Qualche settimana fa (il 18 gennaio al Mulino Pacifico), ho presentato alla città il mio secondo libro di poesie. Come spiego nell’Introduzione, era nato come oasi nell’arido (per quanto entusiasmante) mondo della politica. L’ho presentato quasi un anno dopo la sua uscita, in un contesto in cui, venuto meno quell’impegno per impegni sovraderminati con la mia coscienza, famiglia, scuola, poesia sono ridivenuti centrali nel tempo dedicatovi.
Qui di seguito le cose che ho detto in una serata emotivamente densa per me, riscaldato da respiri amici, empatici.
Grazie a chi ha voluto dedicare una riflessione a quella serata (Elide Apice, Antonio Esposito). Particolarmente articolata quella di Alessio Zarro Ievolella.
* * *
«Al centro della poesia, un contraddittore t’aspetta.
È il tuo sovrano.
Lotta lealmente contro di lui» (René Char).
Il Mulino Pacifico è un luogo raccolto, in cui è possibile creare la confidenza necessaria all’accadimento poetico. Grazie a Michelangelo Fetto e Tonino Intorcia per avermi ospitato stasera.
In questo anno quasi passato dalla pubblicazione del libro, ho pensato a tanti modi diversi di presentarlo.
Ricorrente, come nel caso di quando feci in occasione di Per aspera nell’ottobre del 2014, il ricorso alla musica, misteriosa forma del tempo, come la definisce Borges ne Altra poesia dei doni.
Poi ho pensato che mi sarebbe piaciuto, invece, invocare una Musa e nello stesso tempo esortare i presenti, ben al di là del mio libro, alla poesia.
E allora ecco l’illuminazione da cui partiremo. La voce di un grande poeta, il testo che potete seguire, la bellissima traduzione di Giorgio Caproni, la copertina del libro appena uscito che ripubblica quanto uscito nel 1962 con Feltrinelli. Muse e guide. Quale miglior viatico del poeta che più guida non solo la mia scrittura ma la vita stessa? Pensiero poetante in azione, in sorgente, nella duplice accezione. E poi Caproni, altro grande maestro della mia Bildung...
Io sono un piccolo poeta di provincia, in linea con il mio essere uomo di provincia, essere stato politico di provincia. E, badate, lo dico senza alcuna falsa modestia e diminutio. Ho bisogno di conoscere le persone a cui parlo. Nella mia mente, quando penso, ci sono persone in carne ed ossa, portatori di visioni “altre” del mondo. E potrei fare dei nomi: da Amerigo Ciervo a Giancristiano Desiderio, da Antonio Furno a Nicola Savoia. E anche quando scrivo lo faccio pensando che sarò letto da persone che conosco, che appartengono al mio piccolo mondo. Anche per questo volevo questo raccoglimento. Anzi, avevo addirittura pensato di invitare piccoli gruppi a San Cumano, rinverdendo lo spirito della “rosa necessaria”, agli inizi degli anni Novanta. Ora che le energie investite nella politica sono di nuovo libere non è detto che non accada.
Com’è nato il libro? Incontro casuale con Anna Rita Margio. Piantavamo alberi. Volontà di creare una parentesi nell’impegno politico, raccogliendo quanto scritto dopo Per aspera, uscito nel 2013. Poi la vita è andata altrove: ho perso una persona carissima, è finita la mia esperienza politica. La poesia è tornata prepotentemente al centro del mio percorso esistenziale.
In copertina troverete una foto scattata in una mattina brumosa. È il viale che porta nella mia casa di campagna, a San Cumano, cui è dedicato il libriccino. Strano. Ma quel luogo dell’anima è per me dimora di trapassati: di mia madre, in particolare, e di Maria, la donna che che ha accudito amorevolmente me e le mie sorelle da sempre, rimanendo con noi fino alla fine. Li immagino come numi tutelari di quel luogo magico.
Il titolo del libro è un verso dantesco, fortemente antifrastico:
«Lo duca e io per quel cammino ascoso,
intrammo a ritornar nel chiaro mondo».
E poco dopo c’erano le stelle riviste in Dante, quelle non non hanno seguito le “asperità” che davano il titolo alla mia prima racconta. Il mondo mi appare, man mano che invecchio, tutt’altro che chiaro, esattamente con il paesaggio agreste della copertina. Bello e difficile da decifrare.
La bellissima epigrafe mi è stata suggerita ancora da Anna Rita. Evoca, con le parole delle Dickinson, anche in questo caso, le stelle cui alludeva il titolo della prima raccolta, Per aspera, astra ancora attese con speranza, ultima dea.
La nostra parte di notte portare –
La nostra parte di mattino –
Il nostro spazio con la beatitudine riempire
Il nostro spazio con il disprezzo –
Qui una stella, e là una stella,
Alcuni smarriscono la via!
Qui una nebbia, e là una nebbia,
Subito dopo - il Giorno!
Seguono una prefazione ed una presentazione. La prima di Marco Guzzi, tra i miei maestri il maggiore, l’altra di Luca Rando, che definire amico, come sa bene chi mi conosce, è poco, e della cui lontananza da Benevento non smetterò mai di dolermi, malgrado la gioia per sua realizzazione professionale e familiare. È interessante che queste due riflessioni sul libro apparentemente collidano. Marco pone l’accento sull’aspetto storico-eonico, per così dire, collocando i miei versi un processo apocalittico-rivelativo. Parole grosse. Luca lo incardina e lo spiega a partire dal dato biografico-familiare. Eppure credo che le due letture siano complementari. Un poeta, anche piccolo come me, ha l’ambizione di credere che la sua biografia sia speculum di “destini generali”.
Il libro è strutturato in 5 sezioni e un congedo. Ritengo che la poesia contemporanea (che a mio avviso inizia con I fiori del male) sia costituita da libri pensati come tali (a partire dal titolo). Tutte le sezioni hanno un titolo in latino (così come abbondano parole greche nei testi). Immagino che sia il mio lavoro nel Classico ad aver accentuato questo amore profondo per lingue morte e suggestive, lingue “magiche” in qualche modo, che dischiudono porte.
“Pro nobis”, la prima sezione, raccoglie testi “di preghiera”, che testimoniano lo stadio attuale della mia fede che è essenzialmente speranza e aspira ad essere soprattutto carità, una fede che intreccia suggestioni eraclitee e la grande mistica cristiana e non.
Arco e lira
Alla pace ineffabile non anelo
in questa vita. Guarisco per crisi,
rivoluzioni e scontri permanenti
campali di cellule e batteri.
Che il conflitto sia.
Forze in tensione.
Cavalco una potenza buona e vitale.
Genero con l’arco e la lira.
Dove spero sia evidente il debito enorme che ho, mediato da Char, nei confronti dell’oscuro pensatore efesino, pensatore definito “aurorale” da Martin Heidegger. L’arco e la lira simboleggiano la tensione armonica, la concordia discors che produce un’ἁρμονίη ἀφανὴς su cui si regge l’universo e che ho imparato a sperimentare nella mia esistenza.
A San Cumano mi capita spesso di leggere e scrivere a lume di candela, con la campagna che dischiude innanzi a me le sue ombre benevole. Una sera decine di piccole farfalle si sono immolate al fuoco della candela.
Falene nella notte.
Falene nella notte.
Nelle mie poesie, è evidente, ritornano, spesso anche inconsciamente in fase di scrittura, echi di tutta la bellezza di cui mi sono nutrito, come in questo caso alcune memorabili scene dei film di Tarkovskij o il Montale maggiore delle prime tre raccolte, decisive nel mio processo di formazione poetica. E il fuoco è certo il Logos/Πῦρ eracliteo, ma anche lo Spirito Santo, il Fuoco dei Veda di cui parla spesso Aurobindo.
A chi conobbi nella musica
A chi conobbi nella musica
La sezione è chiusa da una riflessione (che eccezionalmente tenta il verso lungo o lunghissimo) sui miei morti, a partire dal mio piccolo rituale di raccogliere nel cassetto della scrivania dove lavoro, accanto alla polvere dei fiori che accompagnarono mia madre al suo funerale, tutti i santini delle persone care. Il confronto con la morte, oserei dire vittorioso, è un tema tra i più presenti in ciò che scrivo. Essa solo, come mi ha insegnato Heidegger, rende la nostra esistenza “autentica”.
Un cassetto accoglie, accanto a polvere di lutto,
ricordini di chi conobbi e non c’è più. Il sacrario si infoltisce
di volti noti. Nobili epigrafi certificano un’assenza difficile a credersi,
tanto le loro movenze, i sorrisi, gli sguardi sono incisi in me.
Se li mettessi in fila, come figurine della mia infanzia,
tutta intera scorrerebbe la mia vita dalla culla ad oggi.
Io sono tutti i morti che dormono nel mio cassetto,
vegliano su opere e giorni, silenti, nell’attesa d’essere
anch’io una foto imprecisa, una frase scolpita nel tempo.
Filiae matrique raccoglie, invece, le poesie dedicate alle due Caterine, mia figlia e mia madre, per me intrecciate. Talvolta sogno d’essere, dunque, il padre di mia madre. O il figlio di mia figlia...
Con il seme ti diedi la joie de vivre,
eredità materna, il canto che satura
il silenzio, sutura ferite dell’anima.
La coltivai cullandoti fino a sfinirmi,
tra nenie e sussurri. Ma, ricorda,
della mia stirpe, la tua, la malinconia,
ospite dei giorni amari, senza senso
né meta. Accettala: nel volto suo triste
impara a vedere l’imago della pienezza,
il passo indietro necessario
per slanciarti alla conquista del mondo intero.
Pater.
Pietre.
Chi sa quando intagliate.
Nella terra, che ignaro percorsi.
Sotto il manto.
Di stelle silenti.
Veglia. La quercia.
Dimora che sola è mia.
Ascolto.
Il vento.
Rimodula lieve il pensiero a pietà.
Lontana la città,
cui pure appartengo.
Pietra.
Grano.
Quercia.
Stelle.
Sono. Benevoli cenni al mio domandare.
Ho cercato in questi anni di sanare il rapporto spesso conflittuale città/campagna, tenere entrambi i poli dentro la mia quotidianità. Non so se ci sono riuscito. Certo l’esperienza, pur breve, di amministratore, mi ha aiutato a non vivere la campagna come una fuga.
L’ombra del noce, la sua frescura donata
nei giorni più arsi dell’anno, quando il cuore
brucia rivivendo il suo scacco. Quest’albero,
cresciuto su terra nutrita dai morti,
mi offre rifugio dal tempo. Qui sento
che passato e futuro si fondono,
ogni attimo, ogni attesa divenendo καιρός.
Il noce è corteccia, ramo, foglia, frutto offerto
agli avidi denti del mio cane. Mi specchio,
nella sintesi mirabile, io,
frantumato, scisso, lacerato, ambisco
alla sua dedizione, salda in sé stessa
eppure generosa.
Ti ringrazio per l’ombra diurna,
per il riparo che mi offri
quando troppo cielo pesa sulle mie paure.
Qui si schiudono porte per nuovi inizi,
epifanie terrestri, nutrite da linfe stellari.
Il noce stellare è l’albero che campeggia nel cortile di San Cumano, piantato quando mia madre era ancora viva (e spesso, dopo la sua scomparsa, sognavo che la sua tomba fosse lì sotto). Il kairòs evocato è il tempo opportuno dei Greci, quell’attimo in cui la mistica e la poesia potrebbero insegnarci ad insediarci affinché ogni attimo, per citare Nietzsche, sia l’inizio dell’essere.
“Historia experimentalis” suggerisce un’idea di vita: un esperimento appunto che costruisce giorno dopo giorno una storia, senza un telos, un disegno, uno scopo precostituito. Qui tutti i temi e i luoghi e le persone a me care tornano, intrecciandosi tra loro.
Per esempio, ancora, il divino esperito nei volti delle persone che incontro e non in una trascendenza tentatrice e, dunque, luciferina...
Questa poesia evoca il Mosè del Sinai che scende e trova il vitello d’oro, il culto idolatrico. La considero una buona poesia per quanto incompiuta formalmente.
Descendens de monte...
Pregavo nelle veglie notturne,
illuso che qualcuno ascoltasse.
E invece non era Nessuno.
Ringraziavo per i doni
del giorno, per il pane e la luna.
Invano.
Dio morto.
Per fortuna.
Era un altro fantasma,
un feticcio della mia fantasia
di bambino pauroso.
Benedico, ora, ogni cosa:
non solo, come ovvio, una rosa
sul giardino di casa ma il dolore
degli arti, i rovesci del tempo,
mia moglie e i suoi affanni.
Volti e cose, la loro imperfetta
bellezza, sono il “tu” cui aspiravo.
Dio risorge. Non altro
dalla fatica gioiosa d’esistere.
Non fuggo. Abito
l’attimo, la sua compiutezza.
Ascolto il fluire del sangue
nelle vene, assaporo, insonne,
mia figlia che dorme, quieta.
Il vento è presenza costante nelle cose scrivo. Quando ero molto giovane amavo distendermi sui balconi di San Cumano, di sera, con un plaid, ed ascoltarne la voce. L’ho sempre considerato messaggero. A me l'onere di interpretare... Il “tu” di questi versi è il Dio sconosciuto che prego in questi anni. Più una speranza, come amo ripetere, che una fede. Ma ritengo che l'asse portante della mia spiritualità resti la benedizione: il dire-bene, il ringraziare per quanto abbiamo avuto in dono (il che non esclude, al contrario, la sofferenza).
Il vento, ancora
«... nell’originario dominio della potenza dell’essere»
Martin Heidegger
Il vento, ancora.
La sua potenza
rigenerante.
Cercavo, un tempo, di decifrarne
moniti e messaggi. Ora,
tra basilico e menta,
m’abbandono: che trascorra
in me come tra foglie.
Parole intramate siano il canto-vento.
Io esposto.
Io deposto.
So che può sembrare paradossale, ma io ritengo che la forma di scrittura più “soggettiva”, quella che sembra amplificare a dismisura l’ego dello scrivente, sia anche, se adeguatamente vissuta, un viatico alla “deposizione dell’io”, che può essere declinata nichilisticamente come morte (luttuosa) del soggetto o interpretata vitalmente come scoperta che siamo intramati e attraversati da una forza più grande di noi, che la nostra psiche è dentro una psiche cosmica, che siamo parte di un Logos, di una parola infuocata che talvolta parla attraverso di noi, sue docili fibre.
Alcune di queste poesie hanno al centro mia moglie, la quale si è rifiutata di leggere questo libro (invero dubito che abbia letto anche gli altri...) perché, dice, le cose che scrivo per lei sono “terribili”. Non lo so se ha ragione. Certo non mi appartiene per indole la lirica “petrarchesca” (che pure amo leggere) sul modello di un Pedro Salinas. Cerco di fare una poesia, direbbe Saba, “onesta”, che non nasconda le asperità di una oramai assai lunga vita insieme, ultratrentennale, che diventa metafora di ciò che dovrebbe essere per tutti l’esistenza: una lenta costruzione fatta di pieni e di vuoti, di rotture e cuciture, di sofferenza e gioia. «La storia, come la vita stessa, è complicata. Né la vita né la storia sono imprese per chi cerca semplicità e coerenza». D’altronde, la poesia stessa vive nei suoi spazi bianchi, nei suoi silenzi.
L’amore coniugale
Arduo vivere insieme a lungo,
mediando ogni giorno, scoprendo,
dopo il sogno del sinolo,
quanto siamo diversi per indole,
progetti, interessi. E quando
i palpiti tacciono, perché,
ci chiediamo, restare,
pestando cenere nei luoghi
che furono corpi avvinghiati
e cuori roventi? Va’, dice,
dunque, una voce: rinasci.
Resta, dice un’altra: ripara,
racconta ogni volta a te stesso la storia.
Dove fuoco fu, ancora calore
e luce saranno. Alle stagioni
dell’amore il tuo assenso, ai suoi vuoti,
ai suoi voti. La prosa adulta completi
l’acerba poesia dei tuoi sedici anni.
Ho scelto di restare ogni volta,
le nuove rose attendendo
e le umili gioie dell’amore fedele.
Chiudo questa serata con voi, amici, non con la poesia dolente dell’Exitus. Mi nutro di speranza. Ho bisogno di pensarmi “in-sorgente” nella duplice accezione della parola. Unito alla fonte del senso ma anche in rivolta contro gli ordini costituiti e mortuari dello spirito, della politica, della società. E connesso con gli elementi essenziali della vita, percorso da altre voci che mi dicono cosa fare e non fare. Immaginate, dunque, questi versi a tre voci.
[INSORGENTE
OGNI MATTINA
CONTRO IL NIENTE]
Sole/Padre, fendi le pietre
dell’oscura prigione.
Acqua/Madre, scorri
nell’arido legno del corpo.
L’orecchio sfibrato si tenda
a ciò che deflagra,
lo sguardo sul punto
efesino in cui tutto oscura-
mente si tiene.
[OGNI MATTINA
IN SORGENTE
ALLA NOTTE
IMMEMORE]
La legge sottesa alla natura
rerum reclama anche te.
Amala senza riserve.
(In sottofondo Schmelzer e la mescolanza unica di mestizia e gioia che la musica barocca comunica).
(In sottofondo Schmelzer e la mescolanza unica di mestizia e gioia che la musica barocca comunica).
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