Caro Luca, mi rendo conto che questa è la prima lettera “pubblica” che ti scrivo.
Ci conosciamo dai primi anni Settanta. Scuole elementari. Poi ci perdemmo di vista. Ci ritrovammo. Divenimmo inseparabili. Abbiamo condiviso tanto in una fase della vita decisiva: nel senso che decide chi saremo. Non ci siamo più persi di vista. Purtroppo, la vita ha separato la nostra quotidianità, e sai quanto mi manca. Te lo scrivo almeno un paio di volte all’anno.
“la rosa necessaria” si concluse nel 1999, nella stagione dei concorsi. La prosa della vita batteva rumorosamente alle porte. Rispondemmo. Riprovammo a creare, con “soglie”, un nuovo sodalizio “digitale”. L’esperimento durò poco (per limiti oggettivi e soggettivi). Da allora, purtroppo, a parte i due numeri di “segnavia”, stampati in poche copie, non ci sono stati momenti di condivisione intellettuale.
Tu, però, sei sempre stato presente nella gestazione dei miei libri, come primo lettore, correttore di bozze, giudice severo.
Ora sta per iniziare una nuova stagione della mia vita di scrittore (non esito a definirmi tale rispetto al passato). Mentre fino ad oggi la scrittura era praticata negli interstizi delle occupazioni principali (in particolare, la scuola), ora essa è divenuta urgenza, febbre quotidiana, magnete che sembra attrarre tutto il resto, con quell’eccesso che sai caratterizzarmi da sempre all’avvio di una passione. La rottura con chi dirige la mia scuola, professionale e umana, ha liberato energie che si sono riversate, in maniera inattesa, nella scrittura di storie.
Anche stavolta ne sei primo lettore e giudice severo. Stroncasti il mio primo tentativo romanzesco, nato in un momento di riposo estivo forzato, dovuto agli acciacchi degli anni. Stroncatura benefica, che mi ha costretto a rivederlo continuamento. È ancora in attesa di “carta” e lettori. Prometto a me stesso, però, che prima o poi vedrà la luce perché c’è troppo di me, delle mie passioni, dei miei rovelli.
Ora sta per uscire Euthymios. Lo hai letto, giudicato senza troppo entusiasmo (ma con quello che per me è un complimento, definendolo “hessiano”).
Ti sto inviando ogni tanto i racconti che scrivo (talvolta inviandoli a concorsi). I tuoi giudizi, per quanto laconici, sono sempre preziosi.
Mi hai chiesto, in una delle nostre discussioni a distanza: «Ma… Nicola? Dov’è in questi racconti?»
Questa tua domanda mi ha interpellato, e finalmente ho una risposta che ti do qui, in pubblico, perché è un momento di chiarezza anche per me.
Ho scritto da quando avevo diciassette anni, prediligendo una scrittura intima (il “Diario”, che continuo a tenere), la poesia, poi articoli e saggi. Sempre quanto elaboravo era consapevolezza ma anche guida per la vita, scrittura-azione, che non a caso faceva il paio con l’impegno civile o politico (che racchiuderei tra il Comitato pro-Sofri e l’impegno con l’ANPI, con dentro esperienze anche eterogenee, tra cui un pezzo di consiliatura con il M5S). In questi mesi, nello scrivere in maniera caotica e gioiosa decine di racconti, bozze di tre o quattro romanzi e poesie, mi sono reso conto di un profondo mutamento, che volevo provare a dirti, rispondendo alla tua domanda. Hegel (il mio odiato Hegel, che oggi citerò ben due volte) afferma che i processi, dopo essere cresciuti quantitativamente, subiscono un mutamento qualitativo (come l’acqua che bolle, divenendo altro, cioè vapore). Ebbene, io percepisco prima di tutto che le tante ore che dedico a scrivere stanno producendo un mutamento qualitativo nella mia scrittura. Il secondo cambiamento è più radicale. Ancora Hegel per spiegarlo. Ricorderai che per il pensatore tedesco la filosofia è come la nottola di Minerva che si leva sul far della sera, cioè alla fine dei processi che hanno strutturato una civiltà. Ebbene, io sento che la mia vita è “finita”, che ho fatto tutto quel che volevo, dovevo e probabilmente potevo. Il Signore ha esaudito tutti i miei desideri: una relazione compiuta (seppure tra travagli che ne costituiscono la storia, ma d’altronde Hegel sottolinea continuamente l’importanza del momento dialettico, la forza del negativo nello spingerci verso nuove configurazioni), una figlia che ora si avvia a scegliere cosa essere, un lavoro bellissimo, pochi amici fidati su cui far sempre conto. E tante altre cose importanti: le mie sorelle e le loro famiglie, San Cumano… Insomma, non ho altro da chiedere a Dio nelle mie preghiere. In questo senso la mia vita è “finita”, compiuta. È la mia sera, dunque. In cui si è levata la civetta, non di Minerva, però, ma di Calliope, se fosse possibile. Dunque, dov’è Nicola in quello che scrivo e che scriverò? E che cosa scriverò? In questo momento, mi sento di dire racconti, romanzi e rade poesie, molto diverse dalle precedenti. Nei racconti ci sono le mie passioni, soprattutto, nei romanzi, ad ora, molto di me nei protagonisti (in Eliseo, in Eutimio, in Arnaldo). Paradossalmente, la cesura maggiore si avverte proprio in ambito poetico: ho deciso che era finito il tempo della poesia come trasfigurazione lirica dell’esistenza. Probabilmente, la prossima raccolta che uscirà (Una luce che risplende in luoghi oscuri) sarà il congedo da un’intera stagione creativa. Ora sto scrivendo testi barocchi, concettosi e continuerò scientemente a farne. Insomma, l’io regredisce, appare solo in forme mediate.
So bene che queste riflessioni possono apparire (perché lo sono!) confuse. È il primo acerbo tentativo di “pensare” quel che vado facendo. Continuerò a farlo, finita questa fase strurmeriana e garibaldina, rivolgendomi a te, che con pazienza mi ascolterai.