Man mano che il libro scorre, il protagonista incomincia a essere assalito dai dubbi: “Due Euthymios combattevano da anni un’aspra contesa”, tra logos ed emozioni: questioni in cui confessa di sentirsi solo, quasi a rivendicare una sensibilità non comune a tutti.
La sensazione è che questo Euthymios sia troppo perfetto. Racconta di sé di essere umile, dubbioso, ma poi si compiace di com’è nelle frasi che annota, anche quando potrebbe scegliere il silenzio, evitare di sottolineare ogni suo piccolo gesto di bontà, fino alla bella morte, nobile ed estetizzante. Dialoga con Seneca, che gli chiede consigli. Riduce al silenzio Yeshua. Addirittura lo fa essere grato delle sue domande insidiose: “Io portavo un punto di vista altro. Una possibile risorsa che evidentemente mancava all’interno di quel ristretto numero di uomini e donne che credevano nel suo annunzio.” (p. 154) e gli fa ammettere di leggere pochi libri: “Io conosco solo pochi libri di cui mi nutro ogni giorno e dove credo di trovare tutte le risposte” (p. 164). Dal canto suo, si spinge a confessare di rimanerne deluso quando lo ritrova cambiato, non più inquieto cercatore di Dio ma profeta, ormai con i segni di “una follia incipiente”. Ipotizza, infine, che l’idea di proclamarsi Messia gliel’avesse suggerita proprio lui quando si erano conosciuti (p. 193). Non si può certo dire che Euthymios manchi di coraggio critico o di autonomia di pensiero: probabilmente l’assenza di timore reverenziale è finalizzata ad umanizzare la figura di Yeshua e a liberarlo dai tratti ieratici con cui si è abituati a immaginarlo.
Resta la prospettiva, che è dei romanzi storici, di chi già sa come finirà la storia rispetto ai personaggi di cui tratta e dunque si trova ad occupare una condizione di superiorità conoscitiva che gli deriva dal sapere ciò che avverrà mentre i suoi interlocutori non lo possono conoscere: ne consegue che queste figure sono immobilizzate nel loro presente, al contrario del protagonista, l’unico veramente vivo nelle proprie inquietudini.
Le domande che Euthymios si fa sono quelle di tutti noi: esiste un Dio, esiste un Altrove e se esiste conterrà solo le persone buone o anche quelle malvagie? Nerone ci sarà? Sì, ma in modo autoconsolatorio, risponde che sarà non il Nerone che ordinò a Seneca di suicidarsi ma il Nerone che rispettava il maestro. Il Nerone della devozione. Vuole crederlo, scrive che “Dio non custodisce gli uomini come sono ma come potevano essere” anche se appare come una bella speranza retorica. Gli uomini, una volta nati, non sono esattamente quelli che sono? Purificati ab aeterno delle loro debolezze e ridotti ad ideale astratto sono ancora loro?
Nella Nota al testo, l’autore si riconosce più che in una comunità di credenti in una comunità di speranti, in qualche modo richiamando la splendida invocazione di Giorgio Caproni: “Io prego non perché Dio esiste ma perché Dio esista”. D’altronde, quella su Dio non è una domanda ma la domanda! Euthymios, come Sguera, non riesce a risolvere l’opposizione tra Logos - ragione e spiritualità - divinità: pensa di averlo fatto aprendosi al mistero ma, in filosofia, quando si abbandona la ragione non si cede al misticismo? Checché se ne dica, il cristianesimo, se vuole avere vis speculativa, non può allontanarsi da Tommaso d’Aquino.
Importante è il riferimento a Carlo Maria Martini e alla cattedra dei non credenti che istituì nel 1987: “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa”. “L’importante – commenta Martini – è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora le vostre posizioni saranno veramente fondate”.
Il libro di Nicola Sguera attiva interrogativi, spinge a recuperare dolorose riflessioni come la confessione di ateismo di Schopenhauer quando sostiene che se Dio esistesse non vorrebbe esserlo: l’enorme miseria del mondo gli strazierebbe il cuore. O quello della chiosa finale di un film di Ermanno Olmi, Centochiodi, ripreso nel titolo di un libro di Liviana Perozzi, oltre che in un graffito ritrovato ad Auschwitz: “Se Dio esiste, dovrà chiedermi perdono”. Rispetta, soprattutto, la tesi implicita: capire se esista qualcosa, se questo qualcosa possa essere dimostrato dalla ragione o sentito con il cuore. E se esiste, come si configura? Sono le domande che tormentano ogni essere pensante.
Il Dio in cui si crede è quello che è, se è, o è quello che vogliamo noi? È una realtà o, come scriveva Kant, è un’esigenza della nostra mente? Il bisogno di qualcuno cui appigliarci, da pregare quando la disperazione ci toglie il respiro?
Ed è il Dio personalistico della tradizione ebraico-cristiana o l’energia che attraversa l’universo ma che non può ascoltarci, consolarci, miracolarci? Il Dio freddo e indifferente agli uomini di Aristotele o il Dio di amore cristiano? Troppe le domande disattese. E allora, nonostante la nostra intelligenza e la “volontà buona”, l’unica posizione filosofica da assumere nei suoi confronti rimane l’astensione dal giudizio. L’agnosticismo. Che, tuttavia, non è la risposta che Euthymios, medico, filosofo e scienziato dà. Ci prova ma deve arrendersi: riconoscerà che è nella morte la sintesi di tutte le sue contraddizioni.
Accettare il mistero e consegnarsi inconsapevoli a Dio è umano, l’ultimo baluardo alla nostra disperazione, ma è filosofico? E, soprattutto, fino a che punto siamo veramente disposti ad accettare il tormento intellettuale con il possibile, inquietante sguardo sull’abisso, che la filosofia ci prospetta?
Il romanzo di Nicola Sguera è prezioso soprattutto per la vitalità delle questioni che solleva, agevole nella lettura, impegnativo nella tesi. Assolutamente da leggere. Nonostante sia impegnativo, anzi, proprio perché è impegnativo. (2. Fine)
Teresa Simeone è docente di Storia e Filosofia, scrittrice.

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