domenica 31 gennaio 2016

L'arte del transito III (Aforismi 1989-2009)




Il digiuno

A cosa serve il digiuno? Agli occhi dei più si tratta di una sorta di espiazione o di “fioretto”: nel primo caso per emendare qualche colpa con una rinunzia, nel secondo per donare a Dio una sacrificio. Queste idee possono contenere una parte di verità: il digiuno può essere anche espiazione o “fioretto”. Ma non dovrebbe essere essenzialmente questo. Esso dovrebbe servire a rendere il corpo più presente alla preghiera. Dunque, scindere il digiuno dalla preghiera è insensato. È molto facile ricadere nella dimensione “volontaristica” del digiuno: è, comunque, una dimostrazione di forza interiore. Assolutamente inutile, fuori bersaglio se slegata dalla preghiera. Non mangiare permette di non affaticare l’organismo nelle funzioni digestive. Questo dovrebbe portare ad una mente sgombra, pronta a mettersi in contatto con il divino. Non bisogna mai far diventare il digiuno una pratica slegata dalla sua funzione primaria: questo può creare degli eroi, non dei santi.

Fuori Legge

Cristicità dell’età moderna: l’uomo senza la legge. Cfr. San Paolo: «indipendentemente dalla legge». Ogni popolo, ogni civiltà (anche quella islamica) ha avuto la sua sharia. Solo Cristo non pone quest’interfaccia fra Dio e il mondo (o meglio conferma la legge esistente: per ogni popolo come voleva la Weil?). Ma afferma anche una legge operante ad un livello diverso, una legge nuova e paradossale che, pur richiedendo obbedienza, non specifica che  cosa dobbiamo fare e non fare ma solo come atteggiarci. È in questo spazio di inaudita libertà – che vanamente la Chiesa ha cercato di riempire con i suoi catechismi – che è nata la modernità, uso distorto della libertà (senza amore). Il compito dell’uomo futuro: l’amore libero, la libertà che si nutre di amore.

Visione/ascolto 

Visione/ascolto: cristianesimo/platonismo. Il cristianesimo non esclude la visione,  ma sulla terra si deve privilegiare l’ascolto (Mosè, Abramo). Solo al compimento c’è la «luce del Tuo volto». Il platonismo, come tutte le gnosi, aspira alla visione ancora in vita. 

L'arte del transito II (Aforismi 1989-2009)



Presente al presente

Calmarsi, sorridere, momento presente, momento meraviglioso.


Cre-azione

Dio si è “sacrificato” per creare il mondo: il sacrificio perpetua la creazione divina.


Demoni

I demoni esistono. Nel cuore dell’uomo. Il loro signore è Satana, il diavolo, “colui che separa” (l’uomo da Dio). Ogni uomo combatte con un demone sconosciuto agli altri, con quale convive fin dall’infanzia. Quando riesce a sconfiggerlo, torna nel seno di Dio, che lo accoglie come il figliol prodigo.


Santità contemporanea

Limitare i consumi oggi è una forma di santità nei confronti degli altri e del mondo, dunque di Dio.


Guardare i santi in tele-visione

Un uomo che guarda con fervida ammirazione ad individui eccezionali viene corso da brividi quando pensa al martirio, e poi attua una vita “borghese” (nel borgo, con le pantofole ai piedi), mirando esclusivamente alla tranquillità.


L’assoluto vuoto

È difficile combattere con se stessi, malgrado le buone intenzioni. Non basta persuadersi che la propria vita non conta nulla nel mare dell’essere, e che tutto ciò che crediamo appartenerci (dalle qualità interiori agli oggetti) è destinato a trapassare rapidamente. Arrivati a questa consapevolezza, bisogna saper accettare la voragine che si schiude sotto (e sopra) di noi. «Che farò ora?». Non è nichilismo: il nichilismo apre un vuoto che accetta di essere riempito da tutto, violenza e droghe, pornografia e politica. No, si tratta di un vuoto assoluto, che richiede una capacità assoluta di risposta.


Come leggere la Bibbia?

Leggendo la Bibbia letteralmente se ne resta inorriditi, come la Weil. Ma perché non applicare, come sin dall’antichità si è fatto, un sovrasenso allegorico?


Pregare Dio

Ciascuno deve pregare Dio nella sua forma propria. Chi ha avuto in dono un’intelligenza speciale deve onorarlo con lo studio e la ricerca.


Scrivere lettere

La lettera è una forma di comunicazione. Essa permette a chi scrive di avere un destinatario che seleziona ante quem le cose da dire e il modo di farlo, evitando le secche del rafforzamento egoico (e della sciattezza linguistica) da una parte, e della genericità dall’altra.


Unità delle Chiese cristiane

La chiesa petrina (cattolicesimo), la chiesa paolina (protestantesimo), la chiesa giovannea (l’ortodossia). E la chiesa di Giacomo? Il rapporto con l’ebraismo interrotto dalla distruzione di Gerusalemme. Il cristianesimo del futuro riunirà queste «disiecta membra».

sabato 30 gennaio 2016

L'arte del transito I (Aforismi 1989-2009)




Nel centro dell’uragano

Bisogna accettare le prove della vita, vivendole nel centro dell’uragano: scavalcarle con il sogno di una stagione serena è, nello stesso tempo, vile e vano, perché ci saranno problemi sempre nuovi ad angustiarci. Come Arjuna bisogna non rinunciare al proprio dovere, slanciarsi nella battaglia, senza badare al frutto dell’azione: in linguaggio cristiano, senza aspettare una ricompensa da Dio.


Emulare gli illuminati

Lèggere di uomini che hanno raggiunto la liberazione (jivanmukta) dà respiro alle nostre esistenze schiacciate da piccole preoccupazioni. Bisognerebbe però non solo ammirare ma emulare.


Possessione

Qualsiasi possesso implica l’asservimento a ciò che si possiede.


Sacralizzare la vita profana

Bisogna sforzarsi di sacralizzare la vita profana accettando il rischio del fallimento ogni giorno. Le tecniche ascetiche possono rientrare in tale vita ma senza essere assolutizzate poiché si correrebbe il rischio di “abbandonare” gli altri momenti all’insensatezza.


«Sola spes…»

Il peccato più grande, quello contro lo Spirito, è abbandonarsi alla disperazione, credere che Dio ci abbia abbandonato. Bisogna guardarla in faccia la disperazione, non farsene travolgere. Soprattutto, non bisogna mai credere che ci sia qualcosa che meriti la nostra disperazione assoluta: disperare vuol dire essere senza speranza. Questo è il puro ateismo, essere privi di speranza. Ricordarsi di San Paolo (soprattutto la speranza). Non esiste nulla che meriti la nostra disperazione (non esiste il Nulla che solo la meriterebbe!). 

Sensualità e misticismo

Sensualità e misticismo. Pare che siano strettamente connesse a partire dalla mistica secentesca, soprattutto spagnola (le estasi di S. Teresa). Che cosa accade? Forse il mistico riesce a torcere la sua esuberanza erotica in direzione dell’Assoluto? Cfr. Leopardi: l’uomo ha il desiderio di una felicità (piacere) assoluta e si illude di soddisfarla con piaceri finiti. Il mistico allora parte inconsapevolmente o consapevolmente da questo assunto, e dunque raggiunge l’unica pienezza possibile all’uomo?

venerdì 29 gennaio 2016

Benedizione


Benedizione

Il volo del passero e la luce
che splende sulle foglie
t’insegnino la lingua della lode.
Se vuoi imparare il gesto
che benedice contempla
con stupore sempre rinnovato
tutta la bellezza del creato.
Tendi l’orecchio del cuore
al volere del Padre.
Diventa ogni giorno docile
strumento del Signore.
Mangia il tuo pane e spezzalo
insieme ai tuoi fratelli più umiliati.
Ricordati che Lui è presente
anche quando tutto si fa oscuro
nella tua vita e il Nulla ti reclama.
Prega per l’unione perfetta
bussa come l’uomo innamorato
che reclama la donna come sposa.
E ti sia dolce, infine, l’annegare,
goccia tu d’acqua che torna nel suo mare.

la mia adesione al M5S (2014)



Il mio “outing” a favore del Movimento Cinque Stelle ha suscitato una piccola tempesta sulla mia bacheca, pari solo a quella sollevata tra i miei colleghi per aver bevuto una birra e letto il Simposio di Platone, postandolo in rete, cercando di mostrare che un gioco “stupido” può essere giocato anche in maniera intelligente (ma questa è un’altra storia...).
Sono state sollevate questioni importanti, cui non voglio sottrarmi.



Come sempre, cercherò di essere schematico:

1) La mia militanza politica e la mia storia elettorale sono state da sempre “a sinistra”, con preferenze per la c.d. “sinistra radicale”. L’esperienza più importante è stata la candidatura a sindaco nel 2001 con una civica (Città aperta), sostenuta da Rifondazione Comunista e aperta a personalità attive nell’ecologismo e nel volontariato.
2) Sono stato tra i promotori a Benevento di ALBA. Mi riconosco ancora in quasi tutte le istanze sollevate e discusse da personalità come Marco Revelli, ma l’esperienza fallimentare di Rivoluzione Civile mi ha disilluso sulle residue possibilità di rifondare una “sinistra” capace di affrontare con rigore i problemi italiani di questi anni.
3) Non rassegnandomi al “buen ritiro” nella dimensione domestica e professionale (tentazione ricorrente), ho deciso di “schierarmi”: «col cuore nella morsa, ci siamo mossi e schierati» (René Char). La politica si fonda non su presunte “verità” (non certificabile, ahimé, da alcuno che sia super partes) ma su scelte, di cui ci assumiamo la responsabilità.
4) La scelta mi ha costretto ad una dolorosa cesura, che sto faticosamente elaborando. Non pensare più con le vecchie categorie novecentesche.
5) Il M5S non è un partito: è un movimento.
6) Il M5S pone al primo posto le forme della democrazia contemporanea, cercando di innestarvi elementi di democrazia diretta (teorizzata da Rousseau nel Contratto sociale e praticata nella Comune parigina del 1871).
7) Il M5S pone, dal punto di vista sociale, la questione di una giustizia da ottenere per via redistributiva: nessuno resterà indietro. Il salario di cittadinanza è la soluzione proposta per affrontare lo spaventoso squilibrio che in Italia si è creato nell’ultimo trentennio.
8) Il M5S pone la questione della “decrescita” per affrontare le secche di una modernità fondata sul mito del progresso e della produzione illimitata.
9) La radicalità di queste posizioni rende impercorribile qualunque strada che preveda un accordo con altre forze politiche. Vana, dunque, risulta l’accusa di non “aver voluto” formare un governo con PD e SEL. Il M5S può essere solo un polo alternativo, integralmente alternativo, nelle pratiche e nei contenuti, per il governo dell’Italia.
10) Si accusa il M5S di “fondamentalismo” e rifiuto del dialogo. Io vedo coerenza, fino ad ora, solo coerenza.
11) Domanda al prof. Sguera: come educatore cosa ne pensi? Risposta: sono due piani completamente diversi. La scuola è il luogo utopico della razionalità comunicativa, del dialogo socratico. La politica è il luogo del conflitto, dello scontro, che deve rimanere incanalato nell’alveo dialettico ma può, anzi deve essere duro, per evitare quelle derive compromissorie che hanno reso indistinguibili le scelte del PD o di SEL da quelle del NCD e per certi veri di FI.
12) L’Italia va verso un assetto bipolare, che può essere declinato non più attraverso l’asse destra/sinistra. Bisogna cercare parole nuove. Ogni nostalgia rischia, lo ripeto a me stesso, di legittimare uno stato di cose inaccettabile per tutti gli esclusi, che vivono vite precarie e desolate, mentre, verso l’alto della piramide, i tutelati, sempre più ricchi e sereni, ignorano la spaventosa lotta per l’esistenza in cui si dibattono i cittadini italiani.

(Nota apparsa su Facebook il 23 febbraio 2014)

giovedì 28 gennaio 2016

Ferlinghetti [Se vuoi essere un poeta...]



Machiavelli oggi



Il celebre, ultimo capitalo del Principe si apre con un’esortazione «ad capessendam Italiam in libertatem». L’opera, come altre grandi opere “politiche”, nasce in un clima rovente, in questo caso l’Italia battuta da eserciti imperiali e francesi, luogo di scontro fra superpotenze nazionali, così come il Leviathan di Hobbes sarà scritto tra gli schizzi di sangue delle guerre di religione seicentesche o i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte nella Prussia occupata dalle armate napoleoniche. Questo potrebbe suggerire che, quasi sempre, una grande opera politica risponde ad un’urgenza, non è mai mera teoresi ma palpitante tentativo di rispondere a concrete esigenze.
Scrive Machiavelli: «Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se, in Italia al presente, correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare corrino tante cose in benefizio d'uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell'è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte ruina. E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a' sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli».
Che cosa mi sta dicendo il Segretario fiorentino, oggi, nell’Italia del 2013? Che la nostra condizione è penosa, sebbene i barbari siano parte del nostro stesso popolo, ma capaci di gettarla, in un trentennio di mala politica, nella più profonda prostrazione e crisi che morde le persone, soprattutto i più giovani, impedendo loro speranza e progetto. L’Italia, «rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite». Machiavelli ci aiuta a porre, dunque, un problema basilare per l’Italia avvenire: quello di una nuova classe dirigente. Vedete, si dice sempre, giustamente, che il Segretario fiorentino rappresenti il filone “realistico” della teoria politica, il contraltare di ogni “utopismo” che plasmi kallipoleis o città del sole. Ma questo realismo in lui, e di qui la sua grandezza a mio avviso, non diventa mai, come in molti, in troppi, cinismo o cedimento all’amministrazione dell’esistente. No, Machiavelli invoca uno slancio che trasformi la realtà proprio a partire dal punto più basso della parabola, l’Italia invasa, occupata dai barbari. E oggi, vi chiedo, l’Italia non ha raggiunto il punto più basso della sua parabola con una classe dirigente, a partire dal nostro territorio per arrivare ai grandi decisori politici, priva non solo di autorevolezza ma anche di credibilità minima? Eppure questo non significa, direbbe Machiavelli, che la condizione è assolutamente propizia per esibire una “virtù” fuori dal comune, come quella di Mosè che liberà gli Ebrei dalla cattività egiziana? Non è, dico in primis a me stesso deluso e disilluso, questo il tempo non di ritrarsi a costruire utopie ma di combattere per liberare l’Italia dai barbari che la devastano? E, d’altronde, l’Italia non è percorsa da Nord a Sud da fenomeni di “insorgenza”, di “resistenza” i più vari? Ma, ancora una volta, cosa insegnano queste pagine? Che tali fenomeni necessitano di una “guida”, di un principe...
Analizzo quanto accaduto non solo in Italia ma nel mondo a partire dal 1991 a Seattle fino a Zuccotti Park nel 2011... Straordinari movimenti insorgenti contro l’ordine capitalistico globale che, proprio in virtù della propria pluralità e reticolarità, non sono riusciti ad incidere in maniera duratura sulle strutture che volevano trasformare. Da un punto di vista teorico, dunque, mi scontro, da anni, con questa aporia... Perpetuare “macchine” partitiche novecentesche, divenute oramai, a tutti i livelli, strumento di potere ed ascesa sociale, avendo perduto anche la funzione “nobile” che hanno assolto all’inizio della loro esistenza, o accettare la rapida deperibilità di movimenti “an-archici” (nel senso etimologico della parola)?
Sapete che Machiavelli è un pensatore atipico. La sua maggiore anomalia, a mio avviso, è la flessibilità con cui immagina le organizzazioni politiche. In termini calcistici, diremmo che non teorizza un solo modulo di gioco ma l’adattamento alle singole situazioni. Non è, dunque, un teorico di una forma di governo “ottima”. Infatti la sua opera più complessa, I dialoghi sulla prima deca di Tito Livio, sono esaltazione della repubblica romana e delle sue virtù. Ebbene nel capitolo IV del Libro primo Machiavelli sostiene che la grandezza di Roma nacque dalla disunione della Plebe e del Senato romano: « Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma». Dunque, elogio del conflitto. La libertà e la potenza di un popolo nascono da un conflitto (oserei dire eracliteo) in cui almeno due forze si “tendono” a vicenda. Quindi, lo dico soprattutto ai ragazzi presenti qui, non abbiate paura del disordine e del conflitto. In questa dialettica si forgia un popolo libero e forte. Ancora una volta l’Italia può essere un laboratorio. A patto che di dismetta l’illusione, anche a livello politico, che le “larghe intese”, e la loro presunta pacificazione, siano l’unica strada percorribile. Solo il conflitto crea potenza, se tenuto all’interno di una dialettica creatrice.
Chiudo, dunque, con una domanda senza risposta e un duplice invito...
Chi sarà il “principe” (collettivo nel mio auspicio) in grado di liberare l’Italia dai barbari?
Cercate nel classici nutrimento per la vostra vita “activa” qui ed ora, strapazzateli, violentateli ma usateli!
Non temete il conflitto! Ricordate, però, sempre un verso di René Char: «Se distruggi, che sia con strumenti nuziali».

(Intervento tenuto il 18 dicembre 2013 nell'Aula Magna del Liceo Giannone)

Chi semina vento (tra i vinti) raccoglie tempesta (nel deserto)




Chi semina vento (tra i vinti) raccoglie tempesta (nel deserto)

                                                  ad Alberto Asor Rosa

 1

Finalmente una guerra
vera da raccontare a figli e nipoti.
Lo sbarco in Normandia nel ricordo dei nonni,
l’offensiva del Tet per i padri. Per noi
la guerra del Golfo: già pronta per l’uso.

2

«La mia vita è come un vento:
non ha nulla a cui aggrapparsi».

Ancora qualche giorno e potremo
ripensare con calma, bevendo
coca-cola, gli eventi finali.

Torri crollanti:
Grenada, Panama, Tripoli,
Baghdad, [...].

«Da casupole con le porte chiuse
una nenia straziante saluta
un piccolo caduto di guerra.»

3

E gli storici saranno onesti:
parleranno di un Ottantanove
pieno di speranze ma dai precari
equilibri, dai nodi irrisolti.

Dalle pagine del Corriere della Sera:
«Gli intellettuali tacciono
davanti ai grandi dilemmi».

E hanno ragione.
Tutte le notti consumate sui libri:
lacrimae - rabbia, orrore, paura -
mundi. Per ritrovarci alla tragedia
muti.

4

I mercanti d’anni iniziano a contare
i denari, a reclamare posto
nelle aziende i pennivendoli.

«Quasi una manna per petrolieri e giornalisti»

Sublime ironia della lingua!

5

Babilonia distrutta. Il popolo
eletto si prostra al Dio di luce
atomica.
Ritrovate nel deserto pace e fertilità!

Nasceranno papaveri dal sangue.

È caduta, è caduta Babilonia la grande
ed è diventata covo di demoni
radioattivi.

Hai minacciato le nazioni,

hai sterminato l’empio.

(1991)

le differenze e la violenza di genere dal mito ad oggi



Nella mia esperienza di docente di storia (e filosofia) arriva sempre un momento, abbastanza traumatico, in cui pongo i miei allievi, soprattutto di sesso femminile, di fronte alla sconcertante consapevolezza che il 90% (ad essere generosi) di ciò che imparano è il prodotto di menti maschili. Faccio loro notare qualcosa di talmente evidente da risultare, come spesso accade, invisibile: la poesia e la filosofia che costituiranno il loro bagaglio culturale (italiana, greca, latina, inglese, francese) sono state scritte e pensate da maschi.
Di solito aggiungo una provocazione, dicendo loro che le prime due grandi guerre che l’umanità ha combattuto sono state quelle dell’uomo contro l’animale e quelle del maschio contro la femmina. In entrambi i casi sappiamo chi ha vinto.
Nel 1861 esce Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, conosciuto anche sotto il titolo di Il diritto materno, dello storico e antropologo svizzero Johann Jakob Bachofen. Per la prima volta in maniera sistematica si ipotizza che l’umanità, ai suoi primordi fosse... una “donnità”, in cui il crimine per eccellenza non fosse, come dirà il Freud di Totem e tabù, il parricidio ma il matricidio. La donna era, letteralmente, “domina”, padrona, signora, in virtù del potere “magico” e misterioso della generazione, di cui il maschio era privo. L’esistenza di divinità con le caratteristiche comuni della Magna Mater in tutto il Mediterraneo (per esempio Giunone) sarebbe testimonianza della sopravvivenza del matriarcato delle origini. Il libro di Bachofen ha avuto un grande influsso nella storia della cultura moderna, e, al di là del suo valore storico e antropologico, molto discusso, permette di ripensare la storia alla luce di una “ginecocrazia” abbattuta attraverso una vera e propria “lotta fra i sessi” che ha visto il trionfo del maschio, dell’Uno, del fallo.
Ci sono pagine affascinanti che vi consiglio di leggere nella bella edizione dei Millenni Einaudi: «Nel matriarcato ha dominato la notte e l'oscurità rispetto alla luce del giorno, il dì che dà vita a se stesso come il figlio dalla madre; lo sviluppo della patrilinearità-giorno dalla matrilinearità-notte segue lo sviluppo del modello cosmico dei corpi celesti: quest'ultimo obiettivo viene raggiunto solo con il dominio dell'uomo sulla donna, del sole sopra la luna». La notte e il giorno, la terra e il cielo. Una parentesi, nella città che ha ispirato il De nuce maga: e se, ad esempio, nelle streghe il maschio avesse sempre rivisto con timore il tempo della sua subordinazione alla ginecocrazia notturna e lunare?
La vittoria del maschio ha prodotto ovunque, nelle culture mediorientali e occidentali, il predominio di divinità maschili e celesti, di cui Zeus/Giove è l’archetipo.
Ma noi siamo tanto figli di Atene quanto di Gerusalemme. Il celebre passo del libro della Genesi racconta la donna, letteralmente, come “costola” del maschio: «Allora l’Eterno Iddio fece cadere un profondo sonno sull’uomo, che s’addormentò; e prese una delle costole di lui, e richiuse la carne al posto d’essa». Eva è la responsabile della caduta, tentata perché evidentemente più fragile, e a sua volta tentatrice. Non è casuale, d’altronde, che in molti dipinti (penso ad un affresco di Masolino, maestro e amico di Masaccio) il serpente venga raffigurato con la testa di donna.
Torniamo ad Atene, facendo un salto a Troia, preliminare.
Se dovessi suggerirvi un libro che meditare sul silenzio, la marginalizzazione e la violenza sulla donna non potrei che dirvi di leggere Cassandra di Christa Wolf, scomparsa nel 2011, struggente. La sacerdotessa di Apollo, violata e letteralmente posseduta prima dal dio, vive nella perpetua tensione tra il suo desiderio e la realtà che la circonda. Ella scopre la potenza del corpo, il suo “sapere” occulto. E sa accogliere la notte...: «Voglio vedere questa luce ancora una volta. La luce che vedevo in compagnia di Enea. La luce dell’ora che precede il tramonto. Quando ogni oggetto comincia a brillare autonomamente e a porre in risalto il colore che è suo. Enea diceva: per riaffermarsi ancora una volta prima della notte. Io dicevo: per consumare fino in fondo ciò che resta della luce e del calore e poi accogliere il buio e il gelo dentro di sé». Andiamo ora ad Atene.
Il primo, vero filosofo, l’archetipo stesso della filosofia come ricerca che non avrà mai fine, diceva, secondo le fonti di ringraziare gli dei per averlo fatto maschio, libero e ateniese. Frase che tiene insieme tutte le possibili forme di discriminazioni nei confronti delle donne, degli schiavi e dei “barbari”. Il discepolo del suo discepolo, Aristotele, servendosi del principio-base della scienza, secondo il quale ciò che accade ha sempre una causa, afferma il primato maschile nella riproduzione, estendendolo anche in ambito sociale: l’uomo, attivo per natura, è portato al comando, nella famiglia l’uomo è superiore alla moglie e la comanda (come il padre lo è nei confronti del figlio e il padrone nei confronti dello schiavo: physei, per natura). Secondo Aristotele perciò l’inferiorità della donna si fonda su basi biologiche e il rapporto uomo-donna è interpretato attraverso due delle categorie più importanti della sua filosofia, quella di forma e di materia. L’uomo-forma fa di ogni cosa ciò che è, e in quanto portatore del seme, è attivo e trasforma la passiva materia femminile naturalmente e ontologicamente inferiore.
Dunque, la cultura occidentale, quando struttura le sue basi, dopo la fase mitica, a guerra vinta, afferma risolutamente la superiorità del principio maschile, del giorno, della luce, del cielo (o di ciò che addirittura “iperuranio”, oltre il cielo), della “ragione”, sul principio femminile, la notte, l’oscurità, della terra, del corpo. Il maestro di Aristotele, Platone, è per eccellenza il filosofo di questa superiorità (sebbene nel Simposio sia una donna, sacerdotessa di Mantinea, Diotima, ad erudire Socrate sugli ultimi misteri dell’amore). Platone è il filosofo del Logos e dell’Uno. Non a caso Luce Irigaray ha voluto reinterpretare magistralmente, in quel libro straordinario che è Speculum del 1974, il mito della caverna platonico. Lo schiavo che esce dalla spelonca oscura verso la luce delle idee non è altro che il maschio che vuole emanciparsi dal ventre materno, dimenticare la dimensione corporea a cui la Grande Madre lo richiama costantemente. Il maschio occidentale ha cercato di innalzarsi verso una prospettiva che dovrebbe dominare il tutto, il punto di vista più potente, separandosi dalla sua base materiale e dal suo rapporto empirico con la matrice,  la radix-matrix, per citare Paul Celan. Il materno-femminile rimosso diviene così l'inconscio del pensiero occidentale. Il maschio fa della donna il proprio alter-ego o doppio, misconoscendone la differenza, in una reductio ad unum (al fallo) che resterà almeno fino alla filosofia dialettica di Hegel la cifra dell’intero Occidente. Purtroppo per mia deformazione tendo a pensare che le strutture economiche e sociali debbano essere prima “pensate” in qualche modo. Insomma, se non ci fosse stato un pensiero preliminare non ci sarebbe stato un dominio così pervasivo. E, dunque, la  logica immaginaria maschile sottesa alla filosofia si concretizza poi per le donne in determinate strutture del sociale, di subordinazione e violenza patita “senza voce”.
Dunque, tutto segreto filo rosso del pensiero occidentale è quello dell’identità, che culmina, come già dicevo, nel sistema hegeliano, figlio della svolta “soggettivistica” impressa da Cartesio nel XVII secolo.
Grazie a pensatori che pure non furono teneri con le donne (penso a Nietzsche) questa centralità del Logos e dell’Uno è stata incrinata, riscoprendo le ragioni telluriche del corpo e di quella che poi sarà chiamata “differenza”, che ha prodotto finalmente un pensiero “al femminile” capace di andare ben oltre le rivendicazioni di uguaglianza che partirono con la rivoluzione francese, per poi proseguire con il movimento delle suffragette e il femminismo novecentesco. Personalmente sono convinto che solo un pensiero capace di declinare fino in fondo la differenza (e non solo quella fra maschile e femminile) possa cancellare la radice potenzialmente totalitaria che si annida in ogni pensiero dell’Uno (che la Irigaray ovviamente associa al fallo maschile). Questo pensiero dovrà avere la forza di inventare un nuovo linguaggio (perché il linguaggio è inevitabilmente sessuato), di rielaborare la mitologia religiosa, diventando capace, ad esempio, di pensare un Dio Padre/Madre (è possibile recitare il Padre nostro declinandolo al femminile? «Madre nostra, che sei nei cieli...»), di pensare la differenza non come un rischio ma come una possibilità, facendola diventare il paradigma di ogni possibile comportamento umano nei confronti di un assolutamente altro che non diventa alter-ego, come nel pensiero falloegocentrico che mira all’Uno, alla sintesi. Insomma, si tratterebbe di un immenso lavoro culturale, che dovrebbe partire dalle scuole, per educare alla differenza. Questo ci costringerebbe a riscrivere i programmi scolastici. Pensate, e io provo talvolta a farlo, ad una storia riletta dal punto di vista delle donne, dove centrale diventa la riproduzione della vita che ha consentito a Cesare o a Napoleone di poter andare in guerra. Non più Farsàlo o Waterloo al centro dei programmi, ma come le donne gestivano la vita quotidiana nel I secolo avanti Cristo o nel XIX. Purtroppo i programmi scolastici, come dicevo all’inizio, sono ancora, inconsapevolmente, patriarcali e la maggior parte dei docenti non riesce neanche a tematizzare questa questione dirompente.

Un pensiero della differenza che produca, dunque, atteggiamenti nuovi, di apertura e accoglienza dell’altro, che si presenta primariamente (ma non solo) come l’altro sesso. Tutto ciò è possibile, e chiudo, grazie ad una grande rivoluzione del pensiero che è ancora in atto, malgrado i tentativi di bloccarla, e che parte da un pensatore oggi al centro di nuovo del dibattitto, Martin Heidegger. Con lui le strutture metafisiche del pensiero occidentale entrano in crisi. Sull’idea di verità si è fondato il dominio maschile. Se finisce la metafisica, se la “verità” diventa un accadere, un evento, se il mondo si “liquefa” senza più struttura identitarie totalizzanti (e totalitarie) allora è possibile davvero ripensare in chiave non violenta il rapporto fra diversi, a partire proprio dal rapporto maschio-femmina.

(Intervento tenuto presso l'Ordine dei Medici di Benevento il 28 novembre 2015)



mercoledì 27 gennaio 2016

Il mio cuore è un castello...


democrazia, scienza e altri luoghi di contesa


Notizie


Provo a mettere, in maniera un po’ spericolata, insieme tre suggestioni apparentemente slegate:

1) La riflessione tenuta a Benevento da Cacciari con relative discussioni;
oggi;
2) La polemica sulla scienza;    
3) La manifestazione del Movimento 5 Stelle a Roma.

1. La tesi di Cacciari

Cacciari ha affermato che il paradosso della democrazia è di produrre inevitabilmente delle aristocrazie. Con questo “male necessario” bisogna convivere, non essendovi alternative alla “delega”. Io gli ho obiettato che esiste una teoria politica che prova a superare questo vicolo cieco (la Arendt, dosi massicce di “democrazia diretta o partecipata”). Nunzio Castaldi ha scritto che la politica, come vuole Cacciari è una téchne, necessaria per operare scelte. Condivide con il filosofo veneziano il “rimpianto” per i grandi partiti capaci, hegelianamente, di mediare fra istanze di “parte” e istanze “universali”. Biasima, con Cacciari, l’illusione di poter praticare la democrazia diretta, pretesa utopistica tacciata di demagogia. Tale pretesa, tra l’altro, ignorerebbe l’abissale differenza fra la Grecia del IV secolo e il mondo moderno.
A Nunzio rispondo:
1)      La ripresa della democrazia greca (mutatis mutandis) è una proposta contenuta nell’opera della maggiore pensatrice politica del Novecento, la Arendt, appunto, che Cacciari detesta e volentieri rottamerebbe. Non credo che la discepola di Jaspers ed Heidegger (inchino) sia tacciabile di “ignoranza” nella ricostruzione della cultura occidentale. In ogni caso, mi fa piacere essere in sua compagnia.
2)      Cacciari ritiene “utopica” e irrealizzabile la democrazia diretta e, dunque, guarda... al passato! Com’erano belli i partiti di massa! Ah, se tornassero i partiti di massa! Intanto ci teniamo questa immonda porcheria dei partiti liquidi... Utopia per utopia... mi tengo stretta la mia, che almeno è bella, postulando la necessità di un impegno diretto di ogni cittadino in quanto tale nella cosa pubblica. Per i dettagli rinvio ad un lettura di Che cos’è la politica della Arendt, su cui non escludo un seminario di approfondimento.
3)      Come detto anche a Cacciari, la segreta scaturigine di questo atteggiamento – e mi ricollego alla polemica con Alessio Mongillo – è Platone. In lui viene assolutizzata, contro la democrazia ateniese, la necessità di affidare la guida dello stato ai “nocchieri” più capaci.

2.      Filosofia, scienza, politica

Il mio amico e collega Alessio Mongillo si è risentito per un’intervista a Naomi Klein da me postata in cui si dichiara l’incompatibilità fra sopravvivenza del pianeta e neoliberismo. Ne contesta l’approccio “superficiale” alla scienza, accusata di corresponsabilità in quanto sta accadendo. Chi leggerà l’intervista, poi il libro, vedrà che la Klein dice altro, che cioè esiste una scienza rispettosa dell’ambiente, nella tradizione di Ivan Illich. Ma Alessio, more solito, parte alla carica per rivendicare i meriti della scienza, unica forma di conoscenza della “verità” capace di risolvere i problemi planetaria. Ne è nata una fitta discussione. Le mie tesi in sintesi sono:
1)      La “scienza occidentale” non è neutrale rispetto a quanto sta accadendo ma ha gravi responsabilità.
2)      La “scienza occidentale” non è Galileo ma, per lo più, scienziati che lavorano finanziati da grandi corporation: non è neutrale rispetto ai problemi economici.
3)      L’immagine “romantica” della scienza andrebbe destrutturata attraverso una seria opera di “decolonizzazione dell’immaginario”.
4)      La “scienza occidentale”, parcellizzata, settorializzata, non è in grado di cogliere la complessità della crisi planetaria, di cui essa stessa è corresponsabile.
5)      La “scienza occidentale” non è, come crede Alessio, autonoma e antagonista rispetto alla “filosofia”, ma ne è la figlia naturale.
6)      Bisogna superare sia la “scienza occidentale” cartesiana e baconiana, con quanto di mortifero ha prodotto nei secoli, tanto la “filosofia”, che ne è la madre legittima.
7)      In ogni caso, non sarà la tecnoscienza a risolvere i problemi che in parte ha creato.
8)      È necessario una mobilitazione di tutti, senza deleghe a presunti “sapienti” (scienziati) che possano risolvere la fame nel mondo piuttosto che il problema dell’inquinamento. Sarebbe come chiamare le banche a risolvere le crisi economiche causano per la loro famelicità.

3. Una nuova politica senza deleghe, una nuova società “attiva” e consapevole

Qualche mese fa, ho maturato la decisione di entrare nel M5S in assoluta coerenza con un percorso intellettuale:
1) non credo più alla delega integrale, credo necessario rifondare la democrazia con ampie iniezioni di democrazia diretta e partecipata.
2) Credo che la salvezza della Terra-Patria passi attraverso una radicale ridefinizione del concetto stesso di (tecno)scienza. Il M5S, che spesso fa riferimento all’opera di Rifkin, mostra di esserne consapevole.

(Nota apparsa su Facebook il 12 ottobre 2014)


martedì 26 gennaio 2016

leg/ali




«Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum». Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio  della celebre esposizione di Tommaso  d’Aquino  sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae. Ma legge potrebbe derivare anche dal verbo legere.  Un bel rompicapo: solo per suggerire che abbiamo a che fare con qualcosa di geneticamente ambiguo, e dobbiamo rassegnarci a questa ambiguità. Voglio dire che sarebbe bello poter fare piena chiarezza, dare rassicuranti certezze sulla questione. Non lo farò.
Sarebbe facile pensare che in realtà è tutto molto semplice: esistono organismi che fanno le regole, le persone che debbono rispettarle, altri organismi che le fanno rispettare o comminano pene in caso di violazione.
Già il proliferare di regole, ad esempio, non è sintomo di una malattia del corpo sociale che è costretto a moltiplicare norme per garantire la propria sopravvivenza? Ne scrisse Guido Rossi in un aureo libriccino di qualche anno fa, intitolato sintomaticamente Il gioco delle regole, che partiva dall’assunto – analizzato nelle grandi multinazionali e corporation – che quante più fitte sono le regole etiche che esse si danno tanto più esse vengono eluse….
Un altro esempio, tratto dalla storia? Karl Adolf Eichmann, con il grado di SS-Obersturmbannführer fu tra i massimi responsabile dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Hannah Arendt ne seguì il processo a Gerusalemme, dopo una spettacolare azione che portò alla sua cattura in Argentina da parte del Mossad. La Arendt ne trasse uno dei suoi libri più celebri: La banalità del male. La tesi, sconcertante, è che Eichmann compì crimini spaventosi perché ubbidì alla legge, da buon soldato. E, dunque, dal punto di vista filosofico episodi del genere ci costringono a mettere in discussione il valore assoluto della legge (positiva) e della legalità come rispetto delle leggi, a postulare l’esistenza di “leggi” superiori a quelle umane. Ma il diritto positivo non è una conquista del progresso umano? Altro problema su cui continua e continuerà a scrivere e discutere.
La storia italiana recente, per passare dalla tragedia alla commedia pecoreccia, è piena di leggi inique che sono servite a  proteggere dalla galera un signore che ha spadroneggiato nell’ultimo quasi ventennio di storia italiana, avendo un giorno l’ardire, in visita alla Guardia di Finanza, di giustificare l’evasione fiscale, era il 2004, dicendo che con tasse troppo alte ci si ingegna di evadere!
In realtà, questa triste commedia su cui si è chiuso recentemente il sipario, ha una storia antica, se è vero che già negli anni Venti dell’Ottocento Giacomo Leopardi in una luminosa operetta sui costumi degli italiani (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani) ne vedeva nella totale assenza di etica pubblica, in confronto a francesi o inglesi, il tratto distintivo. Per non dire che il discutibile processo di unificazione italiano, troppo celebrato lo scorso anno per coprire la sua incompiutezza, ha prodotto soprattutto nel Sud (ma come dimenticare quel triste fenomeno del leghismo anch’esso agonizzante) sacche di resistenza allo Stato che sono state brodo di coltura di manovalanza criminale e, più in generale, di un diffuso senso di illegalità?
E, dunque, dobbiamo rassegnarci doppiamente? Accettare che l’illegalità non avrà mai fine, da una parte, e dall’altra rassegnarci al fatto che, essendo lo statuto stesso della legge problematico, non è possibile trovare criteri assoluti che possano essere veicolati a tutti i membri di una comunità? Perché, in realtà, questo è il nodo più spinoso della questione… Se l’attivismo della società civile, la denunzia dell’opinione pubblica, l’azione repressiva della magistratura sono necessari ma non sufficienti, il problema che stiamo ponendo è un problema di cultura, un problema di civiltà:

«Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni». È sempre il recanatese del libriccino succitato.

La lex non basta, è necessario l’ethos. Ma anche qui troviamo solo problemi. Infatti, il nostro è il tempo della società “liquida” (la definizione celeberrima è di Bauman) o “dell’incertezza” (la definizione è di Beck). Nell’uno e nell’altro caso, l’accento dei sociologi cade sul dissolvimento di quelle certezze che costituivano il mastice, il collante delle comunità in epoca premoderna ma anche nell’epoca della modernità “solida”. Insomma, la modernità ha creato “individui” absoluti, sciolti da qualunque vincolo comunitario che non fosse scelto liberamente, e, dunque, sciolto anche da “valori” condivisi”. La Dichiarazione dei diritti dell’89 e la morale kantiana sono il più grande monumento all’individuo moderno, artefice del proprio destino. Ma proprio questa liberazione dell’individuo ha posto le basi per quella liquefazione dei valori condivisi che l’era postmoderna ha manifestato in tutta la sua drammaticità. Io, docente nelle scuole italiane, che tipo di “valori” dovrei veicolare, attraverso le mie discipline ai miei studenti? E se non è compito della scuola questa “trasmissione”, chi se ne fa carico, nel momento in cui la stessa famiglia scricchiola o, meglio, si liquefa? Il mercato?
Ricapitolo: è problematico stabilire cosa sia legge e cosa sia la legalità; non sempre obbedire alla legge è buono e disobbedire è cattivo; in ogni caso, non sappiamo quali agenzie debbano trasmettere i valori del rispetto della legge. Siamo ad un impasse.
O meglio: siamo in grado di capire che il problema della legalità, come quello più in generale dei cosiddetti valori, è un problema che ha a che fare con l’intera configurazione di una civiltà.
Non vorrei ripetere cose che oramai mi ritrovo a dire spesso in contesti diversi. Noi siamo nel cuore di una quadruplice crisi, che è, dunque, crisi sistemica: economica, energetica, ecologica e psichica. Gli intellettuali organici ai grandi potentati economici hanno buon gioco nel mostrare di volta in volta un aspetto di questa crisi, illudendo che se ne possa uscire attraverso aggiustamenti dell’uno o l’altro aspetto. No, da questo tempo di crisi uscirà una nuova civiltà. Ebbene, questa civiltà sarà molto diversa da quella plasmata dalla modernità, dall’individualismo. Sarà la riscoperta della nostra essenza comunitaria, non una regressione alla società “chiusa”, ma la consapevolezza che l’uomo non è una monade e che il radicamento comunitario, come insegnava profeticamente Simone Weil negli anni Quaranta del XX secolo, è un bisogno primario. Solo la ricostruzione della comunità, e dunque, la possibilità della trasmissione “esemplare” dei valori, tra cui il rispetto della legge”, può portarci fuori dalle secche della modernità solida e liquida.
Nel 399 a.C. il tribunale ateniese condannò Socrate alla pena di morte con la ridicola accusa di aver introdotto nuove divinità e di corrompere i giovani con il suo insegnamento. Socrate, che avrebbe potuto emigrare in altra città prima del processo, patteggiare una pena più mite, addirittura fuggire dal carcere, avendo i suoi facoltosi discepoli corrotto le guardie, accettò il verdetto. Bevve la cicuta e morì dandoci un modello straordinario di “buona morte”. Ma egli ha testimoniato prima di tutto di una vita ben spesa, dedita alla ricerca (quindi al pensare con la propria testa) ma nel rispetto della comunità di cui si è naturalmente o per scelta parte. Nel Critone è descritto in pagine altissime come egli immagini che Le Leggi e la Città tutta, nell’atto di fuggire, gli si parino davanti e gli chiedano conto del suo gesto. «Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?... O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?». La Città ha emesso una sentenza ingiusta, ma non rispettare le Leggi distrugge il fondamento stesso della vita civile.
«Non ti abbiamo dato noi la vita, tanto per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e ti ha generato? […] Con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti gli antenati, e più sacra, e più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dèi e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre?». A questo dobbiamo tornare: il futuro ha un cuore antico.

Per chiudere con uno slogan: legali per crescere ma perché legati cum-munus o, per dirla con Morin, complexi, tessuti insieme.

(Intervento tenuto a San Nicola Manfredi il 19 maggio 2012 in un convegno dedicato al tema della legalità)