Al fondo del pensiero “in sorgente” di Nicola Sguera, si può intravedere il tentativo costante di lavorare a un’opera di connessione tra due elementi in tensione coesistente tra loro: la poesia e la filosofia. Nicola Sguera insegna dal 2001 storia e filosofia nei licei, ma è profondamente legato all’universo della letteratura e della poesia contemporanea, fin dai tempi in cui si laurea in lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi su Franco Fortini.
Il testo che presentiamo in
questa sede, oggi, raccoglie in maniera libera pensieri, analisi, confessioni,
riflessioni più o meno brevi. Si tratta di un lavoro autobiografico,
introspettivo: ogni passo di questo libro racconta del suo autore, della sua
personalità, del suo multiforme ingegno di uomo di cultura e di lettere, del
pluriverso di interessi che ha maturato nel corso della sua esistenza. Ci narra
dell’irresistibile spinta che guida l’autore a immergersi nella profondità
delle questioni che affronta, per portarne alla luce gli elementi vivi,
pulsanti con un’urgenza che dal piano personale si riverbera su quello
comunitario e collettivo, generando una risonanza di pensiero che si moltiplica
tra la dimensione individuale e quella condivisa.
Teresa Simeone ha scritto di
questo testo leggendo tra le sue righe un costante, spietato attacco alla
filosofia, in cui l’autore non perderebbe l’occasione, “da Talete a Platone, da
Cartesio a Bacone, arrivando all’illuminismo e all’idealismo, di considerarli i
responsabili del male nel mondo, di aver creato la metafisica, aver gettato le
basi di un prometeismo tracotante e pericoloso e di aver consentito un
progresso che confligge con la sua visione naturocentrica.”[1]
Eppure, l’analisi di Nicola a mio
modo di vedere precede non per antinomie, ma seguendo un pensiero in cui
convivono, in maniera talvolta irrimediabilmente conflittuale, in una tensione
costante che è produttiva, elementi differenti: l’umano e il non umano, la
natura e la cultura[2],
la poesia e la filosofia. Elementi che sono sempre già implicati l’uno
nell’altro, inseparabilmente coesistenti. Quando questa ‘coesistenza’ si
configura in maniera conflittuale, sembrano emergere tra le pieghe della
scrittura delle zone ‘grigie’, ‘oscure’, per parafrasare il concetto
ecosistemico di “dark ecology” introdotto da Timothy Morton[3],
generate da una serie di attriti epistemologici e ontologici tra opposti, che
finiscono per mettere produttivamente in discussione ciascuno di essi. Questo
processo trova passaggi illuminanti in queste pagine, come quando Nicola
scrive:
Oggi ci troviamo nel momento del
massimo pericolo, quando si decide della perdizione dell’umanità o della sua
possibile salvezza. Le menti più illuminate del XX secolo hanno percepito
questa sfida epocale e ci hanno dato gli strumenti per vincerla, rimettendo in
discussione i miti fondanti della modernità (il progresso illimitato, il
dominio tecnico della realtà). [...] La Natura non può essere, come troppo
spesso accade, il sogno di una Wilderness (terra selvaggia) incontaminata, che
rischia di diventare un’insana utopia.[4]
È un processo, questo, alimentato
da un filosofare che procede per giustapposizione di immagini - la “luce” dei
volti cari, le foto dei defunti e l’estetica cimiteriale, le visioni
cinematografiche come quella di Blade Runner, a proposito della profonda
critica alla tecnoscienza - per interrogarsi su questioni esistenziali
irrisolte, per aprire squarci profondi nella coscienza di una ricerca che si fa
cognizione del dolore, specie nelle pagine dedicate al rapporto con il padre,
alla relazione irrisolta con gli aneliti religiosi, all’amara constatazione che
lo studio di Platone, Cartesio, Bacone, Hegel innesca un meccanismo
razionalistico che, più che restituire il senso di una visione disincantata e
serena della realtà, serve a decostruire le proprie certezze alimentando quella
condizione di strenua inertia, come
scriveva Orazio, e cioè un’inquietudine esistenziale, la propria.
Questa irrequietezza si
costruisce sul crinale di un utopico eppure invocato riequilibrio nei rapporti
tra uomo e natura, tra spiritualismo e scienza, tra filosofia e politica. In
questi frangenti, la scrittura di Nicola Sguera si propone come un dispositivo
che catalizza punti di ascolto profondo, sui quali costruire e immaginare
ulteriori approdi linguistici, di pensiero, di senso. È un riequilibrio che
passa anche attraverso la messa in discussione del primato della visione
sull’udito, in un rapporto sensoriale con il mondo che possa preludere a un
nuovo rapporto anche con il sapere, seguendo il fil rouge della critica alla metafisica post-socratica di matrice
visualistica intessuto dall’analisi heideggeriana.
Si deve dunque tornare al silenzio e,
dunque, all’ascolto. L’aspetto più importante è che il primato della visione
porta necessariamente alla deriva antropocentrica che poi è ciò che Heidegger
chiama “oblio dell’essere” [...] Avviarsi sulla strada della guarigione
significa, allora, anche mettere in crisi, nella pratica quotidiana, il primato
della visione [...] e ripristinare il primato ebraico dell’ascolto.[5]
Perché la poesia possa farsi atto
di affermazione o di ribellione, è inevitabile che si innervi della componente
filosofica, diventando essa stessa un pensiero poetante, una poesia pensante,
in cui la dialettica, il rigore logico, il procedimento teoretico e speculativo
si dispongono in tensione elastica e coesistente con la suggestione,
l’evocazione, la scomposizione delle parole e il loro aprirsi a una pura
dimensione lirica in senso pienamente heideggeriano. Quella di Heidegger è una presenza
immanente, nelle pagine di questo libro: l’incontro e il confronto con il
filosofo tedesco e con la sua “kehre”, la sua svolta, è per l’autore un nodo
ineludibile, a partire dalla questione dell’essere nel suo rapporto con il
linguaggio.
Se Heidegger ha scritto che
"la poesia è negata come sterile nostalgia, svolazzante nell'irreale, e
rifiutata come fuga in un sogno sentimentale [...] la poesia non può che
apparire come letteratura"[6], la mia
sensazione è che Nicola abbia tenuto bene in mente, scrivendo questo libro, la
messa in evidenza di una dimensione post-metafisica del linguaggio, in cui
esso, da elemento dichiarativo o assertivo, diventa innesco rivelativo. La
poesia è poiesis, nel senso erodoteo
del termine, e cioè un atto fondato sul creare, produrre poesia portando alla
luce ciò che è nascosto. Per giungere, parafrasando ancora le parole del
filosofo tedesco in “Che cos’è la metafisica”, ad affermare che mentre il
pensatore dice di esserlo il poeta invece dice il “sacro”[7].
Abbandonare l’umanismo,
l’antropocentrismo, restituisce all’uomo un compito grande. Perché, e anche in
questo sono debitore ad Heidegger, resto convinto della differenza “ontologica”
dell’uomo, per me testimoniata non dalla ragione o dal linguaggio bensì dalla
capacità, credo di poter dire senza tema di smentita unica, di trascendere le
leggi del mondo, la “pesantezza” la chiamava Simone Weil, in virtù della
“grazia”. È per questo che noi siamo “custodi”, “pastori”.[8]
Nel suo rimestare continuo e
irrequieto, nel suo flusso di coscienza legato alle fasi dell’esistenza vissute
nel posizionarsi come padre, docente, figlio, semplice osservatore o viandante,
Nicola trova la ragion d’essere delle sue riflessioni in una serie di temi che
tornano costantemente e che tendono a mettere in discussione l’assolutismo
antropocentrico di una visione appiattita sulla tecnocrazia e sulle leopardiane
‘magnifiche sorti e progressive’. Così vengono in evidenza l’uno dopo l’altro,
o sovrapponendosi, riflessioni sull’anti-umanesimo, l’anti-progressismo, la
democrazia diretta, la scuola, la tecnocrazia, il veganesimo, ora attraverso lo
scandaglio critico-filosofico ora risalendo la corrente della memoria, talora
rileggendo i racconti letterari dell’antichità in chiave mitopoietica, come nel
racconto di sapore esiodeo su Epimeteo e Prometeo.
In questo fluttuare tra oggetti,
storie, ricordi, paesaggi, la scrittura di Nicola Sguera sembra affidare a noi
lettori, in ultima istanza, l’urgenza di una questione ineludibile, definitiva:
un’interrogazione meravigliata sul permanere della poesia nel nostro mondo,
nonostante tutto. E tutto questo può avvenire, ci pare di avvertire nelle
parole dell’autore, ricollegandoci al presente attraverso un viaggio a ritroso
verso il passato non perché gli antichi semplicemente sono un valore o perché
ci offrono un insegnamento, ma perché è nella tradizione che gli antichi hanno
costituito nei secoli che risiedono le ragioni e le forze che, come ha scritto
Gian Mario Villalta in un recente illuminante saggio[9]
“hanno opposto il perdurare all’effimero, ciò che rinnova la creazione a ciò
che la oblitera in una vuota rincorsa verso l’etichettatura dell’istante. Il
nostro tempo ha insidiato e pervertito il senso dell’effimero e di ciò che
dura”[10].
Proprio per questo occorre cercare
“quel sostare inquieto che interroga il sentire e ridà voce al corpo, al
percepire la nostra più vera collocazione sul lembo di terra che calchiamo, al
pensare dentro le corrispondenze che ci legano a tutte le forme dell’esistere”[11].
Introduzione a “Pensiero in sorgente”, in occasione della presentazione del testo tenutasi a San Martino Valle Caudina (AV) il 02/11/2022.
[1] https://www.ilvaglio.it/article/15305/riflessioni-analisi-e-confessioni-nel-pensiero-in-sorgente-presentato-il-libro-di-nicola-s.html
[2] Bruno Latour,
"Non siamo mai stati moderni. Saggio d'antropologia simmetrica", ed.
Elèuthera, 2009.
[3] Nicola Sguera,
“Il Pensiero Insorgente”, p. 72.
[4] Nicola Sguera,
op. cit., pagg. 135-136.
[6] Martin
Heidegger, “Che cos’è la metafisica? e altri scritti”, ed. goWare, 2018. A cura
di F. Sollazzo.
[7] Nicola Sguera,
op. cit, pag. 30.
[9] Ivi.
[10] Gian Mario
Villalta, "La poesia, ancora?", ed. Mimesis, 2021.
[11] Timothy Morton,
“Dark Ecology”, Columbia University Press, 2016.
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