venerdì 26 dicembre 2025

Antonio Martone su "Euthymios" (II parte) [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

Il senso come ricerca permanente


Nella tua presentazione biografica parli di una “ricerca che non avrà mai fine”. Euthymios incarna perfettamente questa consapevolezza: non offre risposte definitive, non approda a certezze dogmatiche, ma mantiene viva l’interrogazione. Quest’apertura al possibile, questo rifiuto della chiusura sistemica, è profondamente filosofica. Richiama Socrate e la sua docta ignorantia, ma anche quella tradizione del pensiero che, da Nietzsche a Heidegger, da Wittgenstein a Derrida, ha messo in questione ogni pretesa di fondamento ultimo.

Tuttavia - e qui sta la peculiarità del tuo progetto - questa anti-dogmaticità non sfocia nel nichilismo. C’è un’etica, c’è un impegno, c’è una direzione di senso. L’assenza di certezze assolute non significa rinuncia alla ricerca del bene, del giusto, del bello. Anzi: è proprio perché il senso non è dato una volta per tutte che occorre cercarlo instancabilmente, costruirlo insieme agli altri, incarnarlo nelle scelte concrete.


La dignità dell’umano come stella polare


Se c’è un filo rosso che attraversa tanto la tua biografia intellettuale quanto il percorso di Euthymios, questo è la ricerca della dignità dell’umano.

Quest’espressione merita di essere soppesata. “Dignità” non è qui un concetto giuridico astratto o un principio morale formale, ma quella pienezza di vita, quella fioritura dell’essere umano in tutte le sue dimensioni (corporea, intellettuale, spirituale, affettiva, politica) che i Greci chiamavano eudaimonia e che tu - non casualmente - hai scelto come radice del nome del protagonista: Euthymios, il “buon animo”, che vive con rettitudine.

La dignità non si conquista nella solitudine dell’io pensante cartesiano ma nell’intreccio con gli altri, nella responsabilità verso il mondo. Per questo Euthymios diventa resistente, sceglie di morire con gli oppressi piuttosto che godere dei privilegi della sua posizione (medico di Pilato).


Conclusione critica


Euthymios è una “rosa necessaria” per il nostro tempo: un libro che propone un modello di umanità integrale, capace di tenere insieme ragione e fede, tradizione e apertura, fedeltà e libertà.

In un’epoca segnata dagli “Hitler e i Bush”, come tu stesso scrivi citando Simone Weil, in un tempo di nuovi nazionalismi e fondamentalismi, di conflitti identitari e chiusure, la figura di questo medico greco che abbraccia la spiritualità ebraica, che diventa amico del Cristo, che muore per un popolo non suo, rappresenta un’utopia concreta: la possibilità di un’umanità finalmente riconciliata con sé stessa.

Anche da questo punto di vista, Nicola Sguera conferma di essere un intellettua-le nel senso più nobile del termine: non un professore chiuso nella torre d’avorio del sapere, ma un cercatore di senso che usa la scrittura per interrogare il presente e immaginare un futuro diverso, più umano, più giusto.

Proprio perché Euthymios propone una visione alta, esigente e controcorrente dell’umano, è opportuno interrogarsi anche sui suoi punti di tensione, su ciò che il romanzo lascia volutamente aperto o espone al rischio della critica. L’intento non è quello di indebolire la proposta, ma di assumerla fino in fondo nella sua complessità.

Una prima questione riguarda lo statuto della verità. La scelta di una spiritualità aperta, non dogmatica, trans-tradizionale, fondata sull’Amore e sulla ricerca incessante del senso, solleva inevitabilmente il problema dei criteri. Se la verità non è mai posseduta ma sempre cercata, se essa “abita molte case”, come evitare che la pluralità stessa si trasformi in indeterminatezza? Il rischio, almeno teorico, è che il dialogo tra tradizioni si regga più su una consonanza etica che su un reale confronto epistemico, lasciando irrisolta la domanda su ciò che consente di distinguere una ricerca autentica da una semplice preferenza soggettiva.

In secondo luogo, la sintesi greco-ebraico-cristiana che attraversa la figura di Euthymios, pur dichiaratamente non sincretica, può apparire a tratti armonizzante. Le grandi tradizioni che entrano in dialogo nel romanzo non sono solo portatrici di differenze complementari, ma anche di conflitti strutturali, di incompatibilità talvolta insanabili. La tensione tra logos e rivelazione, tra etica dell’alterità e onto-logia dell’essere, tra ragione filosofica e evento salvifico, rischia di essere attenuata in favore di una riconciliazione simbolica che, per alcuni lettori, potrebbe apparire troppo pacificata.

Dal punto di vista teologico, inoltre, la figura del Cristo che emerge dal romanzo - amico, maestro, rivelatore dell’Amore - può essere letta come una radicale riduzione etico-esistenziale del cristianesimo. In questa prospettiva, elementi centrali della fede cristiana tradizionale (Incarnazione, Redenzione, Risurrezione) sembrano arretrare a vantaggio di un umanesimo spirituale che potrebbe essere accusato di dire, in fondo, ciò che l’uomo direbbe anche senza Dio. È una scelta consapevole ma non priva di conseguenze teoriche.

Un ulteriore nodo critico riguarda il rapporto tra testimonianza e azione politica. La decisione finale di Euthymios di condividere il destino del popolo ebraico a Masada possiede una forza simbolica indiscutibile, ma solleva interrogativi sull’efficacia storica del sacrificio. Il rischio, qui, è quello di una possibile estetizzazione della testimonianza, in cui la purezza del gesto prevale sulla trasformazione concreta delle strutture di potere e di violenza.

Infine, si può interrogare l’antropologia sottesa al romanzo. Come già ricordato, Euthymios incarna una figura di umanità integrale, capace di tenere insieme cura dei corpi, ricerca del senso, amore, impegno politico e apertura spirituale. Questa figura, tuttavia, proprio nella sua coerenza e luminosità, può apparire come un ideale alto, forse difficilmente accessibile, che rischia di sottovalutare la dimensione oscura, conflittuale e talvolta irriducibile dell’umano: il negativo che non si lascia redimere e la violenza che non si lascia educare. In una parola: il male che non si lascia integrare in una sintesi armonica volta verso il bene.

E tuttavia, è proprio qui che Euthymios mostra la sua natura più autentica. Il romanzo assume il rischio della ricerca. Le criticità che ne emergono costituiscono il prezzo inevitabile di una proposta che rifiuta il dogma, il fondamentalismo e le certezze assolute. In questo senso, Euthymios invita a sostare nelle domande decisive e chiede soltanto confronto. Ed è forse in questa esposizione al rischio - teorico, etico, esistenziale - che risiede la sua più profonda onestà intellettuale [2. fine]


Antonio Martone insegna Filosofia politica presso l’Università di Salerno. 



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