venerdì 19 febbraio 2016

pensiero meridiano


Siamo davanti ad un vaso, della preziosa collezione di vasi del Museo. Ce ne parla Mario Rotili in questo libro che custodisco gelosamente. Tracce dell’antico Sannio, molto esteso geograficamente.
Sul vaso la rappresentazione di un “simposio”. Se guardate lo schermo vedrete scorrere la ricostruzione che ne ha fatto Marco Ferreri nel 1988, con Irene Papas, tra gli altri.
Presso i Greci e i Romani, il simposio era quella pratica conviviale, che faceva seguito al banchetto, durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti conviviali (skólia), si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi ecc.). La parola indica il bere (posin) insieme (syn). Sarebbe interessante ripercorrere il nesso fra spiritualità, filosofia e letteratura intorno alla tavola, da Platone ai Vangeli, da Dante a Caravaggio. George Steiner ci ha lasciato un memorabile saggio (Due cene) di raffronto fra il simposio descritto da Platone e l’ultima cena di Gesù. Ma io vi parlerò, come avete capito dalla lettura di Valentina Gaudini, solo di Platone, che stasera domina incontrastato.
Platone ci ha lasciato un’opera intitolata Symposion, tradotta talvolta anche, estensivamente, con il termine Convivio o Banchetto. In realtà il termine greco è preciso e tecnico: nel simposio non si mangiava, si beveva. Al centro vi era, dunque, una bevanda non solo sacra a Dioniso, dio del vino, ma fulcro, insieme al pane e all’olio, della civiltà alimentare mediterranea, come insegna Massimo Montanari in La fame e l’abbondanza.
Quest’opera è davvero strana. Malgrado abbia avuto un enorme influsso su tutta la cultura occidentale e sia impensabile l’intero Rinascimento e il cosiddetto neoplatonismo (da Ficino a Pico della Mirandola, passando per Botticelli) senza di essa, appare difficilmente integrabile in un eventuale “sistema” platonico.
Lasciatemi, almeno di passaggio, omaggiare stasera, a nome di tutta la Libera Scuola di Filosofia del Sannio, uno studioso che ha dedicato tutta la sua vita alla filosofia, in particolare a quella platonica e in particolare all’opera di cui parleremo stasera. Parlo di Giovanni Reale, scomparso l’altro ieri. Possiamo non essere d’accordo con lui, e non lo siamo su molte cose. Ma fino all’ultimo giorno egli si è dedicato con amore a quello che Dante chiama nel Convivio “pane degli angeli”. Un modello per tutti coloro che amano questa disciplina.
Consentitemi una parentesi. Platone è l’oggetto “perfetto” per l’esercizio dell’attitudine ermeneutica (termine che deriva dal nome di un’altra divinità, dopo Atena/Minerva, Hermes). Il corpus platonico si presta alle più svariate interpretazioni per le sue incredibili ambiguità, esattamente come la figura di Socrate ci pone, al pari di quella di Jehosua, una “vita” da interpretare e reinterpretare continuamente. Non entrerò in questo ginepraio. Diciamo che la tendenza scolastica è quella di “ridurre” Platone a sistema mettendo al centro la cosiddetta “teoria delle idee”, degli archetipi. Ebbene, in questo sistema il Simposio appare poco integrabile. Mentre il Platone che potremmo definire “maior”, sistematico (ripeto: si tratta di una semplificazione storiografica ma è quella che molti di voi hanno introiettato) definirebbe una via maestra alla conoscenza, alla liberazione dalle tenebre della caverna, che passa attraverso una ridefinizione della “filosofia” (amore per il sapere) in vero è proprio sapere (la conoscenza delle idee perfette e immutabili), via aristocratica, percorribile da pochi, lunga e faticosa, bisognosa di una scuola diremmo oggi di specializzazione che fu l’Accademia, il Simposio, al contrario, democraticamente, immagina che esista una via aperta a tutti per elevarsi alla dimensione ideale. Ma questa via, ed è elemento fascinoso del libro, viene spiegato ad un Socrate letteralmente “ignorante” da una donna, l’unica donna della filosofia greca, fatta salva l’austera e tragica figura di Ipazia di Alessandria, neoplatonica barbaramente uccisa e fatta a pezzi (fu scorticata fino alle ossa, forse usando gusci di ostriche) dalla comunità cristiana aizzata dal vescovo, san Cirillo... La filosofia, permettetemi l’ennesima breve digressione (ma stasera sarò digriediente) è tutta maschile. Luce Iragaray ci ha illuminato sulla dimensione “fallica” del pensiero filosofico che sarebbe, proprio con il Platone “maior” e il suo mito della caverna, volontà di emanciparsi, per sempre, dall’utero, dal grembo materno andando verso il cielo, verso il sole, verso l’Iperuranio...
Torniamo a Diotima... sacerdotessa di Mantinea che introduce uno sprovveduto Socrate agli ultimi misteri d’amore... La sacerdotessa prima di tutto ribalta la visione tradizionale dell’Eros, che, con una serie di varianti, troviamo nei discorsi raccontati da Platone (quelli di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane e Agatone). Eros non è un dio ma un demone. La parola evoca, giustamente, nel nostro cervello “cristianizzato” fiamme infere, forconi, Cagnaccio, Barbariccia, a qualcuno Geppo o Spawn... Invece per i Greci il “daimon” è un «essere divino» che si pone a metà strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediare tra queste due dimensioni, per questo rappresentato con le ali. Diotima insegna a Socrate che tale natura ibrida deriva ad Eros dall’essere figlio di due divinità con caratteri antagonisti. Dai genitori Eros ha ereditato un anelito a qualcosa che non ha... Alla bellezza...
Se Eros non è un dio a lui non dobbiamo obbedienza o venerazione, come voleva la tradizione. Esso, fuor di metafora, non è qualcosa che ci domina dall’esterno facendo di noi dei burattini nelle sue mani, come l’Elena descritta nel famoso Encomio di Elena del sofista Gorgia. «Amor vincit omnia e nos cedamus amori», come scrive amaramente il Virgilio delle Bucoliche. No, Eros è una forza che ci abita e che può spingersi alle più alte vette della conoscenza, ai più intimi segreti del mondo. Questa conoscenza amorosa è raccordo fra cielo e terra, fra umani e divini, come direbbe Martin Heidegger. E sì, alla fine potrà portarci all’idea, alla somma idea, ma partendo sempre dal mondo dalla sua sensuale bellezza...
Ma nel passo che Valentina ha letto c’è un passaggio delicato e prezioso su cui vorrei riflettere con voi... Vi si dice che Eros passa tutta la vita ad amare la sapienza. Il testo greco dice, ovviamente, “philosophos”. Eros è filosofo... Che significa questa sconcertante affermazione? Non siamo abituati a pensare, forse distorcendo lo stesso messaggio gesuano in un cristianesimo ascetico, sessuofobico e dualistico (quindi in fondo gnostico) che l’eros e la filosofia non possono andare d’accordo? Che la filosofia è liberazione dalle passioni? Quello che vorrei comunicarvi stasera, in fondo, ha molto a che fare con il mio lavoro, con il nostro lavoro, se Amerigo mi consente, avendo con lui un rapporto che trascende l’amicizia e la condivisione quotidiana nella scuola. Io e Amerigo abbiamo sempre concepito la nostra attività, il nostro insegnamento, sulla scorta di questo Platone simposiaco, diotimeo, come un’attività, e spero di scandalizzare i benpensanti, “erotica”. Il motore della paideia può essere solo l’amore. Possiamo illuderci, ogni giorno daccapo, di avviare i ragazzi che ci vengono affidati lungo la via del sapere solo se li amiamo nella loro fragilità, nella loro ignoranza spesso abissale. E questo è il motore della paideia perché, nel profondo, è la radice stessa della philosophia. Eros, dice Platone, è filosofo perché ama la sapienza, e la ama perché non la possiede. Solo gli dèi sono sapienti e non hanno bisogno di conoscere null’altro. Il filosofo, mosso dall’eros, è colui che sempre sa di non sapere e dunque anela a sapere, sapendo che non potrà mai sapere una volta per sempre. Questa è l’unica “sapienza” che possiamo sperare di inoculare, eroticamente (dunque attraverso l’esempio e la presenza: per questo la scuola non può essere semplicemente sostituita dalla tecnica), nei nostri allievi. Che la ricerca non avrà mai fine, ma che, nello stesso tempo, il desiderare stesso la sapienza mai raggiungibile (altrimenti diventeremmo dei... non è forse il sogno prometeico e faustiano della scienza moderna?) è bello e godibile in sé. Il vero sapere, come anelito al sapere, è un fine in sé.
Il vaso, il simposio, Platone, Eros, la filosofia, la paideia... Massimo Recalcati ha pubblicato un libro la cui lettura vi consiglio vivamente... Io l’ho preso nella versione digitale. Se la tradizione e la rivoluzione, come scrive Cassano ne Il pensiero meridiano devono essere coniugate, noi per primi dobbiamo imparare a far incontrare nuzialmente questo manufatto in cui affondano le nostre radici e quest’altro, in cui ci sono le chiome... Il libro si chiama L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. Leggiamo: 

«Nell’epoca dell’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica è ancora possibile una parola degna di rispetto? Cosa può restare della parola di un insegnante o di un padre nel tempo della loro evaporazione? La pratica dell’insegnamento può accontentarsi di essere ridotta alla trasmissione di informazioni – o, come si preferisce dire, di competenze – o deve mantenere vivo il rapporto erotico del soggetto con il sapere?
È un bivio culturale con il quale siamo confrontati. Ma per scegliere la via dell’erotizzazione del sapere occorre che l’insegnante sappia preservare il giusto posto dell’impossibile. È il tratto che contrassegna ogni trasmissione autentica: la trasmissione del sapere di cui la Scuola si incarica a ogni livello, dalle scuole elementari sino a quelle post-universitarie, non è la chiarificazione dell’esistenza o la riduzione della verità a una somma di informazioni, ma la messa in evidenza di come ruoti attorno a un impossibile da trasmettere. Il maestro non è colui che possiede il sapere, ma colui che sa entrare in un rapporto singolare con l’impossibilità che attraversa il sapere, che è l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Non perché non esista una Biblioteca delle Biblioteche capace di raccogliere tutto il sapere, ma perché, anche se esistesse e se leggessimo ogni suo libro, non avremmo affatto risolto il limite che attraversa il sapere come tale. Il sapere non si può mai sapere tutto perché è per sua struttura bucato, non-tutto, impossibile. Uno scarto irriducibile lo separa dal reale della vita. Si deve dire allora che un insegnamento ha come tratto distintivo il confronto con il limite del sapere attraverso il sapere, mentre il maestro che mostra di possedere il sapere può essere solo una caricatura risibile del sapere».

Chiudo questa breve riflessione andando all’inizio del testo letto...

Vi si dice, ricordate, che Eros svolge una doppia funzione di intermediario, di “pontefice”. Fa da tramite fra gli uomini e gli dèi e lega le due regione del mondo, quella celeste e quella terrena, «cosicché il tutto risulta collegato con se stesso». Ebbene, in queste due brevi notazioni possiamo trovare preziose tracce per la nostra ricerca e per il nostro agire. Da una parte dobbiamo sempre ricordare che una parte di noi è connessa con il divino, attraverso forze mediatrici. Lo stesso Socrate evocava spesso il “daimon” che abitava in lui e gli suggeriva cosa non fare. Dall’altra il Platone “minore” e sublime del Simposio ci dice, in questo tempo rischioso di distruzione sistemica dell’habitat naturale, che il tutto è collegato. Eros, dunque, oltre ad essere possibile traccia delle nostre filosofie e delle nostre pedagogie può essere la guida celeste per le nostre etiche e per le nostre politiche. 

(Intervento tenuto nel Museo del Sannio il 17 ottobre 2014 all'interno del Festival filosofico "Sophia" organizzato dalla Libera Scuola di Filosofia del Sannio)

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