ricerca della verità. La cosa più preziosa che ci ha lasciato. Ma ecco il punto! Socrate, diversamente da Cristo, è stato uno che ha dovuto e voluto cercare la verità e lo ha fatto umilmente attraverso il dialogo con gli altri, non da solo. Cristo, invece, si è presentato all’umanità come la Verità incarnata. Possiamo crederci o no, ma è questo quello che lui ha detto.
Certo, i Vangeli, come le Lettere degli apostoli, non sono testi storici. Sono testimonianze di chi ha visto e si è sentito, o è stato, investito della missione (l ’apostolato) di riferire a quanti non hanno visto, affinché credessero e testimoniassero a loro volta: «ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ovvero il Verbo della vita…noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.» (1 Gv, 1-3).
Nessuna fonte storica antica, eccetto il famoso e controverso Testimonium Flavianum, parla di Gesù di Nazaret. Il documento, com’è noto, prende il nome dallo storico giudeo romanizzato Flavio Giuseppe che, nell’opera Antichità giudaiche, descrive il nazareno come un uomo saggio, «se pure uno lo può chiamare uomo, date le opere sorprendenti che compì». «Egli era il Cristo – afferma lo storico – e Pilato lo condannò alla croce… (ma) nel terzo giorno apparve loro nuovamente vivo, come i profeti avevano preannunciato». Al netto dei dubbi che questo testo ci lascia, a parte quelli del Nuovo Testamento, non ci sono altri scritti a cui poter fare riferimento per capire Gesù. Ma lo stesso, mi pare, si possa dire anche di Socrate, o sbaglio? Non ci sono libri di storia che confermino o smentiscono quello che sappiamo di lui. Ma con Socrate non ci poniamo il problema che, invece, solleviamo per Gesù. Cerchiamo, a tutti i costi, il Gesù storico, ci sforziamo di de-mitizzarne la figura, come se da questo dipendesse il nostro giudizio su di lui, e soprattutto la credibilità della sua rivelazione. Ma così facendo falliamo completamente il bersaglio. Come ha scritto ancora San Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio, se non inserisce la sua ricerca nell’orizzonte della fede (è il “credo ut intelligam” di Sant’Agostino e Anselmo!) l’uomo non ha «la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio » (San Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 16) . «Egli (Gesù Cristo) – scrive ancora il Papa – vedendo il quale si vede anche il Padre, con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione dai morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione ».
Caro Nicola, Gesù non ha intravisto un Dio paterno e misericordioso, lo ha rivelato agli uomini. È lui stesso quel Dio. Gesù non si è limitato a predicare «un altruismo vissuto». Lui ha incarnato questo amore. Ha donato tutto se stesso alle folle che lo seguivano e lo ascoltavano. Ha guarito i malati per cui era venuto al mondo e per essi (gli “annegati” della canzone di De Andrè!), che fossero infermi nel corpo (paralitici, ciechi, sordi) o nello spirito (esattori delle tasse, usurai, adultere, ladri), si è speso e davanti a loro si è lasciato spezzare sul legno della croce dalla forza bruta del mondo, come lui stesso aveva spezzato e diviso il pane poche ore prima con i suoi amici. Gesù non è un maestro d’amore. Gesù è l’Amore stesso fattosi carne. Non usa parole efficaci, come i sapienti o i filosofi. Lui è la Parola, il Verbo, il Logos che cura, che risana, che consola, che trasfigura l’umano. Gesù non ha creduto in un mondo più giusto. Gesù, il Cristo, quel mondo lo ha annunciato e ce lo ha mostrato. Ce lo ha messo davanti agli occhi nella sua persona. E di quel mondo fa parte la sua Chiesa, la sposa di Cristo!
È con questa verità – lo ripeto - che Gesù ha rivelato, incarnato, annunciato e non intravisto, predicato o creduto, che dobbiamo fare i conti, credenti e non credenti, nell’approssimarsi della Pasqua di quest’anno. Una Pasqua così diversa dalle altre. Più triste, ma forse più vera.
La stessa Trinità, che tu evochi nel tuo articolo e di cui Cristo è la seconda persona, non è solo un simbolo, una di quelle «feconde simbologie di cui l’umanità ha mai come ora bisogno». La Trinità, come ha scritto Sant’Agostino, è un mistero dentro il quale e attraverso il quale Dio ha rivelato all’uomo la verità su stesso. Come D io è “Essere (Padre), Verità (Figlio) e Amore (Spirito Santo), così l’uomo «è, conosce e ama». «Al di fuori di questa prospettiva il mistero dell’esistenza rimane un enigma insolubile» (San Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 12)
Come possiamo allora pretendere di liberarci dalle lenti cristiane per capire chi era Cristo? Toglierci queste lenti significa restare al buio. Non sono lenti che deformano il dato reale, perché non sono state forgiate da mani d’uomo. Quest e lenti sono l’eredità che lui ha lasciato nel mondo e che è arrivata fino a noi attraverso la testimonianza di coloro che «fin da principio lo hanno amato e non hanno cessato di aderire a Lui» (Flavio Giuseppe). Non dobbiamo, dunque, liberare Gesù dal cristianesimo, come si tenta di liberare Marx dal marxismo! Paolo, Pietro e Giovanni non stanno a Cristo, come Lenin, Stalin e Mao stanno a Marx.
La divino-umanità di Gesù deve turbarci ed affascinarci, caro Nicola, non il Gesù “storico”! Cristo ci chiede di fare i conti con noi stessi; di dare ragione quotidianamente del nostro vivere e del nostro amare; ci indica una via difficile da seguire, la via della croce; ci invita ad entrare in quello che Kafka con pregnante espressione chiama “un abisso pieno di luce”. Per capire chi sia stato veramente Gesù e perché Lui incarni la vera risposta alla domanda di Pilato, non può significare altro che lasciarsi trasportare dal legno della croce (la famosa terza navigazione agostiniana!) in quel mistero di Luce.
Il celebre motto, da te riformulato, «Christus amicus sed maius amica veritas» non regge di fronte al mistero cristologico. Lo sapeva bene Dostoevskij che nella famosa lettera alla Fonvizina del 20 febbraio 1854 scrive: «se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità». Un paradosso, lo sai meglio di me. Perché lo scrittore russo, uomo di fede profonda e conoscitore sensibile delle sofferenze umane, sapeva che tra Cristo e la verità non c’è differenza. Come lo sa «la ragione creata che umilmente si sottomette alla verità increata» (Cost. dogm. Sulla fede cattolica Dei Filius, III), sapendo che solo così potrà percorrere speditamente il cammino che la separa dalla meta.
Tra le 217 domande che i quattro vangeli attribuiscono a Gesù (mi permetto a questo proposito di rinviarti al bel libro di Ludwig Monti Le domande di Gesù), «Ma voi chi dite che io sia?» è probabilmente la più importante. La troviamo in tutti e tre i vangeli sinottici. Gesù la rivolge ai suoi apostoli, dopo aver ascoltato le risposte date loro dalla gente comune. Com’è noto , è Pietro a rispondere per tutti: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Con queste parole, che «né la carne, né il sangue» gli avevano rivelato, Pietro in un colpo solo si guadagna il riconoscimento di Gesù («Beato te, Simone figlio di Giona…») e il primato di cui parlavamo. Ma questo Pietro è lo stesso apostolo che sul Tabor voleva fare tre tende per ospitare Gesù, Mosè ed Elia e che, dopo l’arresto del suo Maestro, lo rinnega per tre volte di seguito.
Gli storici che pretendono di far luce sul mistero di Gesù, mettendo tra parentesi la fede e affermando di dover essere più amici della verità che di Cristo, somigliano tanto al secondo Pietro e molto poco al primo.
Con stima e riconoscenza,
Emanuele Troisi
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