Camillo Campolongo, uno degli attivisti storici dell’ecologismo
beneventano, che conobbi agli inizi degli anni Novanta nell’esperienza per me
fondamentale del «Quaderno», mi ha invitato per un breve intervento all’Earth
Hour di ieri sera. Il luogo era davvero suggestivo: un giardino interno all’antica
struttura delle suore Orsoline, da qualche anno passato all’Università. Nessuna
luce artificiale, se non una votiva per la Madonna, e candele, fiaccole. Insomma, il mio
sogno.
Ho letto e commentato un breve saggio contenuto in Pensiero
in sorgente (La natura ama nascondersi), che nacque come omaggio a Diodoro Cocca, carissimo collega scomparso in maniera tragica, cui il pubblico ha
tributato un doveroso applauso. E il caso ha voluto che ci fosse anche Anna, la
sua dolce consorte, con cui Diodoro si dedicava, nel CAI, ad escursioni e
passeggiate. E ho detto che tutti siamo chiamati ad una duplice azione: da una
parte modificare gli stili di vita rendendoli sempre più ecologici, dall’altra,
però, capire che senza una trasfigurazione complessiva dello sguardo sul mondo
(dunque del pensiero) nulla cambierà realmente. Abbiamo quanto mai bisogno di
un pensiero in sorgente e insorgente, soprattutto in un tempo dominato dalla “chiacchiera”
e dal “si dice”.
Ho letto, poi, tre brevi testi di Nel chiaro mondo. In uno
provavo a sillabare la coappartenenza di uomo, terra e cielo (quella che
definisco con parola complessa dimensione cosmoteandrica), nell’altro evocavo
il noce di San Cumano come magico strumento di comunicazione tra dimensione
terrena e dimensione celeste, foriera di epifanie stellari, nell’ultimo,
invece, ricordavo l’alluvione del 2015 come possibilità di una nuova alleanza
sul nostro territorio tra uomo e ambiente.
Urge un pensiero poetante, una poesia pensante, e che da
essi scaturisca un uomo integrale, “creaturale”, risanato nella sua radice “tecnica”,
capace di cura.
Il mio intervento è divisivo e immagino urticante per molti (all'interno dei seminari ANPI) perché volutamente politico e in un crinale della storia in cui abbiamo sperimentato quanto illusoria fosse la speranza (chiamiamola così) che essa fosse di per sé dotata di una razionalità capace di sintesi, quasi automaticamente, che il progresso lineare potesse garantire a tutti benessere e libertà. Che, insomma, fosse finito il conflitto, che polemos fosse il motore non della storia ma della preistoria che oramai era alle spalle. Il 2001 ha sepolto sotto le macerie delle Torri questa speranza, questa fola vana, prodotto di un errore teorico e pratico inescusabile, da cui pochi di noi sono esenti. La “grande recessione” del 2008 ha mostrato come il capitalismo fosse tutt’altro che retto da una miracolosa mano invisibile, la pandemia ha polarizzato conflitti e mostrato le crepe di una società fondata sul profitto privato, incapace di farsi pubblico benessere, la guerra ai confini dell’Europa ha dato il colpo di grazia all’illusione di una pacificazione globale, senza guerra (se non marginali e invisibili), dove tutti si sarebbero arricchiti. Insomma, non che la storia si fosse fermata: è che noi abbiamo voluto illuderci che così fosse e abbiamo plasmato strumenti teorici, soggetti politici e azioni coerenti con questa illusione. È suonata la sveglia. Cerchiamo di attrezzarci con nuovi strumenti all’altezza della sfida.
La mia è una lettura né dialettica né pacificatrice. Al limite, tragica. Fortini è uno sconfitto, rimosso. Non ci lascia alcuna eredità. O, meglio, se essa sopravvive, lo fa in maniera catacombale, presso una cerchia ristretta di adepti, senza alcuna incidenza sulla società e sulla società letteraria.
Per me è stata occasione di tornare “sul luogo del delitto” trent’anni dopo circa (nel 1990 iniziai a scrivere la tesi sull’opera poetica di Fortini, “impostami” dalla mia meravigliosa docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Biancamaria Frabotta, che avrei discusso nel dicembre 1991, e il correlatore era un vecchio antagonista di Fortini, Alberto Asor Rosa, mio professore di italiano).
E questo ritorno alle origini avviene dentro un percorso di recupero “adulto” di un bagaglio giovanile dettato dalle urgenze politiche del presente e del futuro, dal disastro che attraversiamo, nel trionfo apparentemente senza avversario di un neoliberismo quanto mai rapace e totalmente pervasivo nelle esistenze materiali e nelle coscienze. Personalmente dopo l’illusione e la disillusione “populista”, se volete, per utilizzare una categoria analizzata proprio qui due anni fa, di cui pure è necessario ereditare ampie componenti. Non per ritornare ad una categoria oramai per me inutilizzabile, quella di “sinistra”, nel suo continuo slittamento di significato, ma tornare a parole, cariche di contraddizioni, “tragiche”, ma esse sì portatrici di un significato, certo non univoco ma inquadrabile: per esempio, socialismo o, meglio, comunismo.
Per altro, mi rendo conto, appena uscito il mio secondo libro saggistico, che si è aperta una nuova fase di riflessione (me ne accorgo anche dalle mie reazioni anche rispetto alla guerra ucraina) che segna un nuovo transito tutto da esplorare. E credo che il recupero dell’opera di Fortini per me, “maestro” del tutto assente nei due libri che ho scritto, oserei dire “rimosso”, significhi tanto. Probabilmente, giunto anche ad una tappa di maturazione biografica, familiare, esistenziale, l’approdo ad un realismo che dismette ogni tentazione angelica, irenica, che c’è sempre stata nel fondo del mio animo, del mio carattere. È come se, mediata dalla riflessione su Eraclito, dalla breve ma intesa esperienza politica diretta, fosse finito il tempo di sognare, di auspicare. Dell’anelito che salva l’anima. Che sia venuto il tempo di accettare “il movimento reale” senza però cadere nel giustificazionismo dell’esistente, mettendo l’accento, dunque, non tanto sul “reale” ma sul “movimento”. Ma anche senza cedere alla (fortissima, credetemi) tentazione di credere che tale movimento prescinda dall’azione dei soggetti storici.
Sicuramente mi allontana da Fortini: l’incapacità di amare, di cui era perfettamente consapevole: «Ho saputo soltanto una parte, / ho inteso soltanto la vita che m’era nemica, / e non l’amore, che esiste».
Turbamento mi suscita il rapporto con la figlia adottiva Livia, convinta sionista, su cui è difficilissimo trovare materiale critico.
Quella di Fortini è la storia di una “rimozione”. Il PCI funzionava da “ortodossia” che rendeva possibile, secondo una celebre affermazione di Bloch”, le feconde “eresie” (tra cui quella fortiniana). Venuta giù la Chiesa, anche le eresie si sono dissolte, lasciando spazio ad una indistinta melassa liberal-riformista, rapidamente declinata in individualismo dei diritti, capitalismo ben temperato, gestione dell’esistente.
Questo è un invito, un “tolle, lege” articolato in quattro quadri: i nodi biografici, il Fortini poeta, il Fortini saggista, Fortini oggi.
Ho letto due testi a me cari: La gronda in versi e Il comunismo che, per ironia della sorte, venne rifiutato da «L’Unità» e pubblicato da «Cuore».
Invitato da Enzo Colarusso, come sempre padrone di casa mai banale, e duettando con Antonella Pepe, ho illustrato la mia posizione "non binaria" sulla vicenda ucraina, nella consapevolezza che si tratta di una svolta importante nella storia contemporanea per gli assetti geopolitici ed economici del pianeta, ricordando a me stesso che il primo dovere è la comprensione da esercitare nel mio ruolo di insegnante.
Alla fine, una breve puntata sul libro che sarà presentato il 4 aprile, con il Vescovo e Amerigo Ciervo.
«[…] quanto scrivo è
un contributo minimale alla consapevolezza di un processo in atto, annunziato
dai grandi poeti e dai grandi “illuminati” dei due secoli che abbiamo alle
spalle. Un processo apocalittico-rivelativo, che potrà portarci alla catastrofe
o alla salvezza. […]
Il libro è diviso in sezioni che accorpano gli ambiti di cui mi occupo
normalmente: la politica in connessione con la struttura profonda del cosmo
(che grecamente chiamo Logos); la
spiritualità che non teme di tenere dentro di sé una scheggia depurante di
ateismo; il rapporto tra Natura e Tecnica; la poesia e l’educazione. A chiudere
il libro due sezioni più personali, forse la maggiore novità rispetto al primo
libro: “Segnavia”, che raccoglie due testi dedicati al mondo animale e alla
paternità, con fitti riferimenti autobiografici, e “L’arte del transito”, una
serie di aforismi e riflessioni che coprono un arco di tempo almeno decennale».
Probabilmente sono già altrove.
E sono assai curioso di parlare con gli amici di questo libro perché nel
dialogo (me ne rendo sempre più conto) emergono delle scoperte che incubano a
lungo dentro di me, capaci di emergere solo nella tensione (polemica!) con la
parola altrui. Eppure, quanto necessario fermarmi per vedere il percorso alle
spalle! Sorrido pensando che quell’altro me che già sono divenuto in questi
anni (considerando in particolare il 2018 come una cesura esistenziale e
culturale decisiva) potrebbe polemizzare a lungo con l’autore di Pensiero in sorgente. E non so se questo
possa apparire segno di una fertile ricerca o schizofrenia. Però, a cinquantacinque
anni, non posso che accettarmi, cioè sapere che sono stato, sono e sarò sempre
questo perpetuo movimento, inquieto, alla ricerca del «punto fermo nel mondo
che svolta» (Eliot), sapendo che mai mi sarà dato raggiungerlo, perché non
esiste o, meglio, esso stesso (che è Dio) è mobile, è in divenire, con me, con
il cosmo, con la storia.
«[...] Quello che state per leggere è un libro importante e impegnativo. Esso si collega, e non solo idealmente, al saggio che Nicola produsse qualche decennio fa, In quieta ricerca. I titoli di Sguera potrebbero, a prima vista, apparire divertenti costruzioni linguistiche, mirabolanti giochi di parole o vezzi innocenti di chi le parole le ama e le coltiva, con impegno e rigore, per épater le bourgeois. In realtà essi esprimono veri e propri programmi di lavoro. Delle autentiche dichiarazioni d’intenti. Ci augureremmo che la ricerca si manifesti, nel suo farsi, serena, tranquilla, quieta. In realtà, essa è dura, affannosa, talvolta tragica e, dunque, “inquieta”. Alla stessa maniera Pensiero in sorgente: mentre si tenta di cogliere e bloccare il pensiero nel suo arché, perché possa prenderci per mano, come la dea fa con Parmenide, e condurci sulla via della verità, esso “insorge” contro il lunghissimo percorso di quell’avventura che, partita dalla meravigliosa Elea, e giunta, alfine, all’Idea eterna, che “si attiva, si produce e gode di se stessa eternamente come Spirito assoluto”, minandone radicalmente, anche con l’utilizzo della dinamite nietzschiana, i pilastri più profondi.
Il libro è importante perché Sguera vi ricostruisce, con una cura e un’attenzione che sfiora l’acribia, il “suo” percorso dell’in-sorgenza, schierando in campo aperto un esercito di pensatori a lui cari e, per tanti versi, a lui affini. Si parte dal grande antagonista di Parmenide, l’efesino Eraclito, filosofo straordinario, che andrebbe finalmente – e Sguera lo fa - affrancato dalla formuletta, ripetuta, a mo’ di mantra, del panta rei. E si finisce, ovviamente, con Heidegger, il grande amore, sulla cui vita non esemplare e sulle cui gravissime scelte, divenute ancora più pesanti con la lettura dei famosi Quaderni neri, Nicola non tace. Con un’innocente contraddizione, però, e neppure troppo coperta. Sguera ha sempre sostenuto, e ancora sostiene, nei suoi interventi, - e, personalmente, concordo con lui - che un’orto-teoria non dovrebbe mai staccarsi da un’orto-prassi, che tra lectio e mores non dovrebbe mai insinuarsi nessuna contraddizione.
Ho sempre guardato con stupore agli autori (poeti,
romanzieri, filosofi) capaci di scrivere migliaia di pagine. Io non ne sono
capace. La mia è sempre (sia in prosa sia in poesia) una scrittura “d’occasione”
(che nulla ha a che fare con l’ispirazione). Per questo, a 55 anni, malgrado i
primi esperimenti di scrittura “creativa” siano abbastanza precoci, ho
partorito due piccoli libri in versi e due raccolte di saggi e articoli. E Pensiero in sorgente, appena pubblicato
e che non ho neanche il coraggio di sfogliare, per paura di trovarvi refusi e
clamorosi errori (anche concettuali), esce, complice la pandemia, giusto a
dieci anni da In quieta ricerca.
Mi piacerebbe discuterne in pubblico. Se Dio vuole, si
inizierà ad aprile.
Il libro è dedicato all’amico con cui ho vissuto un pezzo di
vita decisivo, condividendo tutto, in un rapporto “assoluto”. Abbiamo, con
Luca, scoperto il mondo insieme. E insieme abbiamo forgiato gli strumenti
intellettuali con i quali lo avremo interpretato.
Malgrado la lontananza (Luca insegna a Potenza e lì vive
oramai da molti anni), soprattutto in questo periodo delle nostre vite, lo
sento vicino come non mai.
Credo che l’amicizia sia una delle cose per cui la vita sia
degna d’essere vissuta. Soprattutto le amicizie fedeli nel tempo, soprattutto
in un tempo (reo!) “liquido” che pare rapinosamente portare via tutto con sé
Ma tutto questo cosa mai avrà a che fare con il pensiero di
cui parla il titolo del libro? Chi lo leggerà vi troverà (con tutte le
contraddizioni possibili anche clamorose) l’aspirazione ad un pensiero
incarnato. E la scelta della parola non è casuale. Martin Heidegger (proprio
una di queste lampanti contraddizioni!) in uno scritto della sua vecchiaia
auspicava l’avvento di un pensiero che trascendesse la “filosofia”. E, dunque,
come potrebbe l’amicizia fedele non essere parte integrante di un progetto che
è di pensiero in quanto è di vita nella sua interezza? Io penso nell’amicizia
di Luca (e di Stefano e di Tullio e di tanti altri). Io penso nell’amore di e
per mia figlia e mia moglie. Io penso nella mia quotidianità fatta del lavoro
scolastico, delle incombenze prosaiche, delle preoccupazioni. Non un pensiero “aereo”,
al contrario. E, dunque, penso meglio se sono nell’amicizia e nell’amore, nella
relazione e negli affanni operosi dei giorni. Per questo ogni mio libro sarà prima
di tutto un modo per rendere la mia vita migliore, più amicale, più amorosa,
più relazionale. E di questo, dunque, ringrazio Luca e l’“altro” da me che mi
costringe (dolce/mente) ad uscire fuori dal mio ego perché accada… un incontro.