lunedì 14 gennaio 2013

"In quieta ricerca" XVII

Gentile Nicola,
sono Sara.
Ho acquistato il libro In quieta ricerca il giorno stesso della sua presentazione: passeggiavo per Benevento e tra un angolo e l'altro, protetto tra piazzette e rientranze del centro, mi sono affacciata al teatro. Ero attirata dagli affreschi che si intravedevano dalla porta spalancata, dove si sarebbe tenuta (ma ancora a mia insaputa) la presentazione del libro (alla quale però non ho partecipato per continuare il mio peregrino attraversamento della città). Il giorno dopo sarei ripartita per Bari.
Ho iniziato a leggerlo con gusto: i polmoni del mio cuore e del mio pensiero respiravano felici.
Da quasi subito è stato avvincente e convincente (convincente per il movimento indagativo ed etico, vibrante complesso e persino toccante al cuore).
Non solo ha affrontato autori di estesa sensibilità nell'animo e nell'intelletto, ma ha riunito alcuni nodi cruciali. Accanto alle meticolose analisi, ha lasciato in "eredità" a me lettore:
- la sintesi (non affatto riassuntiva) della ricerca di ciascun autore presentato ed il suo senso più intrinseco;
- il confine (nei molti autori) tra grandezza dell'ingegno filosofico scientifico e l'umile/profondo abbandono al Mistero divino. Un afflato delicato che “anima” la ricerca turbolenta e incontenibile delle vivide menti in cui alla sete legittima di sperimentazione congettura interpretazione e conoscenza si affianca il sentore di un'antica Armonia, pulsante silenziosa ma infinta, talvolta difficile (che prende poi Nome), e che dirige anche ad un dialogo con Essa;
- la ricerca di una forma di Bene che tenga conto di quell'armonia grande e immensa, con rigore pur senza rigidità;
- la volontà e la speranza di ribaltare e rivoluzionare le cose, di andare oltre; e il non-essere-passivi ma consapevoli e impegnati, responsabili di scegliere e operare nel discernimento, può al contempo combinarsi con l'accettazione e l'abbandono al Mistero e all'"evento";
- tutta la Poesia che c'è nelle sue pagine, accanto a delicatezza, attenzione vellutata e accorta precisione;
- l'elegante ma schietta lineare forma di scrivere, nell'analisi relativa agli autori proposti, con cui smonta/rimonta e lascia svelare uno strato interno della ricerca filosofica che è l'amore per la sapienza (come suggerisce l'etimologia stessa), sotteso alla visione e alla vita di quegli autori;
- una panoramica unitaria sulla struttura moderna e contemporanea del pensiero -filosofico scientifico creativo - dove Scienza, Conoscenza (e Fede) vengono posti in conflitto non sempre in un rapporto corretto e “speso bene” ma dove per taluni si avvicinano, per unirsi insieme all'insegna della medesima finalità: sottostare al rispetto dell'integrità e dignità dell'Essere Uomo, non finito, non predeterminanto e non solo materico.
Ho apprezzato le sue riflessioni sulla Storia, sulla costruzione e revisione (possibile) del Mondo, sulla Spiritualità, sul rapporto tra sé e le tradizioni di appartenenza pur riconoscendosi il diritto di ricerca o di differenza.
Ho alcuni interrogativi su punti per me poco chiari con possibili discordanze da parte mia (che naturalmente non mettono in discussione la stima e il rispetto che ho provato per lei, il suo libro e il suo cammino). Per esempio: non ho ben capito cosa intende quando dice a p. 150 che bisogna liberarsi dal giogo della tradizione platonico-cristiana per attraversare la morte, perché non siamo padroni di nulla.... A me, però, il Cristianesimo consegna l'idea che nulla è nostro. Quanto alle “verità” ho da pensarci su ancora. I fondamentalismi non fanno presa su di me (e vorrei ben guardarmi da questo) ma di certo al contempo esistono per me delle rivelazioni. Trovo vicino, intanto, quello che dice a p. 118: «Ho ferma convinzione che la mia ricerca non avrà mai fine e che, dunque, la conversione sia permanente, sia impresa quotidiana e rimanga sempre innanzi a noi». E il resto circa le due certezze: una docta ignoranza su alcune questioni e il superamento della contrapposizione tra materia e spirito.
Io intanto proseguo il mio cammino. Chissà se avrò modo un giorno di conversare con lei.
In quieta ricerca: ho apprezzato moltissimo anche il titolo. Come in moltissime parti del testo ho trovato punti di coincidenza con il mio sentire mentre in altre “incitazioni” a nuove prospettive di riflessione, nuovi spunti o argomenti da me sconosciuti, così anche nel titolo ho ritrovato qualcosa di caro. Un suono importante in cui inizio a rispecchiarmi proprio da un po' di tempo, in seguito a nuove strade sorte in me e nel mio percorso (di studio, di pensiero e umano).
Non oso immaginare se siano congruenti con il lavoro suo, cioè con “l'immagine”, la Realtà del suo testo. Potrei anche esser andata lontano dalle aspettative dei suoi propositi "comunicativi". D'altra parte, il mio è stato qui solo un accenno di quel che si è mosso o è stato recepito dentro di me. In ogni caso, avendo avuto l'occasione di leggerla nonché di incontrarla di persona - con uno scambio veloce di impressioni e parole- per autografare il libro da me acquistato, mi son sentita di esprimerle le mie osservazioni e, certo, di farle sapere "di persona" che è stata lieta e utile lettura.
Un carissimo saluto
sinceramente
Sara JL. P

sabato 12 gennaio 2013

guarda i muscoli del Capitano


Sono nato nel 1967, e ancora non mi rassegno ad appendere le scarpette al fatidico chiodo... Accetto ancora le sfide dei miei alunni, li inseguo nel campo, anche se, come dice il mio amico, ex calciatore, Filippo Milano, noi ogni anno siamo più vecchi e loro hanno sempre la stessa età. Per tenermi in forma vado a correre o vado in bici, in certi periodi anche tutti i giorni. Quando ho voglia di mollare un pensiero luminoso sostiene il mio respiro affannato, le gambe pesanti: «Guarda i muscoli del Capitano».  È un ragazzo che ha appena sei anni meno di me, essendo nato nel 1973. Si chiama Javier Zanetti, ma noi interisti lo chiamiamo Saverio o, meglio, il Capitano o “El Tratur”, perché nessuno lo può fermare quando parte. Emblema in tutto della sua, della nostra squadra, è una “sincronicità” fatale che, alla fine di una stagione da incubo, con almeno quindici giocatori passati in infermeria per infortuni più (Milito, Nagatomo, Obi) o meno (Palacio, Cassano), si infortunasse anche lui, che non ha mai tirato il fiato, mai risparmiato i muscoli e le articolazioni. Tornerà, lo sappiamo, per giocare almeno un’ultima partita davanti al “suo” pubblico, alla sua curva. Lui, che ha incarnato, nel bene e nel male, l’ultimo ventennio interista.
Zanetti arrivò all’Inter nel 1995. Da pochi mesi Massimo Moratti aveva rilevato la società da Pellegrini, con l’intento di riportarla agli antichi fasti del padre Angelo, legato alla mitica Inter di Herrera. L’allenatore era Ottavio Bianchi. L’argentino, primo di una lunga serie di connazionali che avrebbero fatto molto tempo dopo la fortuna del Presidente, accompagnava, in realtà, quasi come omaggio, quello che avrebbe dovuto essere il vero campione, “Avioncito” Rambert (destinato, invece, a scomparire senza lasciare traccia).
Rivedo a volo d’uccello questo quasi ventennio... C’è il suo goal, bellissimo, alla Lazio, nella finale di Coppa Uefa. Uno dei suoi rarissimi tiri. Era l’Inter di Simoni, allenatore rimpianto da molti di noi. Un errore esonerarlo. Ma l’interismo è nel suo dna la follia. Non è una squadra per cardiopatici. Le canzoni dedicate alle squadre di solito sono ignobili, ma «amala, pazza Inter, amala» coglie l’essenza stessa della fede nerazzurra. Noi amiamo la squadra e le sue icone per la sua follia. Eppure Zanetti sembra incarnare tutt’altro, sembra essere stato, in questo quasi ventennio, una sorta di ancoraggio che ha evitato il disastro, l’inabissamento. Insomma, mentre l’Inter si invaghiva di brasiliani e gitani che le avrebbero spezzato il cuore, lui restava lì, «sempre lì», spalla su cui piangere per gli addii di Ronaldo o di Ibra, falcata serena, capello scolpito, vita tranquilla senza eccessi né veline. È come se, per contrappasso, il simbolo dell’Inter fosse privo di tutte le caratteristiche “genetiche” della sua squadra. Un alchemico bilanciamento, segreto contro la deflagrazione cui gli eccessi di “follia” l’avrebbero destinata.
L’interista di lungo corso sa che le soddisfazioni sono poche, spesso distanziate nel tempo. Io ricordo vagamente lo scudetto di Bersellini, bene quello del Trap e dei tedeschi, bene le Coppe vinte, ma, soprattutto, il filotto Mancini-Mourinho e il Triplete. Quando brilliamo lo facciamo con un’intensità accecante. «La candela che splende il doppio del suo splendore, brucia in metà tempo». Questo in fondo stiamo pagando. La Juventus è una squadra “fordista”, perfettamente pianificata. Ma inevitabilmente “in bianco e nero”, senza voli, senza fronzoli, senza utopie.
Zanetti era in campo in quel “dies alliensis” in cui vedemmo le lacrime di Ronaldo e impietriti ci vedemmo sfilare uno scudetto già pregustato dopo tanti anni. E, con l’ostinazione degli umili, riprese a correre ogni giorno, facendo i suoi venti chilometri, dopo gli allenamenti di gruppo. Il lavoro fatto, lo dico sempre ai miei alunni, non va mai perduto. E quello che è venuto, dopo la scoperta di Calciopoli, grazie anche ad acquisti intelligenti, un allenatore dotato, un altro straordinario e mai troppo rimpianto, ha risarcito tutti noi di quanto patito, anche il 5 maggio. Ma soprattutto ha risarcito il Capitano, dandogli, con gli interessi, tutte le soddisfazioni di cui era stata avara la vita con lui, calcisticamente, pensando anche ai disastri ripetuti della nazionale argentina, che pure sulla carta dovrebbe essere una delle più forti del mondo. Madrid fu un compimento di molte vite. Della sua sicuramente ma anche di quella di Moratti, finalmente degno della pesante eredità paterna. E le nostre lacrime furono, finalmente, di gioia. Quello che né noi né Moratti capimmo fu che si trattava, appunto, di un compimento, dunque di una fine, illudendoci, invece, che fosse l’inizio di un lungo ciclo. E stiamo ancora a pagare quell’errore (giustificabile) di percezione.
L’anno prossimo, realisticamente, non ci sarà più nessuno degli eroi di Madrid. Il grave infortunio al Capitano, dopo quello a Milito, gli acciacchi ripetuti di Samuel e Chivu, la stanchezza di Cambiasso suggeriscono di chiudere definitivamente con quel passato che ci mette i brividi, ben sapendo che, forse, nessuno di noi potrà rivedere tale splendore un’altra volta nel corso della propria vita.
Javier Zanetti resterà per molti anni un simbolo atipico. Diventerà dirigente, continuando a trasmettere la sua “positività”, che sa essere generosa. È uno dei pochi giocatori con cui mi piacerebbe parlare non solo di pallone. E noi interisti, ora tristi, continueremo a guardare a lui come ad un’ancora che impedisca la deriva alla “nave dei folli”.

Non dico al Capitano di tornare presto. Perché non è mai andato via. Mancherà maledettamente su quella fascia destra. Ma è ora di salpare per nuovi lidi con la nostra nave che è «guerra, lampo e poesia».

(Apparso in «Area di rigore» nel gennaio 2013)