La filosofia sta dando un contributo alla comprensione della “emergenza” in atto (prima di tutto perché, in alcune sue frange, problematizza il concetto stesso di “emergenza”).
Ha fatto molto discutere un intervento di Giorgio Agamben, considerato unanimemente uno dei massimi pensatori italiani viventi. Presupponendo la conoscenza della sua opera, complessa, a volte ardua, e il contributo in particolare di Michel Foucault, Agamben sostanzialmente afferma che un’epidemia abbastanza usuale viene utilizzata per inasprire ulteriormente il controllo e il disciplinamento sociale.
A stretto giro, ad Agamben ha risposto un altro pezzo da novanta del mondo filosofico occidentale, Jean Luc Nancy, che in maniera amicale, finanche ironica, e ribadendo stima per il collega con cui ha lavorato spesso, ne mette in discussione l’assunto.
La polemica è arrivata anche nel mondo social, dove ancor oggi ci sono due schieramenti, l’un contro l’altro armati, secondo prassi italica: da una parte chi ritiene quanto sta accadendo poco più di un’influenza ingigantita o per interessi ancora occulti o per insipienza dei decisori politici, dall’altra chi, invece, ritiene che ci si trovi di fronte ad un evento nuovo, dai confini ancora incerti e con un impatto molto forte sulla società e l’economia.
Io, che pure all’inizio ero decisamente sulla prima posizione, nel procedere dei giorni, mi sono convinto, leggendo e ascoltando, che l’epidemia in atto non vada sottovalutata e che, dunque, le misure precauzionali siano giuste (forse addirittura tardive).
Di qui è nato l’appello ad un armistizio politico su scala locale tra le forze politiche per gestire un’emergenza che mi pare non solo (qui da noi ancora per fortuna potenzialmente) sanitaria ma innanzitutto “comunitaria”.
La crisi di molti settori dell’economia e la chiusura delle scuole richiedono il contributo di ciascuno di noi. Ho ritenuto doveroso segnalare, da cittadino, questo “dovere” soprattutto da parte di chi riveste incarichi istituzionali.
L'appello ha suscitato consensi e critiche, come naturale che fosse.
Pierino Mancini, amico di vecchia data, con cui abbiamo condiviso tanto in passato (a partire da Rifondazione Comunista), è intervenuto, evocando Foucault e invitando ad una sua rilettura, per criticare questo “invito” con parole dure e forti.
Le capisco e le giustifico. Ciò nonostante rivendico e ribadisco quanto detto.
Voglio dirlo esplicitamente: credo che Agamben, autore per me determinante (di cui ho letto pochi mesi fa Altissima povertà, come sempre con beneficio) abbia preso una gigantesca cantonata. È vero che, come dice Nietzsche, «per gli errori dei grandi uomini occorre avere rispetto perché sono più fecondi delle verità dei piccoli», ma è anche vero che gli errori dei grandi uomini sono anch’essi… grandi!
Foucault prese un abbaglio colossale rispetto alla rivoluzione iraniana per la quale provò infatuazione. Questo non inficia l’importanza dei suoi contributi per la comprensione della società moderna e contemporanea.
Nancy chiude il suo breve intervento così:
«Ho ricordato che Giorgio è un vecchio amico. Mi spiace tirare in ballo un ricordo personale, ma non mi allontano, in fondo, da un registro di riflessione generale. Quasi trent’anni fa, i medici hanno giudicato che dovessi sottopormi a un trapianto di cuore. Giorgio fu una delle poche persone che mi consigliò di non ascoltarli. Se avessi seguito il suo consiglio probabilmente sarei morto ben presto. Ci si può sbagliare. Giorgio resta uno spirito di una finezza e una gentilezza che si possono definire – senza alcuna ironia – eccezionali».
Da uomo delle istituzioni, di una scuola che sta cercando con fatica di continuare a svolgere il suo ruolo senza la possibilità della “vera presenza”, ripeto con Nancy che forse, se seguissimo la tesi di Agamben, tra breve avremmo migliaia di morti, ospedali al collasso, il tessuto economico e sociale distrutto. E lo dico anche al mio amico Pierino. Non credo, per citarlo, di aver «perso i lumi della ragione» né chiedo «di rinunciare alla critica e all’iniziativa politica per acconsentire agli interessati tentativi di disciplinare la nostra comunità». Al contrario, sto cercando di utilizzare la ragione per capire quanto accade, evitando di sovrapporre una lettura tutta ideologica agli accadimenti (per questo la mia posizione è mutata nel corso dei giorni). E credo che l’esercizio autonomo della ragione sia anche il miglior antidoto al disciplinamento.
Non so quando sarà finita chi avrà avuto ragione. Se avrò avuto torto, per quanto conti, riconoscerò il mio errore.
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