Anche Extravagantes, uscito lo scorso anno, viene riletto e messo in musica con l'A.I.
Anche Nel chiaro mondo è stata riletta dall'A.I.
Per me è prezioso potermi riascoltare con voce (?) d'altri. In futuro, vorrei sperimentare l'interazione tra la mia voce "dal vivo" e queste "registrazioni".
Officium tenebrarum e Filiae matrique
Galeotto fu un corso che mi ha costretto ad interessarmi seriamente di Intelligenza Artificiale (era ora!). Oltre a cose seriose, come i risvolti filosofici ed etici della A.I., mi sono divertito con qualche programma (in particolare Suno e Udio).
Dalla sperimentazione è nata la messa in musica delle mie quattro raccolte di versi.
Per aspera ora è integralmente ascoltabile in questa modalità.
Continuo a sperimentare.
Caro Nicola,
sono felice di poterti scrivere per condividere alcuni pensieri occasionati dal tuo Spes contra Spem. Immergermi nei tuoi versi, ha significato imbarcarsi in un viaggio poetico che si snoda attraverso le stazioni più significative e fondamentali dell'esistenza umana.
Ciò che mi ha colpito di più è
stata la tua capacità di delineare il percorso poetico con una sintesi e una
profondità che mi riportano l'immagine di un vino pregiato, distillato con cura
e lungamente stagionato prima di essere gustato sulla "tavola del
canto". Ogni tema - amore, morte, cura, speranza, Dio - risuona nei tuoi
versi con una sincerità e una bellezza profondamente umana, come se ogni parola
fosse stata scelta con attenzione per trasmettere un significato profondo e
universale.
Inoltre, ho molto apprezzato la
tua abilità nel mescolare prosa narrativa e poesia, creando una commistione che
avvolge il lettore, conducendolo attraverso le varie stazioni della vita. È
come se fossimo presi per mano e guidati, con la pazienza da un Virgilio
eterno, attraverso i corridoi labirintici dell'esistenza, pronti ad affrontare
ciò che la vita ci riserva con coraggio e consapevolezza - spes contra spem,
appunto. Grazie!
* * *
Antonio Martone insegna Filosofia politica presso l’Università di Salerno, ma è anche pittore, poeta e narratore.
«Le vane
lusinghe trapassano, gli applausi
svaniscono in luoghi deserti.
Resta l’opera costruita nel tempo:
un uomo, una vita».
Recitano così alcuni dei versi di questo nuovo lavoro di Nicola Sguera che traccia il percorso esistenziale di un io che “spera contro ogni speranza”, nonostante tutto. I versi, introdotti nelle varie sezioni da uno scritto in prosa che guida la lettura, attraversano il vivere tenebroso, alienato, solitario, in fiamme, segnato dalla morte, per aprirsi alla speranza, una speranza che non è illusione ma sprone all’agire, fatta di persone vere, di corpi da amare e da curare (la moglie, la figlia, gli amici, gli allievi, le sorelle, Maria…). E in questo percorso, che è da dentro a fuori, da sé verso l’esterno e ritorno, al centro c’è il Deus che segna l’incontro, la comunione tra morte e amore, tra contra spem e spem, tra sofferenza e cura. Giunto a metà del cammino esistenziale, con questo nuovo libro di poesie Sguera continua il suo percorso di chiarificazione, anche attraverso la semplificazione del verso, la brevità dei testi, per cogliere attraverso di loro una luce nuova, per arrivare ad accettarsi «creatura imperfetta».
Poiché una cara amica me ne chiede conto, ne approfitto per fare sintesi di quanto accade ad un corso di cogestione.
Due premesse.
La prima: io adoro questi giorni che preludono alle feste natalizie e sono perfettamente inseriti in una scansione (trimestre+pentamestre) in cui verifiche e compiti sono finiti e le energie intellettuali (di docenti e discenti) decisamente scariche. Sia tale scansione sia le giornate “di licenza” (mi piaceva assai questo nome che evocava il Liceo, la licenza poetica, la licenza militare) furono innovazioni per le quali spinsi e per cui mi sono speso nel corso degli anni. Ora la “cogestione” è stata affidata, nel contesto di una dirigenza illuminata, ad una giovane collega che unisce teutonica efficienza e materna comprensione, con risultati eccellenti. Sono momenti preziosi, se partecipati attivamente anche dal corpo docente, per cogliere i mutamenti, spesso carsici, dei nostri giovani: i loro gusti, i loro centri di gravità, i film che amano, la musica che ascoltano. E anche per rubare loro una scintilla di giovinezza…
La seconda: chi mi conosce sa bene che, accanto all’Inter (ahi…), i fumetti sono una passione dominante. In particolare, quelli super-eroistici, e in particolare quelli della Marvel. Quando nacque “BN.ComX”, tenemmo un po’ di incontri dedicati a maestri del fumetto o grandi opere. Io, con Antonio Furno, mi occupai, appunto, della Marvel e della sua magia (era il maggio 2021, Dio come passa il tempo…). Quella struttura si è arricchita negli anni, nella periodica riproposizione, in particolare di riferimenti filmici e televisivi (essendosi moltiplicate serie tv e film del Marvel Cinematic Universe).
E rispondo ora alla curiosità dell’amica.
Dopo un breve test di conoscenza sull’argomento, illustro in pochissime parole la storia del fumetto supereroistico prima della Marvel: quindi, Superman e Batman (1938 e 1939), la Golden Age del fumetto, la DC, la Timely (la “nonna” della Marvel), con i primi personaggi (la Torcia Umana originale, Namor, Capitan America) dove lavorano Lee e Kirby, la Atlas (la “mamma” della Marvel). E, nel contesto radicalmente mutato degli anni Sessanta, la nascita della Marvel e, nell’arco di pochissimi anni, la creazione leggendaria da parte di un pugno di uomini guidati da Stan e Jack, di centinaia di personaggi iconici: i Fantastici Quattro (1961), Ant-Man, Hulk, Spiderman, Iron Man, Thor, gli Avengers, Doctor Strange, per citarne solo alcuni.
Poi illustro le caratteristiche di fondo dei fumetti Marvel (i super-eroi con super problemi), il radicamento nel mondo reale (Superman e Batman operano in città inventate, Spiderman a New York), i riferimento all’attualità, la capacità rabdomantica di capire cosa si muove nel sottosuolo della società. E quindi attraverso le fasi salienti con alcuni snodi fondamentali dal punto di vista creativo (gli X-Men di Byrne e Claremont, il Devil di Miller, giusto per fare due esempi). Negli anni Ottanta la Marvel perde smalto. La DC rinnova il fumetto mondiale con opere leggendarie (il Batman di Miller, Watchmen e V per Vendetta di Moore). La magia scompare. Si affermano “grandi” disegnatori a discapito delle storie. È il periodo che non amo di questa importante saga editoriale. Che culmina nel fallimento (Chapter 11, era il 1996), che smembra per altro i diritti cinematografici sui personaggi. Per fortuna, con il nuovo millennio un personaggio straordinario (anche come disegnatore e sceneggiatore), un secondo creatore della Marvel, riscopre la magia. È Joe Quesada (dal 2000 al 2011 Editor in Chief) che chiama a lavorare talentuosi sceneggiatori (di nuovo le storie al centro!) come Millar o Straczynski o Bendis. È la stagione di saghe leggendarie come Civil War o Secret Wars. E poi la nuova svolta: la Disney acquista la Marvel (2009) e tutti i suoi personaggi. In sordina, con un personaggio minore, si pongono le basi per il crack che seguirà: il trionfo cinematografico. È il 2000… Per i fan Marvel è cominciata una seconda giovinezza con splendidi film (che rimescolano l’immenso catalogo di personaggi e storie in maniera creativa grazie al talento di Kevin Feige, altro nome chiave) e serie televisive alcune di valore assoluto (prima con Netflix poi con Disney+). Inevitabile da appassionato da disegno (era mio sogno diventare disegnatore di fumetti, coltivato fino ai diciassette anni), una carrellata di grandi maestri: il Re (Kirby), maestro di intere generazioni, John Buscema, John Romita, scomparso da poco, Jim Steranko, Barry Windsor-Smith, Gene Colan, Gil Kane (nomi che mi fanno venire i brividi: la gioia infantile di sfogliare un albo a fumetti è integra, come quella di vedere i giocatori che entrano in campo con la maglia nerazzurra).
E suggerisco poi due opere da leggere (Marvels di Busiek e Ross, 1602 di Gaiman e Kubert).
Ogni evento, poi, si arricchisce con riferimenti o digressioni che possono derivare dall’interazione con il pubblico, che è molto preparato sul cinema ma poco sui fumetti, soprattutto quelli delle origini.
Chiudo con una riflessione scaturita in questi giorni, dopo la visione di The Marvels. Sicuramente con Endgame il MCU è entrato un po’ in crisi. Direi che, con l’eccezione del secondo Doctor Strange e il terzo dei Guardiani, i film prodotti vanno dall’accettabile al mediocre al pessimo (andrebbero sempre affidati ad autori con una stile riconoscibile come Raimi e Gunn). Di contro, mi pare che le serie tv siano tutte interessanti o eccellenti, rivolte ad un pubblico adulto, capaci di affrontare tematiche complesse e ottimamente recitate (WandaVision, ad esempio, è un capolavoro di incredibile complessità, anche visiva: una meta-serie televisiva).
L’universo Marvel è vastissimo: ci sono tantissimi personaggi (i mutanti, appena accennati fino ad ora, ad esempio) da valorizzare, storie da riprendere. Insomma, l’augurio è che sia solo una crisi di crescita.
Mi piacerebbe invecchiare continuando a leggere e vedere film che, attraverso i super-eroi, quindi utilizzando uno schema mitico (che è un bisogno strutturale dell’essere umano) mi diano da pensare sulla giustizia, la politica, il senso della vita. Come è accaduto da quando avevo cinque o sei anni.
Sono esistiti due Toni Negri per me. Il primo era solo un nome, uno dei tanti, associato all’oscura stagione della violenza e del terrorismo. Appartengo ad una generazione segnata indelebilmente da telegiornali dominati da notizie tragiche e incomprensibili. All’epoca del sequestro Moro avevo 11 anni. Gli anni Ottanta furono attraversati nel rigetto della politica, associata al sangue o al denaro.
Ho ritrovato Toni Negri, dunque, un altro (o sempre lo stesso?), dopo molti anni, e precisamente a cavallo dei millenni, quando iniziava ad entrare in crisi la narrazione sulla “fine della storia”, sotto la polvere delle Twin Towers. La trilogia “imperiale”, fondata sul concetto di “moltitudine”, ha avuto enorme impatto su di me. Ho considerato, in quegli anni, Toni Negri un maestro. E ricordo ancora la mia (vera) maestra, Biancamaria Frabotta, che gli “anni di piombo” li aveva attraversati in prima fila, quando le parlai di queste letture appassionate dirmi, con un fremito di orrore, che per lei Negri era una persona orrenda, legata a ricordi angoscianti.
Con gli anni, pur grato a quelle pagine sempre intriganti e talvolta geniali, ho maturato una profondo distacco, prima di tutto dall’antropologia sottesavi. Più in generale, mi sono reso conto che la mia “educazione cattolica”, evidentemente molto più profonda di quella che lo stesso Negri ebbe, reclama un uomo che non sia la mera evoluzione di un animale (ma qui entro in rotta di collisione con tutto il pantheon di pensiero e prassi politica di cui il pensatore padovano è ultimo esponente). Soprattutto, ho superato negli anni l’idea (hegeliana e marxiana) che esista una sorta di legge immanente al divenire storico che procede verso una meta (la libertà o il comunismo). E, dunque, ritengo che la globalizzazione non sia stato un fenomeno né necessario né benefico nei modi (politici!) in cui si è realizzato ma, esattamente come la rivoluzione industriale analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione, si sarebbe dovuta temperare e contrastare. Avrei, nel tempo, superato anche la fiducia nella costruzione di un soggetto plurale capace di politica in maniera pressoché spontaneista.
Resta l’opera di un pensatore importante con cui è doveroso ancora confrontarsi. Non so se gli strumenti teorici approntati dal “secondo” Negri siano, però, utilizzabili per il lavoro dei prossimi anni.
Il collega e
amico Gianluigi Panarese risponde
alle mie
riflessioni. Riporto quanto scrive integralmente.
Caro Nicola,
1) la
Repubblica certamente non è "organo bolscevico”(se così fosse potrebbe
accampare qualche merito), quanto organo del “più grande partito radicale di
massa”, pannellianamente in totale confusione di idee, sostenendo tutto e il
contrario di tutto, secondo come tira il vento.
Venendo a Galli
e al suo libro, io noto che dietro quel titolo non si capisce bene se c'è una
reale preoccupazione per una possibile fine della democrazia o un sottile
(subdolo) compiacimento per la sua scomparsa.
Lo dico perché
sappiamo bene che non pochi tra intellettuali, politici di ogni specie,
giornalisti etc., guardano ,con un malcelato ed inquietante interesse , ad
esperienze politiche che portano sulla “via della seta” o sulla strada di
autocrazie (giusto per non chiamarle con il loro nome: tirannie). Ripeto: il
dubbio resta.
Che le
democrazie siano in crisi mi sembra evidente, la ricetta sul come uscirne non è
chiara.
Certo chiudi
il primo punto scrivendo che la “democrazia è la regola e il perimetro entro
cui realizzare società più o meno uguali”, ma lasciando intendere che la
democrazia si presta ad essere strumentalizzata per il l'interesse e l'egoismo
di alcuni a scapito di altri. È evidente che la democrazia non è il migliore
dei mondi possibili, tuttavia ti garantisce un “perimetro “entro cui puoi
lavorare per limitare e contrastare proprio quell'egoismo, che resta comunque
un tratto ineliminabile della natura umana, così come altri poco piacevoli.
Solo certe utopie hanno pensato di estirpare il Male dal mondo, ricorrendo però
a un male peggiore.
Per chiudere
confesso che amo leggere e trovo più concreto Giovanni Sartori (ahimè
scomparso) che non Galli.
2) Sulla
decrescita, conviviale o felice che sia, confermo che è parola vuota, priva di
qualunque contenuto e così ritenuta universalmente , dal momento che non c'è
nessuno Stato, Governo etc. etc. , che abbia mai preso in considerazione una
simile fantasia. Almeno io non ho mai sentito parlare di politiche economiche
volte alla decrescita da parte di chicchessia. Sento al contrario di come
creare politiche economiche espansive, per motivi del tutto ovvi. Dopodiché la
crescita economica si deve assolutamente armonizzare con il rispetto per
l'ambiente (la tecnica e la tecnologia sono in grado di fornirci gli strumenti
all'uopo) e con la difesa del lavoro dignitosamente retribuito. Ma questo è
semplicemente (si fa per dire) compito della Politica, lo sarebbe soprattutto
di una parte politica che invece è stata latitante negli ultimi decenni ed è
ora in tutt'altro affaccendata. E mi taccio!!
È vero sono
legato alla cultura della terra ed è per questo che non corro dietro a cose
fantasiose, come ad esempio la cosiddetta “agricoltura biologica”. Chiunque
conosca un po' il mondo agricolo sa che non si può produrre nulla
biologicamente su larga scala per milioni di persone, se non miliardi,
semplicemente perché ci sarebbero carestie in breve tempo. Il biologico è un
lusso che si possono permettere quelli producono per sé e che si accontentano
di quel poco che riescono a ricavare da una coltura non trattata con pesticidi
e concimi chimici. Ma questi sono irrinunciabili se si deve pensare a riempire
decine di migliaia di scaffali di supermercati con tonnellate di prodotti
alimentari tutti i santi giorni.
Scrivo questo
per dire che credere alla decrescita felice/conviviale è come credere
all'esistenza di una agricoltura biologica capace di sfamare milioni di
persone. Pura illusione.
Anche qui, è
chiaro che l'uso dei prodotti chimici non può avvenire in modo indiscriminato e
senza il rispetto di norme che da noi (ripeto da noi in Italia, altrove non so)
ci sono.
3)e vengo alla
questione capitalismo, che non rappresenta certo la fine della storia né, anche
qui, il miglior sistema economico delle galassie.
Eppure negli
ultimi 100 anni l'umanità è cresciuta esponenzialmente arrivando a quasi 8
miliardi di persone, l'età media quasi ovunque si alzata come non mai, decine
di paesi sono usciti dalla povertà o sono sulla punto di uscirne, le carestie
sono sempre meno frequenti nei paesi che abitualmente andavano incontro a
queste sciagure, e potrei continuare.
Ebbene se così
è, non lo è stato per opera e virtù dello Spirito Santo, ma perché il tutto è
avvenuto in un modo o nell'altro proprio grazie ad un sistema economico di
successo, che certamente ha creato distorsioni e problemi giganteschi, ma che
ha pure garantito un benessere ed uno sviluppo diffuso (rendendo da questo
punto di vista paradossalmente sempre più marginale l'Europa stessa, culla del
capitalismo) che non è sic et simpliciter solo il portato “di
una violenza invisibile altrove”.
Concludi
chiedendoti se il capitalismo è disposto a lasciarsi imbrigliare, dopo che lo è
già stato per il passato.
Se ciò è
avvenuto a costo di “dure lotte” può accadere di nuovo. Se qualcuno “ha rotto
le catene tra politica ed economia” , queste si possono saldare di nuovo. Cosa
lo impedirebbe?
Caro Nicola,
alla fine di tutto e tirando le somme non abbiamo fatto altro che, come in un
gioco dell'oca, tornare alla questione più importante di tutte che ruota
intorno alla necessità di difendere e rilanciare quello che resta dello stato
sociale/ welfare state.
Ma come ben
sai il più grande partito radicale di massa ha preferito trastullarsi con ben
altre tematiche meno compromettenti, finché “il cavallo non è fuggito dal
recinto” e così ci siamo ritrovati con uno Stato ridotto sempre più all'osso,
frantumato e disarticolato in quasi tutte le sue strutture.
Con la sua
scientifica disarticolazione è saltata pure quel poco di “società stretta” che
nel secondo dopoguerra le varie forze politiche avevano provato a costruire.
In tutto
questo il capitalismo c'entra, ma ancora di più c'entra una diffusa
pusillanimità... e tanto altro.
Vado per ordine e
punti anch'io.
1) «la
Repubblica», che non mi ha mai appassionato nelle sue scelte di fondo,
pubblica spesso interventi di rilievo che val la pena meditare. Quello di Galli rientra
in tale tipologia. Il suo libro, lungi da l'essere un de
profundis della democrazia, è un invito al lavoro critico per
rinnovarla, dal momento che una delle sue configurazioni storiche (la
democrazia “neoliberista”) si sta esaurendo. Indica, dunque, una serie di
condizioni proprio perché l'Europa non diventi una “post-democrazia” o una “democratura”.
Negli anni ho maturato, attraverso studi, letture, pratica diretta che la democrazia è un campo conflittuale e che non esiste nessun “universale” (come la classe dirigente ipotizzata da Hegel) che possa essere super partes. In particolare, lo studio appassionato di pensatori populisti come Laclau e Mouffe mi ha insegnate a vedere la democrazia con inevitabile campo di conflitti. Ma già Machiavelli insegna, nei Discorsi (Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica, I,4) come la dialettica sia motore di progresso civile. Altrove l'ho definita una concezione “eraclitea” della politica, in cui la tensione viene vista non come fonte di στασις (è, al contrario, la concezione platonica che esalta la “giustizia” come equilibrio tra le classi, meglio caste nella sua spaventosa utopia). E, sempre per rimanere in tema di utopia, ho maturato negli anni l'idea che essa sia necessaria come idea regolativa, divenendo perniciosa quando la si vuole realizzare concretamente.
2) Sulla decrescita. Temo che le criticità create da agricoltura intensiva e chimica, il supersfruttamento della terra, linquinamento di acque e aria, costringeranno ad una revisione radicale del nostro modo di abitare il mondo. Mi auguro che la tecnica aiuti in questa “transizione” (come si usa chiamarla), ma la lettura di alcuni maestri (penso soprattutto ad Illich) mi ha induce a credere che sia necessario un mutamento di paradigma, un'idea completamente diversa del ruolo dell'uomo nel mondo, un mutamento di sguardo (e qui il discorso si amplierebbe alle radici filosofiche del dominio tecnico e distruttivo dell'uomo sulla natura, ne parlo spesso e volentieri). Il “biologico” non è un lusso ma la forma che (ri)assumerà l'agricoltura del futuro, che tutelerà la diversità e porrà fine a disastrose monoculture. Produrre cibo cheap, per altro, è uno dei modi in cui l'economia capitalista ha sorretto il suo progetto “cannibalico”, che sta portando, purtroppo, il pianeta al disastro ecologico. Forse andrebbe rivisto anche l'approccio “bulimico” nei confronti del cibo attraverso una sana opera di prevenzione medica (una medica meno condizionata dalle grandi case farmaceutiche e più preventiva che curativa) educando a mangiare meno, meglio e in maniera sana. È un caso che l'obesità sia così diffusa tra le persone meno attrezzate culturalmente? Io credo di no. E vedo un lavoro sinergico in cui il cambiamento di abitudini alimentari (che è... salute!) trasformi anche l'agricoltura planetaria, e la tecnica consenta di superare l'orrore quotidiano di miliardi esseri immolati per nutrirci. Mi auguro che la carne “coltivata” consenta una svolta radicale in tal senso. Infine, non è secondario che l'agricoltura non intensiva e monoculturale tutela la biodiversità e le tradizioni locali.
Sulle conclusioni posso essere d'accordo. Certo, è necessario rilanciare la lotta per i diritti sociali e civili. È una delle strade possibili. Il mio pessimismo riguarda la volontà da parte degli agenti del capitalismo contemporaneo di accettare “limiti”, di ritornare nell'ovile del compromesso che ha retto l'Occidente tra il 1945 e il 1975 (circa). Certo, c'è una responsabilità soggettiva dei partiti socialisti europei in particolare (penso al partito socialista della seconda presidenza Mitterand, alla SPD tedesca, ovviamente al PCI italiano). Ma anche un oggettiva controffensiva del pensiero liberista, incarnatasi in teorie economiche egemoniche divenute prassi («la società non esiste»). E, ancora, le trasformazioni tecnologiche (in particolare, la rivoluzione informatica) davvero dirompenti.
Non ho ricette
semplici, ma il desiderio di capire quanto sta accadendo, e di dare un
contributo sia come educatore (insegnando ai miei allievi a decifrare il proprio
tempo così opaco) sia in forme di attivismo civile e politico alcune delle quali già
sperimento e altre che spero di incrociare nel mio complesso percorso, senza
garanzie, di impegno.
Sto leggendo, con un piacere che è pari solo alle aperture che percepisco nella mia testa rispetto a certi processi, l’ultimo libro di Carlo Galli (Democrazia, ultimo atto?). Come spesso mi capita negli ultimi anni, ne estrapolo dei passaggi particolarmente suggestivi, li monto con i miei rudimentali mezzi grafici, con il vezzo di un monogramma (ispirato al logo di “Giustizia e Libertà”).
Un caro collega, Gianluigi Panarese, che anima spesso e volentieri
le discussioni su temi di attualità sulla chat dei docenti, ha lasciato un
commento che riporto.
Ho promesso a Gianluigi una risposta articolata. È questa.
Scompongo il suo commento, breve ma densissimo di
sollecitazioni.
1)
Equivocando il senso della frase di Galli (che
stigmatizza, e fa benissimo, la cecità di buona parte della sinistra, che già
era non solo post-comunista ma anche, col senno di poi, post-socialista),
Gianluigi parla del fallimento del comunismo “reale” (quello sovietico e dei
paesi orbitanti intorno all’URSS, potremmo riflettere sul fatto che uno dei più
popolosi e ricchi paesi del mondo si definisce comunista, ma sarebbe discorso
altro, lungo e complesso). Per esso non ho alcun rimpianto, ovviamente. Posso solo invitare il collega a leggere il libro di
Galli, che è una mirabile ricostruzione a volo d’uccello del Novecento e del
primo scorcio di XXI secolo. La tesi è che la democrazia, in virtù della
dialettica sociale, politica ed economica, ha subito diverse modificazione,
arrivando alla sua ultima incarnazione: la democrazia al tempo del
neoliberismo. Galli la vede (giustamente!) in crisi (mettiamo in fila ripresa
dei conflitti, il ritorno del “politico” almeno dal 2001, crisi economica dal 2007,
crisi pandemica nel 2019) e prova ad immaginare cosa potrebbe accadere. Quindi,
il Nostro, che scrive su «Repubblica», non esattamente un organo bolscevico, è
solo un lucido, realista (ma anche critico) teorico della democrazia, vista in
maniera non astorica e atemporale ma incardinata nel proprio tempo cangiante. E
io con lui: la democrazia è “la” regola del gioco, il perimetro entro cui
realizzare società più (per me) o meno (per altri) eguali.
2)
Nella seconda sollecitazione Gianluigi evoca,
immagino, Beppe Grillo. In realtà, il personaggio non ha elaborato nulla di
originale: il tema della decrescita, che mi appassiona da almeno due decenni,
ha grandi teorici (non solo il più celebre, Latouche). Precisamente, il
sociologo francese parla di “decrescita conviviale” (riprendendo il tema da un
gigante del pensiero novecentesco, Ivan Illich). È invece Maurizio Pallante in
Italia che parla di “decrescita felice”. Non mi avventuro nel tema, anch’esso
ricchissimo. Quando militavo nel M5S dedicammo un approfondimento alla
questione. In ogni caso, la mia personale opinione è che sia un approccio
corretto e mi sorprende che una persona come Gianluigi, così legata alla cultura
della terra (come me) e alfiere della vita “sana” e semplice, non senta il
bisogno, ben oltre Grillo, di approfondire. Mi farà piacere,
dunque, continuare a parlarne con lui.
3)
Credo profondamente alla democrazia, ritengo che
vadano innestati momenti di democrazia diretta nel quadro di una inevitabile
rappresentanza (stante la mole degli Stati moderni), che rendano i cittadini
protagonisti delle decisioni ed evitino derive tecnocratiche (o post-democrazie
o democrature, come sta accadendo in alcune parti del mondo o dell’Europa
stessa). E sono convinto che una democrazia vitale e sana debba avere la forza
(politica!) di redistribuire la ricchezza prodotta e lavorare per l’eguaglianza
(attraverso servizi ai cittadini diffusi e di qualità). Il punto (che sempre
Galli rimarca) è il seguente: il capitalismo (che ha una storia lunga, almeno a partire dal 1300) nella sua configurazione attuale (neoliberista) è compatibile con la
democrazia di cui parli? È contenibile? Il capitalismo (Marx docet) non è “perfido”.
Rifuggiamo dalla visione moralistica della società e dell’economia. Il
capitalismo è… capitalismo! Cioè, un sistema economico il cui scopo è produrre
dal denaro più denaro. Punto. Non importa come. Lo si può temperare? Sì. Lo
dimostrano i “Trenta gloriosi” (1945-1975), in cui in Occidente crebbero
salari, profitti e diritti (con dure lotte, però, non lo si dimentichi). Ma,
cosa accadeva “fuori dall’Occidente”? Quel benessere, in cui il capitale
accettò di essere “contenuto” dalla virtù politica, non fu il portato di una
violenza invisibile altrove (in Estremo Oriente piuttosto che in Africa o
America Latina)? E, soprattutto, finito quel compromesso tra politica ed
economia, oggi il capitale è disposto a lasciarsi nuovamente contenere, dopo
che i suoi dioscuri (Thatcher nel Regno Unito e Reagan in USA) ruppero le sue
catene?
Chiudo. Tre sono le strade innanzi a noi:
1)
il capitalismo, libero da freni e controllo
politico, continua la sua opera di devastazione, producendo rifiuti di ogni
tipo (anche umani, come i disoccupati o i working-poor) e estraendo ricchezza
dalla natura e dalle periferie imperiali (Arrighi);
2)
la democrazia riesce a rimettere nel recinto il
cavallo fuggito e limitarne gli “spiriti animali” (con il ritorno dello stato
sociale e del welfare);
3)
il capitalismo viene superato da un’organizzazione
economica in cui il mercato ha evidentemente un ruolo importante ma non fagocita tutte le
sfere della vita, rivitalizzando l’etica del dono, la cooperazione (contro la
competizione), lo sharing, il tempo più che libero liberato, le relazioni
umane et cetera. Un altro paradigma non solo economico ma di società. Sempre Marx ci ha insegnato che il capitalismo non è "la" forma atemporale dell'economia ma una sua possibile configurazione.
Come già detto,
mi farà piacere continuare a parlarne con il collega perché la scuola è un
luogo, pur oberato da compiti inderogabili, dove, nelle pieghe, cresciamo
insieme tra diversi.
Oggi ho scioperato.
Ritengo questo che stiamo vivendo un momento importante della storia italiana nel contesto di una più ampia ridefinizione di concetti come capitalismo e democrazia. E ben ha fatto Pellizzetti a sottolineare che ogni svolta “a destra” (utilizzo la categoria per intenderci subito, dovrei declinarla), è sempre annunziata dall’attacco ai diritti del lavoro. Le esternazioni di Salvini e i titoli dei giornali vicini al governo vanno presi sul serio, malgrado possano apparirci delle smargiassate. Nascondono, se viste in filigrana, “lo” scontro del nostro tempo. Scontro di “classe” (anche qui utilizzo una categoria che andrebbe specificata, declinata, risemantizzata: la ricerca di parole nuove per dire il nostro tempo è parte decisiva del lavoro che stiamo facendo e dovremo fare, il cantiere è aperto e confuso).
Come scrive Carlo Galli nel suo ultimo, splendido libro, assistiamo, dopo decenni di “spoliticizzazione” (la presunta “fine della storia”, la globalizzazione come pacificazione del mondo attraverso il commercio universale), ad una ripoliticizzazione che rimette al centro i conflitti (dentro gli Stati e tra gli Stati). Come sempre, leggendo sempre insieme storia del mondo e storia personale, ne prendo atto. Inizia una fase nuova, dopo il tentativo “populista”, di cui sono stato partecipe e questo blog testimonia, soprattutto negli anni tra il 2015 e il 2018. Ed è finito con una sconfitta. L’intervista a Grillo, al di là della piccolezza umana del personaggio (in relazione alla tristissima vicenda del figlio che tristissima rimane quand’anche dovesse essere assolto dalle accuse di stupro), ne è certificazione (se ce ne fosse stato bisogno), almeno per la vicenda italiana.
Personalmente, ritengo doveroso, per il futuro, armarmi di realismo, nel contempo (sottilissima la cruna) esercitando la critica di ciò che è ma anche indicando una direzione diversa. Mi pare che dal punto di vista teorico si stia, finalmente, delineando un arcipelago di teorie, libri, autrici e autori che si sforzano di tenere insieme cose per per lungo periodo sono state separate, spesso confliggenti. Bisogna continuare ad affiancare una teoria nuova, che conservi il meglio delle tradizioni di lotta e trasformazione del mondo dei secoli scorsi, soprattutto il XIX e il XX, a prassi nuove, la cui ambizione non sia “il mondo nuovo” ma sempre maggiore libertà, sempre maggiore giustizia, in un’ottica plurale che renda complementari le rivendicazioni degli oppressi di ogni tipo (e di ogni specie), consapevole della responsabilità dell’uomo nei confronti della realtà naturale, nel definitivo superamento del dualismo di matrice cartesiana che, insieme alla creazione dell’individuo, è la base teorica della modernità (e del capitalismo liberale). Ed è per questo, come hanno ripetuto spesso Laclau e la Mouffe, non bisogna pensare a paradigmi unici ma a percorsi anche assai diversi tra loro e profondamente radicati nella storia dei propri paesi, delle proprie comunità di appartenenza. Il rischio più grande da cui guardarsi (ecco l’appello al realismo) è quello della tabula rasa. Sogno meraviglioso che ha prodotto spesso e volentieri incubi della storia. Lo dirò con le parole (belle) di una figura discutibile del secolo scorso: «Fai quello che puoi con quello che hai, nel posto in cui sei».
Sul finire degli anni Novanta io militavo in Rifondazione Comunista, che a Benevento contava poco (pochissimo…). Nell’ottobre del 1999 organizzammo un seminario (non memorabile, detto con l’onestà dei miei cinquantasei anni) con l’allora responsabile “cultura” di RC, Bruno Morandi, che aveva da poco scritto una Introduzione a Marx (Datanews, 1996). Il seminario si tenne a San Cumano, a casa mia, che qualche anno prima aveva ospitato gli incontri de “la rosa necessaria”. Sulla torre mettemmo una grande bandiera rossa. Vennero anche gli “eretici” del centro sociale (si chiamavano allora, poco prima che nascesse “Depistaggio”, “Rive Gauche”). Giancristiano Desiderio, che all’epoca dirigeva il «Sannio», volle dedicare all’evento un articolo, ovviamente stroncatorio. Io gli risposi. Così ci conoscemmo. Dopo di allora, c’è stato un rapporto di reciproco rispetto nella consapevolezza della distanza siderale che ci separava. In tal senso, l’esperienza della “Libera Scuola di Filosofia del Sannio”, con Amerigo Ciervo, fu un incontro tra diversi, durato, purtroppo, poco. Ora Giancristiano è una firma di prestigio del «Corriere della Sera», autore di decine di libri (tra cui spiccano quelli dedicati a Croce, di cui è divenuto, negli anni, uno dei maggiori cultori e conoscitori), l’ultimo dei quali ho letto in un pomeriggio, essendo dedicato all’autore che ci fece conosce: Karl Marx.
L'Anti-Marx. Anatomia di un
fallimento annunciato (Con lettere inedite di Pasquale Martignetti, traduttore
di Marx ed Engels, a Benedetto Croce) (Rubettino, 2023) è un agile volumetto
scritto nel consueto linguaggio dell’autore, piano e irto di impuntature
polemiche. Libro ambizioso, ma stroncare seriamente Marx, uno degli autori
ancor oggi più letti e studiati al mondo, avrebbe richiesto decisamente qualche
pagina in più...
Ci sono alcune cose che condivido
del libro (e che sono spesso oggetto delle mie lezioni liceali). Come Giancristiano, credo che l’influsso hegeliano sull’autore del Manifesto sia stato duraturo e pernicioso (stupisce, dunque, la totale
assenza di Popper nel libro ma anche della Arendt, entrambi critici finissimi
di alcuni aspetti del marxismo). Questa è tesi ricorrente: Marx non avrebbe mai
veramente superato la dialettica hegeliana, limitandosi ad un’opera di
sostituzione. Sicuramente avrebbe dovuto sviluppare maggiormente una tesi che
serpeggia (a partire dal titolo) nel testo, e cioè che in Marx ci sono in nuce
tutti gli errori e gli orrori del comunismo novecentesco.
Nel libro di Desiderio manca ciò
che è “vivo” (per citare autore a lui carissimo) di Marx, oserei dire
imperituramente vivo. E, dunque, ha gioco facile, contestato quello che lui
ritiene essere l’architrave del marxismo (cioè una storia tesa ineluttabilmente
alla “razionalità” che è il comunismo, lascito hegeliano), contestare l’intero.
Nei confronti dei grandissimi come Marx questo non funziona. Troppo grandi i
contributi che troviamo nella sua opera per la comprensione dei fenomeni per
trattarlo da “cane morto”. Dunque, si può non essere marxisti (è il mio caso da
svariati decenni) ma continuare a leggere con beneficio l’opera del Moro,
utilizzandone gli strumenti euristici. Contemporaneamente al libro di Giancristiano
ho iniziato a leggere il libro di Kohei Saito (L’ecosocialismo di Karl Marx,
Castelvecchi, 2023) che, con rigore filologico e recuperando i quaderni
“scientifici” del pensatore di Treviri, mette al centro della ricerca
l’ecologia in relazione all’economia. E il libro di Moore e Patel (Una storia
del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo,
Feltrinelli, 2018: straordinario), ottimi esempi di come Marx possa essere letto
e utilizzato nelle lotte del presente. Penso, infine, al magnifico lavoro che sta svolgendo Emiliano Brancaccio, utilizzando categorie marxiane, ad esempio, per la comprensione degli squilibri planetari (in particolare, la tendenza, intuita da Marx, alla centralizzazione dei capitali).
Più in generale, le mancanze del
libro sono ascrivibili all’ideologia dell’autore e al suo ruolo di
intellettuale “organico” (utilizzo volutamente categorie molto presenti nel libro).
L’esaltazione acritica della borghesia (non tutta evidentemente: quella che
controlla il capitale e decide le sorti del mondo) dimentica il ruolo che essa
ha avuto e ha nello sfruttamento (lavoratori salariati, schiavi, donne,
“diversi”, natura, per citare Moore) nel corso dei secoli (e Marx scriveva,
insieme ad Engels che ne aveva parlato distesamente, nel momento di maggior
sfruttamento del lavoro operaio). Dipingere la storia dell’Occidente come una
straordinaria vicenda di lotta per libertà e il progresso, dimenticandone il
“lato oscuro”, è pura ideologia. Nel contempo, ritenere che, tolta la scienza,
il socialismo possa essere solo utopia o riformismo significa, ancora una
volta, leggere ideologicamente la storia, dimenticando che tutte le conquiste
degli oppressi sono state il frutto di lotte, quasi sempre dimenticate (anche
in questo caso filoni diramatisi da Marx, che lo hanno corretto e aggiornato,
sono preziosi: penso a Wallerstein e Arrighi). Anche la borghesia, d’altronde,
è stata (dalla metà del XVII secolo) classe rivoluzionaria. Il “negativo” della
storia (e questo mi pare un lasciato marxiano straordinario) non si può
occultare. La natura non fa salti, la storia, per fortuna, sì!
Insomma, io credo che Marx sia
parte (fondamentale) di una storia di lotte e rivendicazioni, che come ogni
storia ha il suo carico di errori ed orrori, giuste perché finalizzate ad una
maggiore… giustizia! Proprio un liberale come Popper mi ha insegnato che la
storia non ha “telos” (scopo), e mi ha educato ad utilizzare il darwinismo, in
senso positivo, come schema di lettura del divenire (conflittuale, oserei dire…
dialettico!) storico (cioè non partire da un presunto fine, assente, verso cui
tutto sarebbe teso: la libertà piuttosto che la società senza classi).
Gli intellettuali “organici”
delle élite vorrebbero che esse avessero delega alla gestione tecnocratica
della società, al limite con la benevola partecipazione dei rappresentati
illuminati (riformisti) del “popolo” (utilizzo volutamente categorie
“populiste”). Questo accade in Italia dai tempi Manzoni, il cui capolavoro è
straordinario testo programmatico di questo modo virtuoso di gestire i
conflitti “dall’alto” (il popolo deve stare buono, altrimenti fa danni, come
Renzo a Milano, delegando la guida del mondo al Cardinale Federigo e all’Innominato,
fattosi altruista).
Quello che a Giancristiano, tutto
preso dal suo ruolo di apologista della fede (sì, una fede nel suo caso)
liberale, non riesce mai possibile è riconoscere, come fa invece Popper (come
già detto, il convitato di pietra del libro: non vorrei sbagliare, ma l'autore austriaco de La società aperta e i suoi nemici non è neanche citato in nota), che Marx era un sincero benefattore (cito a memoria) dell’umanità, il cui intento fu in parte corrotto (e qui, ribadisco,
convergo con Desiderio nell’individuare nel mai sopito hegelismo del Moro la
causa di questa corruzione).
Concludo: non sono marxista, se
il marxismo è una “fede” dogmatica (un “credo” come oggettivamente è stato per
molti: rivedere il bel film di Moretti, Il sol dell’avvenire), riconosco in
Marx un maestro con cui doveroso continuare a confrontarmi, prendendone il
tantissimo di utile che trovo nella comprensione di questo tempo, lo considero
parte di una storia di lunga durata che lo precede (almeno dalle lotte
trecentesche che percorsero l’Europa, come insegna Moore, agli albori del capitalismo)
e, mi auguro, durerà nei secoli. Non fino all’instaurazione del paradiso in
terra (e maledetta la “teologia politica” che ha ispirato queste sogni della
ragione), ma, tra sconfitte e vittorie, per rendere più accettabile la
condizione dei soggetti sfruttati, sottomessi, offesi (umani e non), per
trovare modi di convivenza migliori tra uomo e ambiente, per ridonare a
ciascuno una vita meno alienata, sapendo che la sofferenza, il male, il dolore,
la mancanza sono elementi strutturali della vita, e, dunque, senza mai
illudersi di poterli “abolire”.
Post scriptum del 5 novembre («Remember, remember the fifth of November…»)
Negli anni, leggendo Marx e dovendolo spiegare scolasticamente ai miei allievi, mi sono convinto che fu disperazione quella che indusse lui - che era diventato democratico e poi socialista per empatia nei confronti della sofferenza umana - ad elaborare una filosofia della storia teleologica: avendo patito, da attivista qual era, la frustrazione e il fallimento, spostò dalla volontà umana alla ragione immanente alla storia e ai processi socio-economici (intuizione che trovò ovviamente in Hegel) il soggetto agente, dando così un potente (e pericoloso) strumento non solo di lettura del divenire ma anche di azione. Le cose che scrive Popper nei suoi corposi volumi di filosofia politica sono assolutamente esaustive sui rischi di un sapere “totalizzante”.
Ti scrivo con la semplicità che mi contraddistingue, i miei pensieri potranno sembrarti elementari e forse scontati ma nascono da un cuore umile e sincero.
Interpreto la poesia sempre nel modo a me più congeniale, quello che mi dona una sorta di "benessere spirituale", quello che mi permette di far diventare la poesia stessa non "cosa astratta" ma "vivente", e magari spesso vado fuori strada rispetto al messaggio che l'autore vuol far arrivare al lettore... ho questo difetto "c'aggia fa".
I tuoi versi sono, per me, sempre "tempesta buona", di quelle che travolgono, sì, di emozioni, ma in egual misura di verità.
Una raccolta "EXTRAVAGANTES" dove la bellezza dei sentimenti viaggia sullo stesso vagone della sofferenza senza però essere da essa sopraffatta, dove i ricordi diventano insegnamenti d'amore "per la vita e i suoi doni misteriosi e inattesi".
Scorrendo le pagine, si acquisisce la consapevolezza che i legami affettivi non sono "fusione" con l'altro, "ma reciproco dono di corpi, parole, silenzi", "si accolgono le fragilità" di chi cammina al nostro fianco, trasformandole in un punto di forza e non di debolezza.
Chi come te "preserva la funzione benefica del sogno" attraverso la poesia, diventa, per chi come me "rivolge lo sguardo alle stelle di sera" con lo stupore di vederle ancora, la luce di un faro da seguire per non smarrirsi nel "nulla anonimo" e cercare, ora e sempre, "il bene e il bello. Insieme".
Una piccola raccolta di grande impatto, in cui le parole scorrono armoniosamente con i tratti di grafite e i colori di Gaetano Cantone, alimentando il fiume delle emozioni, che troppo spesso, per i ritmi frenetici del quotidiano, lasciamo "in secca".
In perfetta sintonia con il tuo "pensiero poetante"... io resto "in ascolto".
Come un figlio inatteso, frutto di distrazione, ma non per
questo meno amato.
Ecco cosa è Extravagantes (che uscirà il 10 maggio).
Domenico Cosentino, insieme a Flavia Peluso bella scoperta,
quasi casuale dello scorso anno, coraggioso promotore dell’esperienza Casa Naima, che è riduttivo definire libreria, essendo soprattutto un luogo di
aggregazione per affamati di libri in cerca di dimora, editore con ’roundmidnight edizioni,
un giorno, nelle pause degli incontri di poesia che stiamo tenendo da lui, mi
ha regalato un quadernetto dicendomi che avrebbe pubblicato quel che vi avrei
scritto. Io non sono scrittore prolifico. In rampa di lancio ci sarebbe il “terzo
figlio” programmato (Spes contra spem che ha vinto il Premio Sanremo e dovrebbe
uscire entro l’anno). Ci sarebbero voluti anni per produrre un nuovo libro.
Febbrilmente, allora, mi sono messo a rivedere antichi versi, scartati per i
motivi più vari da Per aspera e Nel chiaro mondo, versi su cui avevo lavorato
anche tanto. Alcuni li ho modificati, altri li ho ripresi così com’erano. Il
titolo, dunque, di questa terza, anch’essa breve raccolta, è Extravagantes.
Spero, dopo la spiegazione, che sia chiaro il motivo.
Il libriccino è impreziosito dalla copertina e dai disegni
di Gaetano Cantone. Lo considero il sigillo di una oramai antica amicizia e di
tanti percorsi che abbiamo condiviso. Glie ne sono sinceramente grato.
Inutile dire che ogni libro è costruzione di sé. Quindi,
sono riconoscente a Domenico che lo ha fortemente voluto.