mercoledì 19 maggio 2010

elogio di Mou


Il calcio reale e il calcio ideale

Conosco quasi tutte le possibili obiezioni e critiche a questa riflessione, e una parte la condivido. Il calcio è parte integrante del capitalismo contemporaneo, per certi versi ne è l’emblema, tra costruzione coatta dell’immaginario televisivo e stipendi miliardari. Immaginiamo per un attimo di parlare, però, del calcio al suo livello “ideale”, forma pura dello sport, sintesi di agonismo, gioco di squadra, talento individuale.  

Un giorno per caso… l’Inter 

Ho iniziato a tifare Inter per caso. Mio padre mi regalò un completino dell’Inter: maglia nerazzurra, calzoncini neri, calzettoni spessi di lana nerazzurri. Fu una grande emozione per me. Mio padre non amava il calcio e lo sport in genere. Non so neanche perché lo fece. In ogni caso, come spesso accade, segnò un destino. I miei primi ricordi da interista sono legati agli album Panini: Lido Vieri, Muraro, Pasinato, Oriali, Beccalossi… Ricordo molti pianti per eliminazioni dell’Inter in coppa. Essere interista ha significato patire per molti anni più che gioire, soffrire un apparentemente irrimediabile complesso di inferiorità rispetto al blasone della Juventus, alla sua forza serena, e poi alla grandezza del Milan berlusconiano. Anni grami. Interismo viene giustamente corretto, scrivendo in word, automaticamente in “isterismo”. Parole comunicanti per tanti, troppi anni, con l’unica parentesi della formidabile Inter di Trapattoni, l’Inter teutonica, con un immenso terzino sinistro (Brehme) e uno straordinario centrocampista universale, Lothar Mattheus, con il cui nome sulla schiena vorrei chiudere la mia lunga carriera di calciatore dilettante. Poi ancora buio, solo il raggio di sole della coppa Uefa vinta con la Lazio, l’indicibile amarezza del 5 maggio, dies alliensis, le lacrime di Ronaldo che erano di tutto un popolo tradito all’ultima curva. Poi accadde l’inatteso: scoprimmo con stupore, pur avendolo in fondo sempre saputo, che per molti anni il gioco era stato truccato da una cricca di delinquenti matricolati, i quali condizionavano le partite attraverso il capillare controllo dei designatori arbitrali e degli arbitri stessi. Vedemmo gli avversari di sempre nella polvere e nell’ignominia. Fu parziale risarcimento di tanto sangue amaro. Iniziò un’altra storia, che per me coincise (segno straordinario) con la nascita di mia figlia. Quella storia continua ancora: mia figlia cresce serena, l’Inter è diventata la squadra da battere del campionato italiano. Il merito di tutto ciò va alla società, ai tanti soldi del petroliere Moratti (c’è sicuramente un rapporto tra le vittorie dell’Inter di quest’anno e il costo della benzina, inutile negarlo), all’abilità di persone come Branca e Oriali, per anni considerati dei “pirla”, che hanno preso Cambiasso a parametro zero e Maicon prima che esplodesse, ad esempio, costruendo una squadra praticamente perfetta. Squadra guidata da un bravo tecnico, Roberto Mancini, che ci ha regalato tanto: due scudetti, soprattutto, ma incapace di assurgere a rango europeo. 

L’uomo di Setubal 

Con un colpo di scena tipico della sua gestione, Moratti lo scorso anno sostituì Mancini con Josè Mourinho, fascinoso allenatore portoghese, vincitore della Champions con il Porto, finalista con il Chelsea, con il quale aveva vinto due Premier League. Lo scorso anno l’uomo di Setubal allenò una squadra non costruita da lui, avendo fallito nell’innesto di due uomini nuovi (uno fortemente voluto e profumatamente pagato), Quaresma e Mancini, e sacrificando ad un nuovo modulo (4-3-3) il piazzamento nel girone di qualificazione della Champions. Vittoria tranquilla dello scudetto, amarezza per l’eliminazione con il Manchester di Cristiano Ronaldo. Quest’estate la rivoluzione: cinque nuovi giocatori acquistati anche grazie allo scambio proficuo con il Barcellona tra Ibrahimovic, demiurgo dell’Inter manciniana, ed Eto’o. Con i soldi di differenza tra i due, tanti, sono stati presi: Milito, Thiago Motta, Lucio, Snejider e, a gennaio, Pandev. Tutti innesti decisivi per l’Inter che avrebbe vinto Coppa Italia, scudetto e giocato la finale di Champions con il Bayern, dopo aver eliminato Chelsea e Barcellona, poi vincitrici di Premier e Liga spagnola. Mourinho è un alieno nel mondo del calcio. Voglio tesserne l’elogio prima della finale e della sua molto probabile partenza dall’Inter. Una volta ha dichiarato: «Chi capisce solo di calcio non capisce niente di calcio». Mi basta per definire l’anomalia di un personaggio in un mondo autoreferenziale, abitato da icone “ignoranti” e fiere della loro ignoranza. Il calcio italiano è Francesco Totti, la sua ruspante simpatia, immemore di libri, di poesia. Ebbene, Mourinho, contro questo stereotipo sia della visibilità mediatica che dell’ignoranza rivendicata quasi a mo’ di valore, ha affermato quasi con durezza un’altra immagine del calcio: duro lavoro, studio meticoloso, cultura. Si è presentato, lui già poliglotta, alla prima conferenza con uno spumeggiante italiano che farebbe invidia ad allenatori italianissimi e al loro vocabolario stitico. Ha coniato frasi entrate nell’immaginario di questi anni: da “zero tituli” a “prostituzione intellettuale”. Ha sempre provocato con intelligenza e raffinatezza i suoi avversari, senza mai essere volgare. Ha denunziato dei limiti evidenti del nostro calcio, soprattutto il suo legame con i potentati economici che lo rendono poco autonomo nei giudizi. Questo gli ha creato fama di grande comunicatore, facendo passare in secondo piano la sua abilità di allenatore, di psicologo, di preparatore atletico e di tattico. L’Inter è uscita rinata dalla cura Mourinho: è diventata squadra, prima di tutto, senza prime donne, capace di sacrificio. È stato emozionate vedere Eto’o, candidato al Pallone d’oro, Leone d’Africa, due volte vincitore della Champions, fare il terzino sinistro in alcune partite. Questo lo può ottenere solo chi viene seguito con assoluta fiducia dai suoi uomini. È paradossale, ma Mou è riuscito a trasformare venti campioni in una squadra fondata sul mutuo soccorso. E tutto questo è accaduto senza che mai si parlasse della sua vita privata. Tutto l’opposto di quanto accade nel calcio italiano. Per tutti questi motivi, al di là dell’esito di sabato – prima finale per intere generazioni di interisti come la mia – noi dobbiamo riconoscenza a quest’uomo. Non solo noi interisti, evidentemente, ma tutti coloro che in Italia amano il calcio. Coniugare lo sport con la cultura (chi citerà più Sartre in una sua polemica?), con modi fermi ma sempre civili è cosa rara in un paese sguaiato e plebeo come l’Italia, dove l’ignoranza viene spacciata per spontaneità. Mourinho, infine, nei modi in cui ha gestito il caso Balotelli, bambino viziato aspirante al ruolo di stella, ha data una grande lezione di pedagogia applicata a educatori e genitori. 
Il calcio italiano, da domenica, sarà più banale, più rozzo, più ignorante. Ci mancherà, mi mancherà.