Incontri impossibili: Teresa Simeone in visita a Martin Heidegger nella Foresta Nera |
Infatti, per “socializzare” quanto il corpo docente sta facendo in epoca di DaD (Didattica a distanza), ho deciso di dedicare un’ora a settimana a piccoli gruppi di non studenti per leggere testi di filosofi (Invito al pensiero). Il primo, per un debito che sento di avere, è stato quel Martin Heidegger che Teresa evoca (la Foresta nera, il mulino, la φύσις…) senza mai citare esplicitamente, e in particolare la conferenza poi divenuta saggio (confluita in Saggi e discorsi) La questione della tecnica.
Nei due dei tre incontri io e Teresa abbiamo amabilmente ma anche vibrantemente polemizzato sul tema.
Ora Teresa sembra voler pronunziare il giudizio definitivo, una vera e propria damnatio, che bolla Heidegger (& sons… ma tra questi non ci sarebbe anche Jonas? Sono pensabili L’uomo è antiquato di Anders e Il principio responsabilità senza le lezioni del Maestro ascoltate dai due autori a Marburgo?).
La mia tesi è che, malgrado la messe di studio e i dibattiti che periodicamente si riaccendono intorno alla sua opera (ultimo quello sui Quaderni neri, che davvero non aggiungono nulla e appaiono, al contrario, tediosi al limite dell’illeggibilità), l’opera di Heidegger sia incompresa dai più. Non per scarse capacità dei lettori ma per una serie di a priori che impediscono di comprendere quello che realmente egli scriveva.
Ciò che sostiene Teresa nella parte centrale del suo saggio è assolutamente significativo da questo punto di vista, e, malgrado l’evidenza emersa dalla lettura diretta del testo (pratica a cui i più preferiscono la letteratura secondaria), stupisce l’ostinazione nel voler considerare il "mago" della Foresta Nera un conservatore o addirittura un reazionario, un nostalgico. Secondo una prassi antichissima, insomma, nella storia della filosofia, risalente addirittura al venerando Aristotele, Teresa costruisce un obiettivo polemico di comodo e che non corrisponde, proprio in base a parametri “scientifici”, filologici, a ciò che troviamo nei libri heidegerriani per aver facili argomenti polemici.
Sarebbe per altro interessante capire dall’autrice la rimozione del nome del filosofo pur riconoscibilissimo in filigrana…
La posizione che emerge è quella di chi rivendica una razionalità “debole” (ma questa acquisizione non nasce da una convergenza del magistero heideggerriano con gli sviluppi della seconda rivoluzione scientifica?) che hanno smontato il tronfio ottimismo e lo scientismo positivista e neo-positivista. Teresa preferisce considerarsi una neo-illuminista e per altro appare assolutamente coerente che collabori ad una rivista (ottima e preziosa!) il cui riferimento (Flores d’Arcais) vuole incarnare esattamente il ritorno alla ragione dopo la sua “distruzione” ad opera della genia di Meßkirch.
Teresa scrive dei «negatori della modernità che sognano un mondo idillico» dove «innovazione, anticonformismo, progresso sono allontanati come pericolosi […], un mondo pre-industriale, pastorale e rurale». Il pensiero del “filosofo” tedesco, al contrario, se compreso al di là di quelle che appaiono vere e proprie mistificazioni (sempre esistite, come detto, dalle origini della filosofia) appare aperto quanto mai al futuro. L’indagine sull’essenza della tecnica, che ne scopre una dimensione non esclusivamente umana, ma coappartenente all’ambito che tiene insieme Essere ed Esser-ci, deve impedire tanto «l’ottusa costrizione per cui dobbiamo darci alla tecnica in modo cieco» (quanto prefigurato, invece, da Anders o da stanchi epigoni come Galimberti), tanto (ma per Heidegger è la stessa cosa!) di «rivoltarci vanamente contro di essa e condannarla come opera del demonio». Capire l’essenza della tecnica, attraverso il pensiero (non la filosofia, ambito nel quale a mio avviso, orgogliosamente e rivendicandolo, Teresa rimane) ci può richiamare ad un appello liberatore.
Teresa poi passa a colpire altri “miti” (dal suo punto di vista) di cui spesso abbiamo discusso polemicamente. Mi pare di cogliere, ma anche qui (e, ancora una volta, perché?) la mancanza di nomi, atipica in una come lei che giustamente rivendica l’acribia e l’importanza delle note e delle citazioni precise, una polemica rivolta contro la decrescita conviviale. Scrive: «Ci spiegassero come si sarebbe fatto, nella concretezza, ad arrivare ai pannelli fotovoltaici, che non depauperano il sole e per questo sono “accettati”, senza passare per quell’essenza della tecnica colpevole di aver soltanto “usato” la natura». Provo a risponderle, visto che mi sento personalmente interpellato (e considerato che questo tipo di riflessione è stato portato proprio all’interno della lettura che abbiamo fatto in rete). Intimamente hegeliana, Teresa esplicita il giustificazionismo che alberga in ogni storicismo. In questo modo (e tradendo, a mio avviso, uno dei suoi maestri, Jonas, poi chiamato in causa), mostra di ritenere che un bene futuro giustifichi un male nel presente, che l’umanità avvenire sia ontologicamente superiore a quella presente, che, ad esempio, le sofferenze delle masse sfruttate dalla rivoluzione industriale siano servite a preparare il benessere di operai del futuro (quale poi?). Io credo che la storia non sia necessitata, che tante scelte del passato avrebbero potuto essere diverse, ma (ci soccorre il “cattivo maestro”…) la scienza moderna nasce con un cuore tecnico, votata al dominio (basti leggere Cartesio e Bacone senza paraocchi: «Il dominio dell’uomo consiste solo nella conoscenza: l’uomo tanto può quanto sa; nessuna forza può spezzare la catena delle cause naturali; la natura infatti non si vince se non ubbidendole»).
Il vero obiettivo polemico di Teresa, in realtà, che la spinge a confondere posizioni molto lontane tra loro (e a ritenere ad esempio molto diffuse posizioni presenti solo nelle frange più estreme della deep ecology) è l’anti-umanesimo. Ma l’umanismo che Heidegger mette in discussione non porta a posizioni “contro l’uomo” (o addirittura che auspicano la sua scomparsa da una terra ridonata alla sua immacolatezza: sfido Teresa a trovare una sola parola in tal senso nell’immenso corpus heideggeriano). Al contrario, tali critiche dovrebbero spingere l’uomo a diventare consapevole di essere custode e non padrone dell'intero mondo naturale accolto non più come "fondo" a disposizione per essere sfruttato.
Non mi pare casuale che Teresa, come Marx, scelga Prometeo come simbolo positivo di altruismo e solidarietà, nume tutelare di un pensiero in marcia verso la civiltà.
Non credo che su Ivan Illich io e Teresa abbiamo mai duellato (se non di sfuggita). Immagino lo ascriverebbe all’ambito dei pensatori anti-moderni. Ebbene, questo straordinario sacerdote cattolico, sospeso a divinis, tra le altre tesi provocatorie, ha scritto (in un libro il cui titolo farebbe rabbrividire la mia amica: Descolarizzare la società!) un elogio di Epimeteo che faccio mio, antiteresianamente. Pagine meravigliose, cariche di poesia (ma, purtroppo, per Teresa la poesia va relegata alla sfera dell’estetico, al mondo delle sensazioni, non pertiene la “verità”, cui si accede solo metodicamente attraverso la filosofia e le scienze…). Illich scrive parole che dovrebbero far vibrare un’innamorata della “speranza” (cui ha dedicato un libro): «Dobbiamo riscoprire la differenza tra speranza e aspettativa. Speranza, nell’accezione più pregnante, indica una fede ottimistica nella bontà della natura, mentre aspettativa, nel senso in cui utilizzerò questo termine, è contare su risultati programmati e controllati dall’uomo. La speranza concentra il desiderio su una persona dalla quale attendiamo un dono. L’aspettativa attende soddisfazione da un processo prevedibile, il quale produrrà ciò che è nostro diritto pretendere. Oggi l’ethos prometeico ha messo in ombra la speranza. La sopravvivenza della specie umana dipende dalla sua riscoperta come forza sociale». E poco dopo: «Il dubbio che nel concetto di homo faber vi sia qualcosa di strutturalmente sbagliato si va sempre più diffondendo in una minoranza sparsa in tutti i paesi, comunisti, capitalisti e “sottosviluppati”. Questo dubbio è la caratteristica comune di una nuova élite. Appartengono a essa individui di ogni classe, reddito, fede e civiltà. Essi sono giunti a diffidare dei miti della maggioranza: delle utopie scientifiche, del diabolismo ideologico e dell’aspettativa del giorno in cui beni e servizi saranno distribuiti con una certa eguaglianza. Hanno in comune con la maggioranza la sensazione d’essere in trappola e, ancora, la consapevolezza che quasi tutte le nuove scelte politiche adottate con vasto consenso approdano regolarmente a risultati che sono clamorosamente opposti ai loro fini dichiarati. Ma mentre la maggioranza prometeica degli aspiranti esploratori spaziali continua a non affrontare il problema strutturale, la minoranza emergente critica il deus ex machina scientifico, la panacea ideologica e la caccia ai diavoli e alle streghe, e comincia a dar forma al proprio sospetto che le nostre continue illusioni ci leghino alle istituzioni contemporanee come le catene legavano Prometeo alla roccia. Una fiducia piena di speranza e l’ironia classica devono allearsi per denunciare l’inganno prometeico». E chiude con un auspicio: «La Pizia di Delfi è stata ora sostituita da un computer che troneggia sui pannelli e perfora schede. Gli esametri dell’oracolo hanno lasciato il posto a istruzioni in codici di sedici bit. L’uomo timoniere ha ceduto la barra alla macchina cibernetica. Sta per comparire la macchina definitiva che guiderà i nostri destini [oggi si chiama algoritmo...]. I bambini fantasticano di volare con le loro astronavi lontano da una terra al crepuscolo.
Dalla prospettiva dell’uomo giunto sulla luna, Prometeo potrebbe riconoscere nell’azzurra e splendente Gaia il pianeta della speranza e l’arca dell’umanità. Una nuova consapevolezza dei limiti della Terra e una nuova nostalgia possono oggi aprire gli occhi agli uomini e portarli a condividere la scelta di Epimeteo che sposando Pandora sposò la Terra. A questo punto il mito greco diventa una profezia carica di speranze, perché ci dice che il figlio di Prometeo era Deucalione, il timoniere dell’arca che, come Noè, resistette al diluvio e diventò padre di una nuova umanità, che egli fece con la terra unitamente a Pirra, figlia di Epimeteo e di Pandora. Incominciamo così a capire che in realtà il πίθος [vaso] che Pandora ricevette dagli dèi è il contrario di una scatola: è il nostro vascello, la nostra arca».
Teresa, dopo una rapida ricostruzione del pensiero di Jonas (fondamentale anche per me), ritorna a semplificazioni inaccettabili, ipotizzando che noi poveri scolaretti di Heidegger vogliamo tornare ad una «condizione bucolica», pieni di nostalgia per «un’unione con la φύσις e con la primitività di un mondo tutto votato a un rapporto di pura contemplazione». Ho trovato, confesso, questa immagine grottesca, pensando al fatto che, pochi giorni fa, abbiamo discusso (in rete, utilizzando le tecnologie più evolute, in maniera relazionale!) questi temi. Ripeto: è troppo facile crearsi obiettivi polemici inesistenti! Al contrario, io ho scelto di polemizzare vigorosamente, con una persona in carne ed ossa.
Chiudo con affetto polemico: Teresa non ha capito Heidegger e i suoi “figli” perché non vuole capirlo, non perché non possa (e per questo ha bisogno di ricostruire un Heidegger che semplicemente non esiste). Credo che un confronto serio con questo filone di pensiero (vana strategia retorica la lanx satura in cui ci si mette di tutto: finanche i no-vax!) destabilizzerebbe troppe sue certezze. Le auguro, però, di rispondere a questo appello liberatore.
La sua posizione neo-illuministica si rivelerà nel tempo organica ad un socialismo eco-liberale (non a caso abbarbicato fino a negare l'evidenza ad un europeismo "idealizzante" e che per altro rischia di essere molto greenwashing) compatibile con la conservazione dello stato di cose esistente. Abbiamo bisogno di un pensiero radicale (in sorgente e insorgente) in un tempo apocalittico (e in quanto tale rivelativo: per chi vuole vedere!). Le donne e gli uomini di pensiero dovrebbero farsi carico di essere intimamente rivoluzionari, di non accettare più compromessi con forze economiche e politiche che hanno mostrato e mostrano fino alla fine (letteralmente!) la loro carica distruttiva. Ma una prassi rivoluzionaria può nascere solo da un pensiero rivoluzionario.
Il saggio di Heidegger si chiude con una meditazione sui celeberrimi versi di Hölderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva». Nel tempo della desolazione non solo della terra ma anche del suo Re pescatore, gli fanno eco le parole di un capitano della Resistenza francese (anche lui rifugiatosi nelle campagne della Provenza, anche lui “regressivo” e anti-moderno?) che intessé col tedesco un fecondo colloquio:
Siamo, oggi, più vicini al disastro
che non la stessa campana a martello,
quindi è più che mai tempo di farci,
della calamità, una salute.
Dovesse essa aver l’arrogante
apparenza del miracolo.
Fare della calamità una salute. Questo è l’appello dell’uomo epimeteico. Questo l’augurio che faccio a me stesso e a chi avrà orecchie per udire e occhi per leggere.
P.S.
A Teresa chiesi illo tempore di presentare, a Vitulano, In quieta ricerca. Se ne trova eco sul mio blog. Fu una bellissima serata!
A lei ho chiesto di leggere, prima di pensare ad una stampa, la nuova raccolta di saggi, ancora oggi inedita (Pensiero in sorgente).
Voglio dire con questo post scriptum che, malgrado la veemenza della mia risposta, figlia del mio carattere sanguigno e agonistico, il rapporto di stima, prima ancora che di amicizia, è solidissimo.
Esso nasce, però, dalla consapevolezza di una distanza non colmabile. Agli occhi di Teresa io resterò sempre un populista (in politica), irrazionalista (in filosofia), con tratti “pericolosi” ai suoi occhi in virtù di quelle che lei spesso definisce capacità «ammaliatorie» dei miei discorsi.
Ciò nonostante, mi auguro che quella in atto sia una delle tante vibranti polemiche che ci accompagneranno nel prosieguo delle nostre vite.
Incontri veri: Heidegger e Char |
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