domenica 28 febbraio 2016

Ricercare



Continua a sognarli i nuovi inizi,
le palingenesi cosmiche,
le adolescenze di spiriti e corpi.
Eppure, con misura e protervia,
abita la carne precaria che sei,
miscela, sapiente, il dolce e l’amaro,
con umiltà mai doma, accetta
la creatura imperfetta che sei,
da sempre.



6 febbraio 2014

Marco Guzzi [Fratello, per donarti, per creare...]


sabato 27 febbraio 2016

Angelus Silesius [Devi essere ciò che è Dio]


intelligenza collettiva/connettiva e politica



Un recente inserto del Sole 24 Ore («Nòva. Lezioni di futuro», n. 14) è dedicato alla intelligenza collettiva. Sottotitolo: Come funzionano le reti di informazioni e che cosa ci possiamo fare. Ne intreccio il contenuto con le riflessioni degli ultimi anni dedicate al pensiero politico (e filosofico) di Hannah Arendt. In America la pensatrice ebreo-tedesca ebbe l’ardire di coniugare la ripresa heideggeriana della distinzione fra ποίησις (che il suo scopo fuori di sé, ad esempio nel plasmare un manufatto) e πρξις (che ha il suo scopo in sé, ad esempio nel suonare il flauto), distinzione presente in Aristotele, con una originale (e geniale) rilettura della Critica del Giudizio di Kant, secondo la quale la facoltà del Giudizio sarebbe eminentemente “politica”, rendendo possibile l’accordo (non fondato su giudizi “conoscitivi”, quelli che sono alla base della scienza) fra gli uomini.  Sia in Vita activa che nelle lezioni rimaste allo stato di frammento raccolte in Che cos’è la politica? la Arendt ribadisce continuamente che la politica ha a che fare con la pluralità degli uomini, con il fatto che non c’è l’Uomo ma gli uomini. Ho sempre pensato che la filosofia della Arendt fosse l’unica in grado di pensare il superamento del platonismo politico che, in forme diverse, domina la tradizione occidentale. In senso lato, indico come platonismo politico ogni filosofia politica che mira alla reductio ad unum della pluralità costitutiva della sfera politica attraverso il principio della delega (ad un monarca o ad un’assemblea) da una parte, dall’altra ogni filosofia politica che pensa la politica come sfera riservata ad una schiera eletta di filosofi, specialisti, tecnici.
Superare Platone, dunque, significherebbe da una parte ritenere impropria ogni reductio ad unum, valorizzando la costitutiva pluralità dell’umano, in ambito politico, dall’altro, recuperando la radice sana della democrazia ateniese, iniziare a pensare che ogni cittadino, in quanto tale e a prescindere dalle competenze di cui è portatore, debba essere chiamato a decidere della cosa pubblica.
L’evoluzione dell’umanità, che ha avuto tappe decisive nell’invenzione della scrittura e della stampa a caratteri mobili, oggi, grazie alla connettività planetaria, rende possibile immaginare la concreta realizzazione della teoria politica arendtiana, per altro prefigurata in ogni esperienza (dalle assemblee rivoluzionare americane ai soviet del 1917 in Russia) in cui gli uomini sono stati chiamati a partecipare senza delega e in quanto cittadini alle decisioni che li riguardavano. L’intelligenza connettiva può trasformarsi in intelligenza collettiva, in cui ciascuno, rimanendo se stesso, contribuisce alla soluzione di problemi della collettività. 
Il salto evolutivo è vertiginoso. Val la pena pensarlo e prepararlo.

Guerra e pace



Alla pace ineffabile non anelo
in questa vita. Guarisco per crisi,
rivoluzioni e scontri permanenti
campali di cellule e batteri.

Che il conflitto sia.

Forze in tensione,
cavalco una potenza buona e vitale.
Genero con l’arco e la lira.


San Cumano, 9 agosto 2014

Ferlinghetti [Invece di tentare...]


venerdì 26 febbraio 2016

ma ora verranno le stelle... * * * * *


Chi sono. La mia storia

 Mi chiamo Nicola Sguera. Ho quarantotto anni. Insegno storia e filosofia al Liceo Giannone di Benevento. Considero il mio il lavoro più bello del mondo.
Ho sempre ritenuto doveroso impegnarmi per la mia città. L’attivismo civico è un dovere cui nessuno dovrebbe sottrarsi. È un “servizio civile” a tempo. Disertare la scena politica significa abbandonarla nelle mani di professionisti della politica che asserviscono la cosa pubblica alle proprie ambizioni, come è accaduto a Benevento e rischia ancora di accadere.
Ho contributo, sin dagli anni Novanta, a promuovere iniziative, soprattutto in campo culturale, con varie associazioni, molte della quali da me fondate. Non si dà una politica nuova senza una cultura nuova. Benevento ha bisogno di una rivoluzione che sia nello stesso tempo politica, antropologica e culturale.
Nel 2001 fui candidato sindaco di una lista civica, “Città Aperta”. I valori cui si ispirava erano la tutela del territorio e dell’ambiente, la giustizia sociale e la solidarietà.

La mia storia politica. Perché il M5S


Sono stato un uomo di sinistra perché ho sempre creduto in questi tre grandi ideali (anche se un autorevole giornalista scrisse un pezzo dal titolo: Perché Sguera è di destra). Non rinnego quello slancio ideale. Ho aderito al M5S perché ritengo tramontata la dialettica novecentesca di destra e sinistra, entrambe eterodirette da grandi potentati economici, e perché il M5S è l’unico soggetto politico che porti avanti battaglie in cui mi identifico completamente: elementi spinti di partecipazione e democrazia diretta, ripristino della legalità, vita dignitosa per tutti, ripristino della sovranità monetaria.

Andare verso il popolo

Il M5S incarna un sano spirito di rivolta contro interessi e poteri cristallizzati, che bloccano l’Italia così come Benevento, distinguendo “sommersi e salvati”, esclusi ed inclusi. Io rivendico la radice “populistica” di questo impegno politico, come Dario Fo. Populismo significa ascoltare i bisogni delle persone comuni. E rivendico la coralità del mio impegno. «Mi rivolto dunque siamo».
Se dovessi scegliere uno slogan per sintetizzare tutto ciò direi a ciascuno di voi e a ogni cittadino beneventano: «You never walk alone». Questa città ha mostrato, proprio nella catastrofe dell’alluvione, di avere ancora solide radici comunitarie, una preziosa risorsa cui attingere.

Noi siamo una squadra

Marianna Farese, Vittorio Giangregorio e Gerardo Mercurio godono della mia totale fiducia e stima. Abbiamo lavorato gomito a gomito in questi mesi e in quelli precedenti, all’interno di un gruppo plurale ma coeso. Abbiamo contribuito a redigere la Bozza di Programma che nelle prossime settimane tutti leggerete e integrerete. Siamo lontanissimi dalle faide interne al PD, dalla lotta per il potere senza esclusione di colpi proibiti a colpi di seggi unici. Se sarà uno di loro a guidare la nostra lista alle amministrative io ci sarò con tutti il mio entusiasmo, perché si vinca e si mandi via una casta di politici professionisti che si è ingrassata su una città che andava in rovina.
Noi siamo una squadra. Insieme a tutte le persone che sono alle mie spalle. Vedrete in questi giorni uomini soli al comando: dall’usato sicuro (ma con un quarantennio di politica alle spalle non sarebbe meglio parlare di politico “vintage”?) al giovane direttore d’orchestra che stecca ad ogni esecuzione. Anche se accompagnati da frotte di cortigiani plaudenti resteranno uomini soli. Noi qui ora siamo già una moltitudine coesa, con un obiettivo comune, senza ambizioni personali.

Il mio impegno

 Il mio impegno peculiare sarà quello di ascoltare, in tutte le modalità possibili, le istanze che provengono “dal basso”, di attuare una politica fortemente partecipata. Non abbiamo più bisogno di “uomini della Provvidenza”, di special one, ma di persone capaci di fare rete, di ascoltare, di cooperare. Benevento rinascerà solo grazie ad uno sforzo collettivo e condiviso che metta al centro poche cose essenziali: la tutela dell’ambiente, il corretto e trasparente uso delle risorse pubbliche, la riduzione dei costi della politica, l’aiuto sistematico alle famiglie e alle persone in difficoltà.
Non solo bisogna smettere di credere negli uomini della Provvidenza con tutte le soluzioni in tasca, ma bisogna avere il coraggio di affidarsi all’intelligenza collettiva e di trovare gli strumenti perché essa si esprima. Se io sarò il candidato Sindaco sarò un Portavoce. Portavoce di tre cerchi concentrici: il primo è quello degli attivisti del M5S, cittadini attivi che condividono un programma che hanno contribuito a redigere, il secondo è quello dei simpatizzanti del M5S, il terzo è quello di tutti i cittadini beneventani. Se riusciremo in questi anni a sollecitare una partecipazione attiva e critica dei cittadini, a prescindere dalle percentuali di voto, avremo avuto un grande successo.

Concretezza e utopia

 Il Comune di Benevento, gestito da professionisti della politica pieni di ambizioni personali, versa in una situazione disperata: il fallimento dell’Azienda dei Trasporti, AMTS, ne è plastica dimostrazione, con le sue conseguenze drammatiche sui cittadini e sui lavoratori dell’Azienda stessa. Dobbiamo essere onesti con noi stessi e con la città, essere pragmatici e rimanere con i piedi per terra. Risanare non sarà né facile né semplice. E quindi tutti noi siamo chiamati ad essere estremamente realisti. Noi siamo capaci di riparare le buche e tenere le strade in ordine perché non dobbiamo lucrare facendo la cresta sugli appalti.
Ma questo non basta. È necessario ricominciare ad avere un sogno, che manca da troppi anni a Benevento. Gestire la mobilità urbana non significa solo manutenere le strade ma ripensare daccapo tutto, fornendo a ciascun cittadino la possibilità di spostarsi come meglio crede, a piedi in bici, sui mezzi pubblici, solo in caso di necessità con la macchina personale, e piantare alberi che depurino l’aria e molte altre cose ancora. Dobbiamo essere, dunque, capaci di agire nell’immediato, con concretezza, ma anche di aprire il futuro, senza paura. Lo dobbiamo ai nostri figli.

La rivoluzione gentile

Sono solito parlare di una “rivoluzione gentile” che sta iniziando, qui ora. Un apparente contraddizione, un ossimoro? No. Noi dobbiamo essere capaci di cambiare radicalmente questa città, dalle fondamenta, ma farlo con la persuasione, invitando ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità, a reclamare diritti e a rispettare doveri.
Una rivoluzione gentile per persone concrete e sognatrici, insomma: capaci di stare con la testa fra le nuvole ma con i piedi ben piantati per terra.
Potremmo dire che Benevento ha vissuto una notte buia e tempestosa.
Che il cielo era pieno di lampi...
ma ora, questa la mia certezza, verranno le stelle.

(Hotel President, 21 febbraio 2016
Presentazione lista e programma M5S)

Ordine della vita


Alla fine, quando tenti, per l’ennesima volta,
di dar ordine alle cose della vita, ti accorgi
con stupore che si tratta, in fondo, di pochi file,
qualche foto veramente importante, due o tre date
imprescindibili. Volendo basta una cartella per dir tutto,
anche a caratteri grandi e interlinea uno e mezzo.


Benevento, 8 dicembre 2014

cultura, scuola e uomo nascente


La cultura della modernità tende a strutturarsi come luogo separato. La “castalia” (Hesse, Il gioco delle perle di vetro) ne è fedele immagine, ma è solo un’impressione. In realtà la scuola stessa si sta adeguando rapidamente alle richieste di una società che ha ben chiare le sue parole d’ordine. L’unità dei saperi rischia di ridursi a al possesso di una grande capacità di adattamento, quell’imparare ad imparare che risulta fondamentale in un mondo che conosce repentine trasformazioni produttive, e i cui presupposti di competenze e conoscenze i produttori non vogliono accollarsi. Esistono esempi di sistemi formativi fondati sull’unità dei saperi: penso all’Accademia platonica ma anche alle prime università. In entrambi i casi si serviva la verità (nessuno risponda: quid est veritas? perché senza la tensione verso di essa crolla l’idea stessa di sapere, di cultura). L’unica verità del nostro mondo, lo ripeto fino alla nausea, è la produzione, fondamento caduco il cui portato è sotto gli occhi di tutti. So che è vicino il tempo del tramonto della “terra del tramonto”, l’Occidente mondializzato. Nel tramonto anche le ombre dei nani sembrano quelle di giganti. Ma noi non vogliamo essere nani, neanche sulle spalle dei giganti (immagine ricorrente nel Nome della rosa). Perché non essere giganti sulle spalle dei giganti? Dare risposte forti ad un mondo che si accontenta di “pensiero debole”, pensiero sfinito…
Il mio compito non può che essere quello di additare i segni del tramonto necessario dell’Occidente e di ciò che nasce di nuovo: «Porre fine a quell’eterno conflitto fra il nostro sé e il mondo, ristabilire la pace delle paci che è più alta di ogni ragione, congiungerci con la natura, con l’uni­tà di un unico, infinito Tutto» (Hölderlin). Il Nascente solo può costituire l’unità dei saperi, poiché la vita, nella sua potenza generatrice, è olistica, organica. Contro il «fango delle cifre», il rapporto meccanico tra “materie” morte al servizio della produzione della morte (psichica e fisica). Perché il mondo non sia più la “terra desolata” di questo secolo:

Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine
E finire è cominciare.
La fine è là donde partiamo. E ogni frase
Ogni proposizione che sia giusta (quando ogni parola è al suo posto,
E fa la sua parte per sostenere le altre,
La parola né diffidente né sgargiante,
Partecipe del vecchio e del nuovo senza sforzo,
La parola comune esatta senza esser volgare,
La parola formale precisa ma non pedante,
In armonia perfetta, come compagni di danza)
Ogni frase o proposizione è una fine e un principio,
Ogni poema un epitaffio. Ed ogni azione
È un passo verso il patibolo, il fuoco, la gola del mare
O verso una pietra illeggibile: e di lì incominciamo.
Noi moriamo con quelli che muoiono:
Ecco, essi partono, e noi andiamo con loro.
Noi nasciamo con i morti:
Ecco, essi tornano, e ci portano con loro.

(T. S. Eliot Quattro quartetti)


[2000]

giovedì 25 febbraio 2016

Pater



Fui un buon padre?
Solo tu potrai dirlo: il resto
sarà maldicenza o gloria vana,
inutile orpello nel tempo finale,
quando tutti saremo vagliati
per pensieri, parole e omissioni.

Ma so che in un luogo profondo di te
riverbera ancora l’eco d’un canto
sgraziato, assoluto, si spande l’odore
di pelle che sposò la tua culla.

Sono un uomo. La mia vita piena di sbagli.
Quando, donna, li saprai uno ad uno,
giudica con indulgenza,
e cerca quella stanza dell’anima
dov’è viva la voce che leniva
il tuo pianto, ti guidava nel sonno
lungo il mare della notte agitato.

Che tanto di me rimanga.
Abbastanza.


San Cumano, 8 luglio 2014, al lume di candela

roma



Noi abitiamo spazi creati per lo più dai romani e moltissime città italiane conservano monumenti e tracce di quella Roma. Benevento è tra quelle città.

Ho avuto la fortuna di ascoltare le lezioni (le ultime) di Santo Mazzarino e con lui di fare l’esame di storia romana. Ciò nonostante continuo a nutrire fortissime resistenze nei confronti di questa civiltà. Per la mia educazione cristiana? Per l’odio istintivo nei confronti dei potenti? Non lo so, anche perché Roma, ad uno sguardo ravvicinato si frastaglia nelle sue vicende e nei suoi usi. Continuo a credere che complessivamente la cultura romana sia di gran lunga inferiore a quella greca. Anche quello che a mio parere è il maggior autore latino, cioè Lucrezio, è debitore di Epicuro. Al di là di questo, ciò che mi respinge della civiltà romana è il culto della forza che diventa imperialismo. Certo, ho letto le Memorie di Adriano della Yourcenar: grande libro che apre molti squarci su quel mondo. Ma, ad esempio nella vicenda degli Ebrei, non cogliamo quello spirito di conquista, pure magnanimo, ma comunque di conquista che non tollera alcuna autonomia? Probabilmente è un mio limite, da superare con studi approfonditi: forse se riuscissi a leggere quella romana come una civiltà tradizionale, a coglierne prioritariamente la pietas che ne domina i comportamenti, il senso del sacro che la pervade, potrei smettere di credere, come Simone Weil, che quasi tutto sia spregevole in quella civiltà («I romani erano un manipolo di fuggiaschi conglomerato artificialmente in una città; ed essi hanno strappato alle popolazioni mediterranee la loro vita, la loro patria, la loro tradizione» (La prima radice, p. 52). Fino ad ora non ci sono riuscito. La mia impressione complessiva è comunque di una distorsione, di cui io stesso sono stato vittima, dei valori di quella civiltà. So, però, nei confronti di quale retaggio romano sarei critico: sicuramente la centralità dell’organizzazione militare (giustificata inizialmente da guerre difensive ma poi divenuta strumento di una politica imperialistica). Cosa valorizzare? Sicuramente la percezione del romano antico di vivere in una città abitata dagli dei, poi la tolleranza nei confronti delle altre civiltà e il rigore nel codificare i rapporti, i valori tradizionali come la pietas esemplificata dall’Enea di Virgilio «che in spalla / un passato che crolla tenta invano / di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo / ch’è uno schianto di mura, per la mano / ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto» (Giorgio Caproni, Il passaggio di Enea). Ancora e sempre, comunque, cercare ciò che può tornare a vivere, abbandonando una prospettiva archeologica e antiquaria, la stessa che colpì negativamente il giovane Leopardi nel suo soggiorno a Roma: vi cercava gli antichi valori e la virtus degli eroi e vi trovò discussioni di vecchi ammuffiti.

mercoledì 24 febbraio 2016

democrazia



«La razionalizzazione totale e la modernizzazione in cui si incarna, esige, in particolare, una nuova collocazione delle masse: una permanente mobilitazione che operi uno sradicamento assoluto. Ogni individuo deve essere strappato a ogni tradizione, a ogni consuetudine, a ogni forma di vita consolidata e deve mettersi a disposizione del meccanismo della generale permutabilità. La razionalizzazione deve essere integrale, deve neutralizzare ogni significato che non sia la crescita della produzione e la competizione per l’accesso a una quota di ricchezza [...]. La vita è trasformata in corsa, l’energia vitale in carburante per conseguire il possesso e il consumo di oggetti nella maggior quantità possibile. La meta è sempre oltre, il desiderio non può mai essere saziato, il processo della razionalizzazione deve strutturarsi come pura processualità sciolta da vincoli e da condizionamenti passati o futuri: ciò che conta è che le aspettative crescano, che non si fermi mai la corsa.
L’individuo è trascinato come da un fiume in piena, dalla potenza della ratio produttiva. Perciò debbono essere strappate le radici della individualità e della socialità tradizionali: la tradizione, il passato debbono essere distrutti. Ma anche il futuro non può essere oggetto di “rappresentazione”, di progetto. La ratio produttiva non ha tempo, o meglio ha il tempo astratto dell’attualità permanente, della precarietà della moda».
Così scriveva alcuni anni fa Pietro Barcellona in Lo spazio della politica (Editori Riuniti). Come può, mi dico la scuola, essere palestra di democrazia, stante l’assolutezza di questo valore, che pure oggi potrebbe essere messo in discussione (e penso alla dichiarazioni di Soros sul “totalitarismo del capitale”)? Da questo punto di vista credo che solo l’uso consapevole di una didattica democratica possa essere utile come responsabilizzazione all’impegno politico. Intendiamoci: non mi faccio illusioni. La società odierna non ha bisogno di spiriti critici ma solo di cervelli brillanti, non di “tafani” ma di brillanti sofisti, imbonitori politici e televisivi. Non credo che ci saranno molti spazi operativi (anche perché il “micropotere” dà alla testa anche alle persone apparentemente più sobrie: potrei ritrovarmi tra vent’anni ad essere un docente autoritario!). Vorrei educare i ragazzi ad acquisire il punto di vista della Arendt, la cui proposta consiste in una riabilitazione del politico, inteso come “spazio pubblico” di azione e di libertà. La politica non è da lei intesa più come lotta per il potere, ma come “modo di espressione di sé” e della propria libertà. E che cos’è la libertà? «Il miracolo della libertà è insito in questo saper cominciare, che a sua volta è insito nel dato di fatto che ogni uomo, in quanto per nascita è venuto al mondo che esisteva prima di lui, e che continuerà dopo di lui, è a sua volta un nuovo inizio». Questo vorrei insegnare ai miei allievi:  a non credere nell’immutabilità del mondo (come la mia generazione credeva nell’eternità dell’URSS). Ciascuno di loro dovrà sapere - proprio perché “neo-nato” - che ha la potenzialità di dare nuova nascita al mondo: «Come vivere senza ignoto dinanzi? Gli uomini d’oggi vogliono che il poema sia a immagine della loro vita, fatta di così poco rispetto, di così poco spazio, e bruciata d’intolleranza. Perché non è loro più lecito agire supremamente, nella preoccupazione fatale di distruggersi distruggendo il prossimo, perché la loro inerte ricchezza li frena e li incatena, gli uomini d’oggi, affievolitosi l’istinto, perdono pur conservandosi vivi, persino la polvere del proprio nome. Nato dal richiamo del divenire e dall’angoscia della ritenzione, il poema, sorgendo dal suo pozzo di fango e di stelle, testimonierà, pressoché in silenzio, che nulla era in lui che già non fosse esistito realmente altrove, in questo ribelle e solitario mondo delle contraddizioni» (René Char).
Attraverso la bellezza (che è verità) scopriranno di poter trasformare il mondo, temprando qualunque tentazione demiurgica nella scoperta della vera presenza dell’altro in una dimensione politica vissuta come libera scelta: «Il suggerimento indistinto di una libertà smarrita o da riconquistare - l’Arcadia dietro di noi, l’Utopia davanti a noi - bussa alla soglia più remota della psiche umana. Questo pulsare fantomatico sta al cuore delle nostre mitologie e concezioni politiche. Siamo creature frustrate e consolate a un tempo dal richiamo di una libertà appena fuori della nostra portata. C’è un campo in cui questa esperienza di libertà si dispiega. C’è una sfera della condizione umana in cui essere significa essere liberi. È la sfera del nostro incontro con la musica, con l’arte e la letteratura» (Steiner).
Simone Weil è probabilmente la pensatrice cui più mi sento vicino in questi ultimi anni, per il suo percorso sempre aperto, per il suo sforzo di coniugare un impegno politico mai dogmatico, scaturente dalla compassione per la sofferenza degli esseri, con una tensione spirituale altissima, anch’essa non dogmatica ma aperta ad ogni linfa vitale delle tradizioni religiose. Per questo mi piace concludere con una sua citazione, che afferma la necessità di un impegno individuale nel passaggio di millennio che stiamo attraversando: «Viviamo in un’epoca che non ha precedenti, e nella situazione presente l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve ora essere totalmente esplicita. Il linguaggio e tutto il modo d’essere ne devono essere impregnati.
Oggi non è sufficiente esser santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti […].
Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce d’improvviso, una invenzione. Fatte le debite proporzioni, mantenendo ogni cosa al proprio posto, è quasi un fatto analogo a una nuova rivelazione dell’universo e del de­stino umano. Significa mettere a nudo una larga porzione di verità e di bellezza sino ad ora nascosta sotto uno spesso strato di polvere. Esige più genio di quanto sia occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fi­sica: una santità nuova è un’invenzione più prodigiosa».


martedì 23 febbraio 2016

Spiga di carne


La spiga nutrita di sole
ritesse la mano e i suoi solchi
bruniti.
Se l’uomo e la donna
la carne e la terra rilegano
lì della semina è vera custodia.
Sepolta speranza che un’umida
messa attende dal cielo. 

(Nel 2014 sono stato invitato a partecipare ad una suggestiva manifestazione in provincia di Avellino. Ho contributo con una poesia nata a partire da questa fotografia)

analisi del testo


Mi ha colpito che per la preparazione del concorso [quello del 2000] si siano utilizzati testi scritti quindici, venti anni fa. Dieci anni fa, quando ero alla facoltà di Lettere della Sapienza, circolavano per gli esami di letteratura contemporanea i testi di Paul de Man, capofila del decostruzionismo americano. Oggi, nel nuovo millennio, devo ritrovarmi il ciarpame prodotto da menti sterili? Come direbbe il professor Keating, facendo strappare l’orrida introduzione all’antologia letteraria dei suoi alunni in Dead poet’s society (L’attimo fuggente di Peter Weir), «strutturalisti e semiologi, andate con Dio». In ogni caso ho lavorato (ho dovuto lavorare!) per acquisire tali strumenti, sapendo però che sono strumenti, utili come altri, ma che se diventano fine (questo è ciò che accade) degenerano. L’analisi o diventa uno sterile esercizio di abilità o un divertente gioco. In ogni caso viene eluso l’incontro reale (nel senso steineriano), che presuppone un “mettersi in gioco” radicale: «Sono il poeta, il compositore, il pittore, sono il pensatore religioso e metafisico, quando danno ai loro riscontri la persuasività della forma, a insegnarci che siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione. Ci parlano del peso irriducibile dell’alterità e della clausura inerenti alla materia e alla fenomenalità del mondo fisico» (G. Steiner, Vere presenze, p. 137). I poeti (e gli scrittori in genere, quelli veri, non, dico, un Umberto Eco), vogliono essere presi sul serio, perché hanno investito la vita nella propria opera. È casuale che alcuni grandissimi scrittori siano impazziti? Non è vero che hanno messo in moto forze psichiche che normalmente restano assopite? Allora, via anche dalle scuole l’idea della letteratura come lusus, senza spirito totalitario. La poesia è un luogo rivelativo della verità, ma della verità non come dato di cui potersi impadronire (a questo si avvicina invece l’idea di un’analisi “rigorosa”, scientifica), bensì della verità come evento, che presuppone un rapporto vivo nel gruppo-classe tra il maestro e gli allievi. E prima di tutto, mi sia consentito, la verità della poesia (la promessa della verità) è nella rottura del ritmo ordinario, “prosaico”. Ho conosciuto pochissimi professori che sapessero leggere poesia. Io credo (e questo, per fortuna, l’ho visto sottolineato nel documento sui Saperi di base) che la poesia debba essere prima di tutto eseguita come una partitura musicale. In questo prima il docente deve essere bravo e poi deve saper spingere il suo gruppo a seguirlo. Solo in questo modo il “significante” (!!!) diventa significativo. Gli antichi ben conoscevano l’importanza di quello che Dante chiama nel De vulgari «legame musaico». La dissoluzione novecentesca del verso non ci autorizza a trascurare quest’aspetto (così come la dodecafonia non è la fine della musica o l’astrattismo della pittura). Dischiude un altro mondo. Ma a questo dobbiamo educare: ad essere buoni lettori in un mondo in cui non esiste più un “canone” (malgrado l’eroico tentativo di Harold Bloom).
Tutto questo presuppone un amore vitale per la letteratura (continuo a chiamarla così per comodità) che spesso manca in chi dovrebbe trasmettere. La mia unica ambizione è creare liberi lettori, persone che fanno della lettura uno strumento di orientamento nelle proprie vite, non eruditi o bibliofili. Anche una certa anarchia nella lettura, dunque, come quella prospettata da Daniel Pennac in Come un romanzo, può essere strumento inizialmente utile. Sicuramente una didattica democratica deve educare alla pluralità delle possibili interpretazioni senza cadere nella deriva ermeneutica (Derrida e i decostruzionisti).
Marco Guzzi è un poeta tra i maggiori di questi anni (anche se immagino, come tutti i poeti italiani al di sotto dei settant’anni, conosciuto da pochissimi). Nel mio percorso l’incontro con lui è stato senz’altro decisivo: ha avviato una riflessione tuttora in atto. In particolare mi ha educato ad una nuova capacità di ascolto di un pensiero poetante che abbia come fine la vita “antropocosmica”, in una prospettiva davvero “olistica” (d’altronde «Olis» si chiamava la rivista da lui diretta per un anno). Credo che in esperienze intellettuali e spirituali come le sue stia nascendo qualcosa di nuovo in una cultura per lo più putrescente. Concludo questa voce con le sue parole: «Il nostro pensare, dunque, il nostro conoscere è creativo, e la gioia, come mistero spesso velato della nostra vita, suo interiorissimo segreto, si manifesta in noi proprio come creatività libera, come poeticità, se lasciamo risuonare questa parola come non risuona da millenni, o forse, più precisamente, come mai ha potuto risuonare finora. 
L’uomo è l’essere che crea. L’essenza dell’uomo è poetica.
L’uomo è l’essere che canta la fioritura sempre nuova del creato.

L’uomo è il cantore che cantando crea, procrea, e che conoscendo produce ciò che conosce, come il musicista conosce la propria musica solo creandola, e la può creare solo se la conosce, secondo una modalità però intuitivo-auditiva della conoscenza, che è essenzialmente ascolto poetico. Conoscere è creare, ma questa conoscenza produttiva (Char) è in realtà un filtrare luce-vita-verità nel più perfetto e puro ascolto, e cioè in un atteggiamento di ricezione. Non c’è una libertà d’arbitrio nella conoscenza creatrice; ma una libertà d’amore, che si realizza in un rapporto stringente, ma non costringente, con la sorgente dei doni. La creatività di cui parlo non è arbitraria, è la modernità che a volte si è illusa che l’uomo potesse creare dal nulla o a proprio piacimento. L’uomo al contrario può creare soltanto in una grande fedeltà di ascolto, proprio come l’atto poetico ci insegna» (2000).

lunedì 22 febbraio 2016

Eraclito [L'insperato]


Ringraziamento



Rendere grazie voglio per ogni nuovo inizio,
per la casa che sorge dov’erano rovi,
per l’ovulo da cui principia
il miracolo di un’altra vita,
per l’attimo in cui appare
nell’anima al riparo dalla chiacchiera
la decisione, ma come un accadere
dall’alto, una svolta inattesa e sperata
che purifichi la vista e l’ascolto.

L’uomo antico ben dentro la carne permane.
Ma gioisce nell’intimo, lo so,
attendendo fremente la sua benedizione.


(Benevento, 27 aprile 2014)

sabato 20 febbraio 2016

come divenni un Cinque Stelle...



«Grillo e la rete da lui creata occupa un duplice spazio.
Il primo è quello della denuncia della "democrazia dimidiata" presente in Italia. Non ci si faccia ingannare dalle forme, dai "vaffa...", scambiandoli per qualunquismo o populismo. Grillo è rimasto l'unico, nella campagna elettorale soft, a gridare con la necessaria indignazione che l'Italia non è un paese democratico, che in nessun paese del mondo il padrone dei media in Italia potrebbe fare politica, che la legge Gasparri è un'aberrazione intollerabile. La sinistra si è limitata a rimuovere il problema, come un fastidio. La denuncia del Parlamento italiano come ricettacolo di condannati è il secondo punto di forza della sua denuncia. Anche qui, come si fa a non considerare questa una battaglia della sinistra? Come è tollerabile che il Presidente del Consiglio sia il mandante della corruzione che ha portato l'avvocato Cesare Previti in galera? Per non parlare delle battaglie ambientali contro inceneritori e nucleare, a favore di energie alternative.
Il secondo spazio occupato da Grillo, a livello metodologico, è quell'immenso territorio disertato dalla sinistra classica: la rete, con il suo blog. Grillo sta indicando una via possibile di azione politica che utilizza il mezzo più avanzato della terza rivoluzione industriale. Anche qui, come non capire che questo spazio va agito, che rompe le forme classiche dell'aggregazione politica ma offre inaudite nuove possibilità di agire collettivo? Perché tanta spocchia, tanto sprezzo per le migliaia di persone che vanno ai "comizi-spettacolo" e, attraverso la rete, agiscono, raccogliendo firme, organizzando campagne di boicottaggio o, semplicemente, informandosi in maniera alternativa, costruendo informazione? Non è scandaloso che l'oltre milione di firme raccolte il 25 aprile sia stato relegato dal «Corriere» e da «Repubblica» in un trafiletto di dieci righi?» (2008) 

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«Perché non accettare che, come scriveva già diversi anni fa Marco Revelli, siamo “oltre il Novecento”, le sue categorie politiche, le sue forme organizzative? Da questo punto di vista il “grillismo” ha per primo intuito che la Rete modifica radicalmente le pratiche politiche perché consente tre cose: 1) informazione (anche “orizzontale”, quindi non filtrata da “agenzie” che spesso sono espressione di potentati economici, ad esempio, Mediaset a destra e il gruppo Espresso a “sinistra”); 2) trasparenza; 3) decisioni condivise. Dunque, la rete – che Rifkin considera lo strumento “mediatico” della rivoluzione in atto, rivoluzione energetica, politica e culturale nello stesso tempo – costringe a ripensare la politica nei suoi contenuti e nelle sue forme organizzative, rendendo possibile un inedito intreccio di democrazia “diretta” (impraticabile nella sua forma pura, auspicata dalla Arendt, ad esempio, su scala nazionale o transnazionale) e democrazia rappresentativa. Quando Grillo rivendica, ricordando gli Stati Generali dell’89 francese, “una testa, un voto” non sta forse dicendo che è finito il tempo delle deleghe in bianco? Che questo tempo richiede cittadini consapevoli e attivamente partecipi della cosa pubblica? Che si è esaurita l’illusione di presunti “tecnici”, filosofi-re, esperti cui delegare le decisioni in campo energetico, economico, sociale? La rete (che significa diffusione del sapere + interazione tra i soggetti, cioè fine del monopolio dei saperi + verticalismo) sta plasmando nuovi cittadini. Che c’entra il qualunquismo con tutto questo? Basta conoscere anche superficialmente la storia del movimento di Giannini per capire che la comune provenienza sua e di Grillo dal mondo del teatro non giustifica alcun parallelismo. In un linguaggio spesso “basso” e stonato, Grillo dice da anni cose innovative, avendo intuito non solo i mutamenti in atto nel mondo politico ma anche l’incapacità strutturale del ceto politico italiano di autoriformarsi.» («Messaggio d’oggi», maggio 2012)

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«Sono convinto che in questa fase storica il M5S ha evitato una disastrosa deriva neofascista in Italia (come, invece, accaduto con Alba dorata in Grecia). Effettivamente il M5S ha dato rappresentanza al disagio spaventoso che percorre la nostra penisola a causa della crisi economica europea e della sua scellerata e colpevole gestione da parte delle classi dirigenti del continente, con gravissime responsabilità dell’ultimo governo Berlusconi, nel caso dell’Italia» (aprile 2013).

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 «Quali gli elementi di novità che coglie nel Movimento?
Due in particolare. Prima di tutto il superamento della forma classica, novecentesca di organizzazione, in nome di una valorizzazione dell’attivismo civico (e, dunque, il rifiuto del professionismo politico). Il Movimento non chiede delega ma impegno diretto a partire da istanze territoriali. Poi un ecologismo “radicale” ma capace anche di tradursi in scelte concrete (ieri c’era, all’incontro, una macchina ibrida all’idrogeno... cose di cui Grillo parlava nei suoi spettacoli già dieci anni fa)» (marzo 2014).

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«Perché voterò il Movimento 5 Stelle.
Risposta complessa : a) (morale) perché è l’unico soggetto politico che fa della “questione morale” una bandiera; b) (politica) perché è l’unico soggetto che si sta ponendo seriamente il problema del rinnovamento delle forme della politica e del superamento della forma-partito (e delle sue storture), coniugando presenza sul territorio e uso innovativo del web; c) (economico-sociale) perché è l’unico soggetto politico consapevole della drammaticità della crisi in atto, che necessità di risposte radicali (ad es. il reddito di cittadinanza), e, soprattutto, a livello europeo, della rinegoziazione della nostra permanenza nell’UE; d) (economica) perché è l’unico soggetto politico in cui parole come “decrescita conviviale” hanno cittadinanza» (maggio 2014).



venerdì 19 febbraio 2016

In/sorgente



[INSORGENTE
OGNI MATTINA
CONTRO IL NIENTE]

Sole/Padre, fendi le pietre
dell’oscura prigione.
Acqua/Madre, scorri
nell’arido legno del corpo.
L’orecchio sfibrato si tenda
a ciò che deflagra,
lo sguardo sul punto
efesino in cui tutto oscura-
mente si tiene.

[OGNI MATTINA
IN SORGENTE
ALLA NOTTE
IMMEMORE]

La legge sottesa alla natura
rerum reclama anche te.

Amala senza riserve.

pensiero meridiano


Siamo davanti ad un vaso, della preziosa collezione di vasi del Museo. Ce ne parla Mario Rotili in questo libro che custodisco gelosamente. Tracce dell’antico Sannio, molto esteso geograficamente.
Sul vaso la rappresentazione di un “simposio”. Se guardate lo schermo vedrete scorrere la ricostruzione che ne ha fatto Marco Ferreri nel 1988, con Irene Papas, tra gli altri.
Presso i Greci e i Romani, il simposio era quella pratica conviviale, che faceva seguito al banchetto, durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti conviviali (skólia), si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi ecc.). La parola indica il bere (posin) insieme (syn). Sarebbe interessante ripercorrere il nesso fra spiritualità, filosofia e letteratura intorno alla tavola, da Platone ai Vangeli, da Dante a Caravaggio. George Steiner ci ha lasciato un memorabile saggio (Due cene) di raffronto fra il simposio descritto da Platone e l’ultima cena di Gesù. Ma io vi parlerò, come avete capito dalla lettura di Valentina Gaudini, solo di Platone, che stasera domina incontrastato.
Platone ci ha lasciato un’opera intitolata Symposion, tradotta talvolta anche, estensivamente, con il termine Convivio o Banchetto. In realtà il termine greco è preciso e tecnico: nel simposio non si mangiava, si beveva. Al centro vi era, dunque, una bevanda non solo sacra a Dioniso, dio del vino, ma fulcro, insieme al pane e all’olio, della civiltà alimentare mediterranea, come insegna Massimo Montanari in La fame e l’abbondanza.
Quest’opera è davvero strana. Malgrado abbia avuto un enorme influsso su tutta la cultura occidentale e sia impensabile l’intero Rinascimento e il cosiddetto neoplatonismo (da Ficino a Pico della Mirandola, passando per Botticelli) senza di essa, appare difficilmente integrabile in un eventuale “sistema” platonico.
Lasciatemi, almeno di passaggio, omaggiare stasera, a nome di tutta la Libera Scuola di Filosofia del Sannio, uno studioso che ha dedicato tutta la sua vita alla filosofia, in particolare a quella platonica e in particolare all’opera di cui parleremo stasera. Parlo di Giovanni Reale, scomparso l’altro ieri. Possiamo non essere d’accordo con lui, e non lo siamo su molte cose. Ma fino all’ultimo giorno egli si è dedicato con amore a quello che Dante chiama nel Convivio “pane degli angeli”. Un modello per tutti coloro che amano questa disciplina.
Consentitemi una parentesi. Platone è l’oggetto “perfetto” per l’esercizio dell’attitudine ermeneutica (termine che deriva dal nome di un’altra divinità, dopo Atena/Minerva, Hermes). Il corpus platonico si presta alle più svariate interpretazioni per le sue incredibili ambiguità, esattamente come la figura di Socrate ci pone, al pari di quella di Jehosua, una “vita” da interpretare e reinterpretare continuamente. Non entrerò in questo ginepraio. Diciamo che la tendenza scolastica è quella di “ridurre” Platone a sistema mettendo al centro la cosiddetta “teoria delle idee”, degli archetipi. Ebbene, in questo sistema il Simposio appare poco integrabile. Mentre il Platone che potremmo definire “maior”, sistematico (ripeto: si tratta di una semplificazione storiografica ma è quella che molti di voi hanno introiettato) definirebbe una via maestra alla conoscenza, alla liberazione dalle tenebre della caverna, che passa attraverso una ridefinizione della “filosofia” (amore per il sapere) in vero è proprio sapere (la conoscenza delle idee perfette e immutabili), via aristocratica, percorribile da pochi, lunga e faticosa, bisognosa di una scuola diremmo oggi di specializzazione che fu l’Accademia, il Simposio, al contrario, democraticamente, immagina che esista una via aperta a tutti per elevarsi alla dimensione ideale. Ma questa via, ed è elemento fascinoso del libro, viene spiegato ad un Socrate letteralmente “ignorante” da una donna, l’unica donna della filosofia greca, fatta salva l’austera e tragica figura di Ipazia di Alessandria, neoplatonica barbaramente uccisa e fatta a pezzi (fu scorticata fino alle ossa, forse usando gusci di ostriche) dalla comunità cristiana aizzata dal vescovo, san Cirillo... La filosofia, permettetemi l’ennesima breve digressione (ma stasera sarò digriediente) è tutta maschile. Luce Iragaray ci ha illuminato sulla dimensione “fallica” del pensiero filosofico che sarebbe, proprio con il Platone “maior” e il suo mito della caverna, volontà di emanciparsi, per sempre, dall’utero, dal grembo materno andando verso il cielo, verso il sole, verso l’Iperuranio...
Torniamo a Diotima... sacerdotessa di Mantinea che introduce uno sprovveduto Socrate agli ultimi misteri d’amore... La sacerdotessa prima di tutto ribalta la visione tradizionale dell’Eros, che, con una serie di varianti, troviamo nei discorsi raccontati da Platone (quelli di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane e Agatone). Eros non è un dio ma un demone. La parola evoca, giustamente, nel nostro cervello “cristianizzato” fiamme infere, forconi, Cagnaccio, Barbariccia, a qualcuno Geppo o Spawn... Invece per i Greci il “daimon” è un «essere divino» che si pone a metà strada fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediare tra queste due dimensioni, per questo rappresentato con le ali. Diotima insegna a Socrate che tale natura ibrida deriva ad Eros dall’essere figlio di due divinità con caratteri antagonisti. Dai genitori Eros ha ereditato un anelito a qualcosa che non ha... Alla bellezza...
Se Eros non è un dio a lui non dobbiamo obbedienza o venerazione, come voleva la tradizione. Esso, fuor di metafora, non è qualcosa che ci domina dall’esterno facendo di noi dei burattini nelle sue mani, come l’Elena descritta nel famoso Encomio di Elena del sofista Gorgia. «Amor vincit omnia e nos cedamus amori», come scrive amaramente il Virgilio delle Bucoliche. No, Eros è una forza che ci abita e che può spingersi alle più alte vette della conoscenza, ai più intimi segreti del mondo. Questa conoscenza amorosa è raccordo fra cielo e terra, fra umani e divini, come direbbe Martin Heidegger. E sì, alla fine potrà portarci all’idea, alla somma idea, ma partendo sempre dal mondo dalla sua sensuale bellezza...
Ma nel passo che Valentina ha letto c’è un passaggio delicato e prezioso su cui vorrei riflettere con voi... Vi si dice che Eros passa tutta la vita ad amare la sapienza. Il testo greco dice, ovviamente, “philosophos”. Eros è filosofo... Che significa questa sconcertante affermazione? Non siamo abituati a pensare, forse distorcendo lo stesso messaggio gesuano in un cristianesimo ascetico, sessuofobico e dualistico (quindi in fondo gnostico) che l’eros e la filosofia non possono andare d’accordo? Che la filosofia è liberazione dalle passioni? Quello che vorrei comunicarvi stasera, in fondo, ha molto a che fare con il mio lavoro, con il nostro lavoro, se Amerigo mi consente, avendo con lui un rapporto che trascende l’amicizia e la condivisione quotidiana nella scuola. Io e Amerigo abbiamo sempre concepito la nostra attività, il nostro insegnamento, sulla scorta di questo Platone simposiaco, diotimeo, come un’attività, e spero di scandalizzare i benpensanti, “erotica”. Il motore della paideia può essere solo l’amore. Possiamo illuderci, ogni giorno daccapo, di avviare i ragazzi che ci vengono affidati lungo la via del sapere solo se li amiamo nella loro fragilità, nella loro ignoranza spesso abissale. E questo è il motore della paideia perché, nel profondo, è la radice stessa della philosophia. Eros, dice Platone, è filosofo perché ama la sapienza, e la ama perché non la possiede. Solo gli dèi sono sapienti e non hanno bisogno di conoscere null’altro. Il filosofo, mosso dall’eros, è colui che sempre sa di non sapere e dunque anela a sapere, sapendo che non potrà mai sapere una volta per sempre. Questa è l’unica “sapienza” che possiamo sperare di inoculare, eroticamente (dunque attraverso l’esempio e la presenza: per questo la scuola non può essere semplicemente sostituita dalla tecnica), nei nostri allievi. Che la ricerca non avrà mai fine, ma che, nello stesso tempo, il desiderare stesso la sapienza mai raggiungibile (altrimenti diventeremmo dei... non è forse il sogno prometeico e faustiano della scienza moderna?) è bello e godibile in sé. Il vero sapere, come anelito al sapere, è un fine in sé.
Il vaso, il simposio, Platone, Eros, la filosofia, la paideia... Massimo Recalcati ha pubblicato un libro la cui lettura vi consiglio vivamente... Io l’ho preso nella versione digitale. Se la tradizione e la rivoluzione, come scrive Cassano ne Il pensiero meridiano devono essere coniugate, noi per primi dobbiamo imparare a far incontrare nuzialmente questo manufatto in cui affondano le nostre radici e quest’altro, in cui ci sono le chiome... Il libro si chiama L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. Leggiamo: 

«Nell’epoca dell’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica è ancora possibile una parola degna di rispetto? Cosa può restare della parola di un insegnante o di un padre nel tempo della loro evaporazione? La pratica dell’insegnamento può accontentarsi di essere ridotta alla trasmissione di informazioni – o, come si preferisce dire, di competenze – o deve mantenere vivo il rapporto erotico del soggetto con il sapere?
È un bivio culturale con il quale siamo confrontati. Ma per scegliere la via dell’erotizzazione del sapere occorre che l’insegnante sappia preservare il giusto posto dell’impossibile. È il tratto che contrassegna ogni trasmissione autentica: la trasmissione del sapere di cui la Scuola si incarica a ogni livello, dalle scuole elementari sino a quelle post-universitarie, non è la chiarificazione dell’esistenza o la riduzione della verità a una somma di informazioni, ma la messa in evidenza di come ruoti attorno a un impossibile da trasmettere. Il maestro non è colui che possiede il sapere, ma colui che sa entrare in un rapporto singolare con l’impossibilità che attraversa il sapere, che è l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Non perché non esista una Biblioteca delle Biblioteche capace di raccogliere tutto il sapere, ma perché, anche se esistesse e se leggessimo ogni suo libro, non avremmo affatto risolto il limite che attraversa il sapere come tale. Il sapere non si può mai sapere tutto perché è per sua struttura bucato, non-tutto, impossibile. Uno scarto irriducibile lo separa dal reale della vita. Si deve dire allora che un insegnamento ha come tratto distintivo il confronto con il limite del sapere attraverso il sapere, mentre il maestro che mostra di possedere il sapere può essere solo una caricatura risibile del sapere».

Chiudo questa breve riflessione andando all’inizio del testo letto...

Vi si dice, ricordate, che Eros svolge una doppia funzione di intermediario, di “pontefice”. Fa da tramite fra gli uomini e gli dèi e lega le due regione del mondo, quella celeste e quella terrena, «cosicché il tutto risulta collegato con se stesso». Ebbene, in queste due brevi notazioni possiamo trovare preziose tracce per la nostra ricerca e per il nostro agire. Da una parte dobbiamo sempre ricordare che una parte di noi è connessa con il divino, attraverso forze mediatrici. Lo stesso Socrate evocava spesso il “daimon” che abitava in lui e gli suggeriva cosa non fare. Dall’altra il Platone “minore” e sublime del Simposio ci dice, in questo tempo rischioso di distruzione sistemica dell’habitat naturale, che il tutto è collegato. Eros, dunque, oltre ad essere possibile traccia delle nostre filosofie e delle nostre pedagogie può essere la guida celeste per le nostre etiche e per le nostre politiche. 

(Intervento tenuto nel Museo del Sannio il 17 ottobre 2014 all'interno del Festival filosofico "Sophia" organizzato dalla Libera Scuola di Filosofia del Sannio)