venerdì 14 novembre 2025

Presentazione di "Euthymios" [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 

Presentazione


Per introdurre il mio romanzo Euthymios, il medico greco che conobbe Yeshua, pubblicato da Bolis e distribuito da Messaggerie, rispondo ad alcune domande che mi ha rivolto una collega e prima lettrice, Paola Maglione.


Come è nato il romanzo


A febbraio ho lasciato ogni impegno nella mia scuola, in aperto dissenso con la sua gestione: un dissenso che esprimo anche in un saggio premiato al "Loris Malaguzzi".

Avendo più tempo e restando “solo insegnante”, mi sono dedicato alla scrittura narrativa, un terreno per me nuovo.

Scrivo da sempre – poesia e saggistica – ma la narrativa è stato un ritorno alla mia passione per le storie, coltivata fin da ragazzo.

L’idea di Euthymios nasce dal mio interesse ventennale per la questione del Gesù storico: un interesse che si accese dopo la lettura del dialogo tra Augias e Mauro Pesce.

Ho scelto di affrontare il tema non direttamente, ma tramite lo sguardo esterno di un medico greco, figura mediatrice tra mondi e sensibilità diverse.


Il significato del nome e il carattere di Euthymios


Euthymios significa “di buon animo”, “colui che dà coraggio”. È il nome ideale per un medico.

In lui ho riconosciuto – e proiettato – parti di me:

- il desiderio di rassicurare, da insegnante e da padre;

- insieme un’intima inquietudine, che mi accompagna da quando ho memoria.

Come Bonhoeffer, mi riconosco nella tensione tra ciò che trasmetto e ciò che vivo dentro. Euthymios incarna questo duplice registro.


Gli incontri storici di Euthymios


Nel romanzo il mio protagonista incontra Celso, Giovanni Battista, Pietro, Paolo, Giuda, Pilato, Gesù, Seneca.

Lo conduco in Israele attraverso vicende che lui legge come destino.

In Terra d’Israele esplora la pluralità dell’ebraismo dell’epoca: Esseni, Farisei, Sadducei, Zeloti, la comunità del Battista.

Riprendo una tesi storica importante: Gesù fu un discepolo del Battista, poi capace di trasformare e superare il messaggio del maestro.


Gesù/Yeshua e Seneca nella mia formazione


La sua figura è decisiva per la mia vita interiore: non posso pensarmi senza di lui.

Mi definisco totus christianus, ma in modo eterodosso, persino “eretico”.

Il Gesù del mio romanzo è umano, complesso, mistico, lontano dalle letture semplificanti:

- prega da solo,

- è inquieto,

- è in conflitto con la famiglia,

- non si considera Dio né figlio di Dio.

Sapevo che questa immagine avrebbe potuto spiazzare molti lettori.

Seneca è uno dei poli della mia formazione classica.

Torno spesso ai Dialoghi e alle Lettere a Lucilio.

Nel romanzo lo incontro giovane, in una fase simile a un esilio ad Alessandria.

La sua amicizia con Euthymios è uno dei fili più intensi del libro; l’episodio nella villa a mare è, per me, una delle pagine più riuscite.


La scelta dei personaggi storici


Ho già portato Euthymios a incontrare tutti i personaggi con cui fosse verosimile un contatto.

Non sentivo il bisogno di aggiungerne altri: il rischio sarebbe stato l’eccesso.


Il mio “Gesù altro”: la visione gesuana


Ho voluto distinguere il Gesù storico dal Cristo della fede.

Gli studiosi parlano di “gesuano” per indicare l’originario, ciò che appartiene a Gesù prima dell’elaborazione cristiana.

Mi sono mosso su alcuni dati storici:

- Gesù era un ebreo profondamente inserito nella vita religiosa del suo popolo.

- Non si considerò mai Dio.

- Il Regno di Dio era il centro della sua predicazione.

Ho accentuato la sua mistica personale: un uomo che cerca Dio nel segreto, nel silenzio, nelle grotte, e che al tempo stesso annuncia un Dio che entra nella storia.

In questo tratto ho trasferito anche la mia modalità spirituale, sempre divisa tra un Dio di giustizia e un Dio di silenzio interiore.


Perché mi definisco “diversamente credente”


Riprendo la formula paolina “Spes contra spem”: sperare contro ogni speranza.

Di fronte al male del mondo, una fede ingenua è impossibile.

Ciò che resta è la speranza ostinata, non la certezza.

Quando mi chiedono se credo, rispondo: “io spero”.

Come scrive Caproni: “prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista”.

Mi sento autonomo rispetto a tutte le religioni rivelate, che comunque guardo con grande rispetto.

Frequento volentieri le chiese vuote, prego con parole mie o di molte tradizioni diverse.

Ho imparato a riconoscere una sacralità potente anche in molta poesia moderna.


La morte come fulcro della narrazione


Tutto ciò che scrivo è, in fondo, una riflessione sulla morte.

Per me ogni vita e ogni pensiero serio passa da lì.

Nel romanzo tutti i personaggi si confrontano con la fine:

- morti tragiche, come la crocifissione,

- morti dolci,

- morti filosofiche, come quella di Seneca.

Anche Euthymios attraversa il suo destino finale, dopo una vita segnata da lutti, epidemie, perdite familiari.

La conclusione del romanzo intreccia la storia con l’invenzione e porta Euthymios a una morte eroica, dopo aver superato ogni etichetta identitaria (greco, giudeo).


L’amore secondo Euthymios


Nel romanzo racconto due storie d’amore:

- un amore giovanile, impossibile, che lo porta a rifare il voto di castità;

- un amore maturo, fedele, realistico, che considero tra le pagine più toccanti.

In queste pagine ho messo anche qualcosa della mia storia:

un rapporto lunghissimo, di oltre quarant’anni, che ha scelto il matrimonio come forma stabile dell’amore.

Ho trattato l’amore con molto pudore, perché credo che solo così lo si possa raccontare.


Come vivo poesia e narrativa


Sono nato come poeta: i versi mi hanno aiutato a attraversare la morte di mia madre.

Per me la poesia non racconta: accompagna.

La prosa invece narra.

È un diverso modo di guardare alla vita:

- si vive poeticamente,

- si racconta in prosa.

Questa nuova stagione narrativa rappresenta una svolta, pur nella mia fedeltà alla forma poetica.




giovedì 6 novembre 2025

Fedele all'opera. 10 frammenti sullo scrivere [𝒐𝒑𝒖𝒔 𝒎𝒆𝒖𝒎]

 


1. Ricordare che l’atto creativo non è mai slegato dal duro lavoro, che significa lettura, accumulo di materiali di approfondimento anche apparentemente inutili. Non avere, dunque, paura dei vuoti, che sono sempre necessari. Attendere in maniera attiva. Un apparente ossimoro. 

2. Bisogna rimanere dentro la scrittura. La tentazione, nei momenti di stanchezza, è pensare al dopo, lasciandosi prendere dall’ansia di mettere la parola fine, immaginando che qualcuno la leggerà e l’apprezzerà. Certo, si scrive per un “tu”, ci mancherebbe, ma potrebbe essere anche un tu che non esisterà mai se non come nostra creazione fantastica. È come se in noi si verificasse uno sdoppiamento tra un “io” che scrive e un “tu” che legge, cui l’opera è rivolta. 

3. Ricordare che all’inizio la storia è solo un’intuizione. Poi, quando si inizia a scrivere e a plasmare i personaggi, la mente inizia ad entrare dentro di loro, a pensare insieme a loro. È un piccolo miracolo della nostra immaginazione, che va ovviamente nutrito. 

4. Il rischio che si corre è la bulimia scrittoria, lo scrivere per lo scrivere. Se, invece, devo conservare qualcosa di un quarantennio di scrittura è l’onestà. Scrivere solo ciò che proviene da un’esigenza reale e profonda. E lavorare molto sullo stile, non in senso estetizzante, ovviamente. 

5. Mi pare evidente che questa sia una fase pioneristica del mio “quarto tempo”, della mia “vita da scrittore”. Piena, come è giusto che sia, di anarchico entusiasmo, di grossolani errori e di scarsa consapevolezza. Già questa estate dovrò iniziare un lavoro rigoroso di consapevolezza: che cosa significa oggi essere uno scrittore? Quale il senso? Perché? E poi il “come”. Ora ho aperto la grotta con il tesoro di Montecristo, sono abbagliato dalle storie che ho trovato dentro di me e che trovo appena ho un piccolo stimolo. Va bene, ma solo per prendere la mano. Ben altro significherà fare la cosa seriamente. 

6. Il romanzo sarà il battesimo del fuoco, ma dovrò imparare da tutti gli errori, con umiltà. Ma se non si inizia nuotare, Hegel docet, non si potrà mai imparare a nuotare. Sicuramente prenderò tantissime mazzate! Ma non devo averne paura. Mi renderanno più forte, più consapevole. Oramai la mia decisione è presa. Io sono uno scrittore. Voglio esserlo fino alla fine dei miei giorni. Voglio che la scrittura sia la forma del mio abitare il mondo nei prossimi anni, quanti me ne concederà il Signore. 

7. Mi rendo ogni giorno più conto che le parole stanno diventando la mia nuova dimora, come mai era accaduto prima. E mi rendo conto che esse, per quanto possano essere crude o feroci, sono sempre migliori della realtà. Il mio sta diventando un mondo parallelo, in cui creare o ricreare la realtà e, in essa, me stesso e la mia storia o le mie storie possibili, gli “io” che avrei potuto essere. E mi rendo ancora conto che le storie sono la forma migliore per far transitare un’idea. Una cosa che istintivamente sapevo.

8. Durante i mesi rigeneranti a San Cumano ho maturato l’idea che la poesia nuova che scriverò sarà profondamente diversa da quella del trentennio precedente. Uno stacco radicale che mi impone di non scrivere più nulla che mi riguardi. L’autobiografia viene confinata al Diario o a scritture narrative tutte da pensare.

9. Arte da apprendere: abitare i tempi. Ora sono dentro l’uscita di Euthymios, ma non deve succedere che questo evento, della cui importanza sono consapevole, mi assorba interamente. Va trovato un equilibrio tra i vari momenti della mia vita, anche in virtù della semplificazione che sono riuscito questa estate a creare, recedendo da zone di impegno che hanno assorbito per anni le miei energie. Queste energie vanno messe a regime seriamente, non dissipate. Il mio dovere è nei confronti dell’opera, cui dedicarsi instancabilmente.

10. Fedele all’opera. Questo il koan che risuona dall’estate, a fare da controcanto a quello delle sirene consuete. Che significa nella mia testa, nel linguaggio ellittico e immaginifico che eredito (anche) dal fumetto? Devo rimanere fedele alla mia natura (e a come essa si è plasmata nel corso dei decenni), riconoscendo che amo la solitudine e il raccoglimento molto più della confusione, che la vera felicità l’ho vissuta sempre da solo o con pochissime persone, che i soldi non mi hanno mai dato nulla di essenziale. E che, dunque, devo vivere scrivendo sotto lo sguardo di Dio (che vorrei fosse quello di mia madre), orgoglioso di suo figlio ed esigente perché ha avuto talenti da moltiplicare attraverso il lavoro e l’intelligenza.