giovedì 11 febbraio 2016

le competenze al servizio di una pedagogia “erotica”



1.       Schizofrenia?

Una cara collega, un po’ di tempo fa, dopo che avevo letto in pubblico un frammento tratto da L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento di Massimo Recalcati, mi disse che ero “schizofrenico”. In quel passo si prendeva di mira la “scuola delle competenze” in nome di una scuola che non “misura” ma fa “innamorare” del sapere. Perché “schizofrenico”? Perché nel Liceo Giannone rivesto da tre anni il ruolo di responsabile del Piano dell’Offerta Formativa e, col supporto della Dirigente e la collaborazione di tutti i colleghi, ho avviato il faticoso transito della nostra scuola (che ha aderito al progetto “Vales”) dalle “conoscenze” alle “competenze”, anche per ottemperare a quanto sollecitato dai valutatori esterni. Dunque, la collega ha ragione? E come posso giustificare questa doppiezza? Sono un “(dis)onesto dissimulatore” che, nella notte poetica, esalta l’eros come fondamento della paideia, e nella luce diurna della scuola capitalistica lavora per la costruzione di “competenze” spendibili nel mercato?

2.       Per un’erotica dell’insegnamento

La lettura del libro di Recalcati ha accompagnato i mesi di avvio di questo nuovo anno scolastico. È un libro prezioso: tutti i docenti dovrebbero leggerlo. Insegna, prima di tutto, che non esistono «viti storte», che anche l’alunno più riottoso, se adeguatamente motivato, può cambiare, che anche un bambino bocciato in seconda elementare e poi di nuovo in un Istituto Agrario può diventare un plurilaureato e riverito psicoanalista, come l’autore del libro. Se... accade un incontro! Con una persona fisica, in carne ed ossa, un insegnante che non ha paura di essere anche un educatore. Nel caso di Recalcati, una docente di italiano delle superiori che lo “innamorò”, attraverso un complesso processo di transfert, delle lettura, dei libri, del sapere. Il modello archetipico di questo educatore è, ovviamente, Socrate. E la condicio sine qua non di un vero processo educativo è che non si voglia trasmettere un sapere dato (da un pieno a un vuoto), ma che l’educatore, socraticamente, riconosca il proprio non sapere (meglio: che il sapere può sempre progredire, che la ricerca non avrà mai fine) e cerchi, dunque, non di “trasmettere” ma di creare nell’allievo un vuoto, una faglia, un desiderio... Riprendendo l’antica distinzione della pederastia greca fra eromenos ed erastès, Recalcati invita l’educatore a far diventare l’eromenos erastès, l’amato amante. Solo il desiderio di sapere costruisce un vero sapere:

«Se c’è qualcosa che resta della Scuola nell’epoca della sua evaporazione indisciplinare, è il rapporto del soggetto col sapere che la funzione dell’insegnante deve essere in grado di animare. La partita della Scuola continua nonostante tutto a giocarsi essenzialmente a questo livello. Esiste la possibilità di introdurre il soggetto in un rapporto vitale col sapere? Esiste ancora la possibilità di lavorare attorno agli oggetti del sapere tenendo conto del rapporto che hanno con la vita di chi li deve assimilare? Ancora più radicalmente: ciò che resta della Scuola non è forse la possibilità, ogni volta nuova, di trasformare gli oggetti del sapere in oggetti del desiderio, in corpi erotici? Non è in questo che consiste, in ultima istanza, la posta in gioco di tutta la partita dell’insegnamento? La Scuola non dovrebbe avere questo come suo proprio compito? Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, un oggetto erotizzato capace di funzionare come causa del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento l’allievo. Non è questa la funzione agalmatica che con Lacan dobbiamo riconoscere a un sapere che si rivela erotico, cioè capace di mobilitare il desiderio di sapere? Non è forse la competenza che rende possibile tutte le altre? Se non si anima il desiderio di sapere, non c’è alcuna possibilità di apprendere in modo singolare il sapere che viene trasmesso».

3.       Lettera aperta sulla questione delle “competenze”

All’inizio del 2014, ho indirizzato ai colleghi del Giannone una lettera aperta in cui ragionavo sulla questione delle “competenze”, ipotizzando una “terza via” tra l’adesione acritica e il rifiuto aprioristico. Scrivevo:

«Lo scorso mese nella nostra scuola due esperti del progetto VALES hanno fatto uno screening (mi adeguo al linguaggio dei colleghi valutatori!) dell’intero Liceo. Io, come altri colleghi, ho dovuto rispondere ad una batteria di domande, dalle quali è emerso il “ritardo” (attenzione alle virgolette!) della nostra scuola rispetto alle attese europee (che risalgono almeno agli anni Novanta, al Libro Bianco di Delors). Per questo ci sarà prospettato a breve un “piano di miglioramento”.
Ho cercato, durante le vacanze, di elaborare il senso di disagio che avevo provato, simile a quello degli anni liceali durante “l’interrogazione di chimica” (ero un pessimo alunno, confesso, nelle discipline scientifiche!). Grazie anche alla lettura del fascicolo monografico di «Aut-Aut» della primavera 2013 dedicato all’argomento, ho capito che la questione non può essere posta solo nei termini di innovazione (buona) vs. conservazione (cattiva). Ho utilizzato, dunque, come strumento per decifrare quanto andavo elaborando, l’idea di “paradigma”. La scuola italiana, e più in generale europea, sta vivendo una fase di conflitto fra due modelli, due ipotesi, due possibilità. Una privilegia la trasmissione dei contenuti disciplinari, l’altra la costruzione di competenze in un’ottica multidisciplinare. Ovviamente semplifico per intenderci. Il rischio è che, però, la scuola delle “competenze” costruisca un tipo di allievo poco propenso all’elaborazione critica, educato al problem solving come approccio complessivo alla realtà, “obbediente” a forme di verifica molto semplici (stimolo/risposta), che annullino l’elaborazione, la riflessione che necessita spesso di tempi lunghi:

“La trivializzazione della cultura è avvenuta sotto la specie della sottocultura aziendalistica. Con il suo lessico falsamente oggettivo, essa ha avuto lo scopo di riempire i margini del linguaggio e di colmare le beanze della nostra realtà sociale e culturale, di saturare con un troppo di senso l’essenziale spazio del non-senso. Densificare la realtà è un antidoto all’angoscia: lo scopo manifesto dell’odierno programma ideologico è che la scuola debba mutare radicalmente il suo senso, da comunità autonoma a struttura soggetta a eteronomia. Così, da apprendistato alla critica, essa deve diventare portatrice di un senso prodotto altrove, da acquisizione dell’arte del disgiungere per ricomporre a un saper-ricomporre mediante pacchetti preformati da maneggiare secondo regole imposte. La retorica delle competenze – di cui è ammantato il più recente discorso pedagogico – nasce da qui, da questa esigenza presupposta e inindagata – pertanto metafisica – che è funzionale allo scopo di otturare quei vuoti di senso che, d’altronde, è lo stesso tardo-capitalismo a produrre” (Raoul Kirchmayr, La dittatura del programma).

A mio avviso è possibile una “terza via” che permetta di cogliere il buono di questa innovazione, accettata dai più acriticamente, come un dogma, rifiutandone l’implicita dimensione tecnocratica. Io ritengo sia possibile declinare il nuovo paradigma delle competenze in maniera critica, facendone lo strumento per plasmare quelle che Morin definiva, nel suo celebre, aureo libriccino, “teste ben fatte”. [...]
Individuato il “nemico” (la scuola al servizio della tecnica, dell’economia, una scuola eteronoma, privata della sua peculiare ed autonoma elaborazione del senso, che sostanzialmente consiste, per evocare Gardner, nell’educare al vero, al giusto e al bello), possiamo limitarci a giustapporre strategie entrambe “critiche” ma totalmente disomogenee? Io credo di no. Omaggio quanti svolgono magnificamente il proprio lavoro all’interno del vecchio paradigma (discipline “a canne d’organo”, autoreferenzialità disciplinare), ma io mi pronunzio risolutamente per un’innovazione che ponga però con rigore il problema di un sapere critico. Per semplificare al massimo: sì ad una scuola delle competenze ma solo a patto che esse siano strumento di esercizio critico, di pensiero libero, di consapevolezza civica.
Dal mio punto di vista l’accettazione di una scuola delle competenze significa ripensare radicalmente il nostro modo di lavorare in classe e fuori di essa, il rapporto fra di noi, il rapporto con gli studenti. La sfida è elaborare il profilo in uscita degli studenti del Liceo Giannone e, rispetto ad esso, ridefinire le pratiche didattiche e gli strumenti di lavoro, abbandonando la pratica mortifera dei “programmi” e della lezione meramente trasmissiva. La sfida, però, e vorrei essere chiaro su questo, ben sapendo di muovermi su un terreno minato, è avviare pratiche reali di programmazione comune, in base, appunto alle competenze da costruire nei ragazzi, ben sapendo quanto questo sia difficile.
Care colleghe, cari colleghi, questa è la sfida che abbiamo davanti. Quello che chiedo, umilmente, in primis a me stesso, è: lo vogliamo fare? O, ancora una volta, le carte dovranno camuffare pratiche antiche che si perpetuano? Siamo in grado di abbandonare la nostra autoreferenzialità o vogliamo continuare ad essere imperatores nelle nostre ore di lezione, senza dar conto del lavoro che stiamo facendo sulla testa, unica, unitaria, dei nostri alunni? Questo non li condanna ad una sorta di “schizofrenia”, rispetto a modelli così diversi di pratiche didattiche?
Per quanto mi riguarda, proprio insegnare in un Liceo Classico, dove l’inutile, la dépense, per dirla con Bataille, è il cuore stesso, la ragion d’essere della scuola, mi rafforza nelle mie convinzioni. Dobbiamo, dunque, custodire questa splendida “anomalia” ma accettando la sfida di un’innovazione nelle pratiche didattiche e relazionali, rivendicare, per citare il fortunato libro di Ordine, “l’utilità dell’inutile”, ma ponendoci all’altezza del tempo. Rimodulare, per parafrasare un pensatore ospite del nostro Liceo alcuni anni fa, Franco Cassano, la tradizione in forma rivoluzionaria. Allora, forse, lo “sguardo” sul mondo, irrimediabilmente non asservibile alla ragione economica e strumentale della filosofia greca o medievale, della poesia di ogni tempo, dell’indagine scientifica finalizzata al taumazein e non al dominio, della matematica come conoscenza di un ordine ideale, della lingua come incontro possibile con l’altro potranno contribuire a plasmare uomini e donne che abitano consapevolmente e criticamente il proprio tempo, agenti della trasformazione e non meri esecutori o consumatori passivi di merci le più varie (e avariate)».

4.       Tentativo di sintesi

La scuola italiana è in un momento di grande sofferenza. Assisteremo in questi mesi all’ennesimo tentativo di “grande riforma” calata dall’alto, i cui esiti non possiamo prevedere. Sicuramente i Licei Classici, in un tempo dominato dalla razionalità tecnico-scientifica, vivono in maniera ancor più drammatica questa crisi, che si manifesta prima di tutto con perdita di iscritti e domande di senso (perché il latino, il greco, la filosofia ecc.?). A me pare che si debba avere la capacità, coniugando sguardo lungo e realismo, di tenere insieme le due proposte di cui ho discusso sopra: da una parte, potremmo dire, la “passione” socratica ed erotica di un insegnamento che mira ad accendere “fuochi” e non a riempire vasi, dall’altra la capacità (anche tecnica) di saper organizzare nuove metodologie didattiche, nuovi spazi, nuove forme organizzative della scuola. Se letta in maniera originale (e non funzionale a logiche mercatiste), la questione delle competenze può portare ad innovare didattiche che appaiono irrimediabilmente datate. E non si tratta, come alcuni potrebbero credere, di utilizzare supporti tecnologici e di trasformare i docenti in web-master, quanto piuttosto di capire che la trasformazione tecnologica in atto inevitabilmente modifica anche le strutture percettive e le modalità di apprendimento dei ragazzi, dei cosiddetti “nativi digitali” (come ben illustrato da Paolo Ferri nei suoi fondamentali lavori). Il docente dei prossimi anni dovrà avere una missione “socratica” utilizzando gli strumenti (soprattutto mentali) del XXI secolo. La sua missione non dovrà essere subordinata alla “costruzione” di lavoratori delle società post-industriali quanto piuttosto di “teste ben fatte”, capaci di pensiero critico, e cittadini attivi. Solo attraverso la conversione radicale delle didattiche, nella direzione della partecipazione attiva degli studenti, si potrà ottenere questo obiettivo. E da questo punto di vista la “scuola delle competenze” può essere uno sprone. Tutto sta a vivere questa transizione, anche correndo il rischio della schizofrenia, non “subendola” ma cavalcandola e indirizzandola verso l’iperuranio della paideia integrale, utilizzando sapientemente il cavallo bianco dell’eros.

Bibliografia

«Aut-Aut». La scuola impossibile, n. 358, maggio-giugno 2013.
P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, 2011.
M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, 2014.

(Apparso su «Le api ingegnose» del 2014)



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