lunedì 29 marzo 2010

rapide della tristezza (Celan)

Attraverso le rapide della tristezza,
sfiorando
il nudo specchio delle piaghe inferte:
lì si fanno fluitare i quaranta
tronchi di vita
scorticati.
Unica tu, nuoti
controcorrente, tu
li conti, li tocchi
tutti.

La tristezza è come un fiume che va verso le sue rapide e le sue cascate. Acqua. Noi siamo in queste rapide o le guardiamo dall’alto? E chi sfiora lo specchio delle piaghe? Le piaghe non possiamo vederle direttamente ma solo in uno specchio. È il fiume stesso questo specchio che permette di vedere le piaghe inferte? E sul corpo di chi? Ci sono quaranta “tronchi”, quaranta corpi scorticati nel “fiume” della mia tristezza. Io penso a quaranta corpi di uomini scorticati. E questo pensiero mi intristisce al punto che debbo contemplare le loro ferite nello specchio d’acqua e non direttamente. Ma tu, amica, anima mia, mistagoga, guida, tu, che non ti lasci trascinare dalla corrente della disperazione e della tristezza li conti e li tocchi, eserciti pietosamente la misericordia che si deve ai defunti. Non solo non distogli lo sguardo ma addirittura, oltre a guardarli nelle loro ferite, li carezzi, te ne prendi cura anche se essi sono oramai tronchi privi di vita, scorticati.

domenica 28 marzo 2010

a nord del futuro...


Nei fiumi a nord del futuro
io lancio la rete che tu
esitante aggravi
con ombre scritte
da pietre.


(Paul Celan, Atemwende, Svolta del respiro)

Lanciare la rete per cosa? Per catturare i pesci… I pesci sono simbolo di rinascita, di un’altra vita. Io, dunque, mi slancio nel futuro, più in là però di quello prossimo, a nord del futuro. È un futuro eonico non cronologico. Ma tu esiti, tu non sei con me in questo slancio, non condividi la necessità di uno sguardo che osi l’oltranza, l’utopia, la profezia. Io, dunque, sono solo. La condizione del poeta/profeta è la solitudine. Tu parli, e le tue parole sono oscure, minacciose, prive di luce, ombre prive di vita, pesanti, contro la grazia che sarebbe necessaria a slanciarci nel futuro remoto per catturare il pesce guizzante della rinascita, della vita nuova.
Ivan Illich amava molto questa poesia. Campeggia come epigrafe di una serie di interviste uscite postume (I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Verbarium - Quodlibet). Scrive il curatore nell’introduzione: «Il futuro, essendo un idolo, divora quell’unico momento in cui il cielo s’incontra con noi: il presente. L’aspettativa cerca di forzare il domani; la speranza dilata il presente e prepara un futuro, a nord del futuro». È ciò che, nel Meridiano, è chiamato U-topia? Quindi questo testo partecipa di quella “ricerca topologica” le cui cartine esistono solo in sogno, in un sogno.

sabato 27 marzo 2010

roso da sogni (Paul Celan)



Roso da sogni
non compiuti, per tracce
insonni percorso, il paese del pane
fa montare
il monte della vita.
Tu dalla sua briciola impasti
i nostri nomi un’altra volta, 
io li vado tastando – ad ogni dito
un occhio che il tuo somiglia -,
e cerco un varco
perché a forza di veglie
io possa giungere a te, in bocca
l’asta chiara: la candela
della mia fame.

(Paul Celan, da Atemwende, Svolta del respiro)

Certezza che queste poesie dicano cose molto importanti, geroglifici da decifrare, sostitutivo, unico possibile di preghiere non più pronunciabili. 
Ci sono sogni non compiuti che “rodono”, scavano dentro l’anima. E se si compissero smetterebbero di angosciare? Ci sono tracce che vanno seguite, sacrificando alla ricerca il sonno. Esse conducono al paese del pane che sorge sul monte della vita. Basta una briciola di quel pane, di quel nutrimento per impastare di nuovo – come Dio fece con il fango per Adamo – i nostri nomi. Chi è il tu di questa poesia? È forse quel Dio così risolutamente negato, il Dio che sorge dal Nulla? I nostri nomi vengono impastati un’altra volta, di nuovo. E continua la queste di un varco che consenta di giungere, vincendo ancora una volta il sonno, quel “tu” evocato, invocato, portando nella bocca un asta, una lancia non più assassina ma luminosa, una candela che testimonia la fame di pane, la fame di vita…

giovedì 25 marzo 2010

musica...

È il primo anno che insegno italiano ad una classe, pur avendo studiato, in fondo (ma tanti, tanti anni fa…) per questo. Ed è, dunque, il primo anno che leggo “temi” dei miei alunni, pur avendo fatto praticare in passato forme di scrittura molto personali anche nelle ore di filosofia. Leggere un tema è un peso e un privilegio. Al di là del senso di monotonia che talvolta sopravviene, naturale, ci sono folgorazioni, illuminazioni sulle anime, le attese, le paure degli adolescenti che ci vengono affidati dal caso. Quando ho postato la traccia sulla musica sul mio profilo Facebook diversi amici hanno commentato in senso positivo. Sono contento di aver scelto un taglio del genere, è stato un momento importante di verifica del mio lavoro ma anche delle mie passioni. Perché io, come Nietzsche, credo che il mondo senza la musica sarebbe un errore e, recentemente, ho scritto che immagino il Paradiso, dantescamente, come luogo di delizie acustiche, di canti celestiali, con una netta preferenza per le musiche d’organo di Bach. Non è casuale che nelle giornate di cogestione dedichi delle ore alla musica o quando vado a sostituire faccia ascoltare De Andrè piuttosto che Dylan. Non è casuale, infine, che in un’altra classe abbia fatto ascoltare e vedere integralmente il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte. «La musica, misteriosa forma del tempo»… Un verso che risuona spesso nella mia mente, di un grandissimo poeta argentino, Jorge Luis Borges. La musica forma del tempo… Ho letto con grande interesse i lavori dei miei alunni. Uno solo, eroico, ha svolto la traccia letteraria, con ammirevole rigore che ripaga di lezioni dedicate ad un momento misconosciuto della cultura italiana, la Commedia dell’Arte. Nessuno, e questo è certo speculum temporis, ha avuto l’ardire di affrontare la traccia di attualità, dedicata alla corruzione dilagante nell’organismo sociale e politico italiano. Si sono dati tutti alla musica, colti da ebbro spirito dionisiaco, come scriverebbe Mario, il mio alunno dannunziano e barocco. Cosa mi ha colpito di queste pagine? Sicuramente la pervasività della musica nelle loro vite. E poi? Poi, in negativo, l’appiattimento – con rare eccezioni – sul presente o sul passato prossimo a livello di gusto. E mi ha fatto tenerezza l’angoscia che trapelava dalle pagine di Raissa per l’incapacità di comunicare la bellezza della musica cosiddetta “classica” ai propri coetanei. Un altro elemento che mi ha colpito, anzi quello che mi ha spinto a queste riflessioni scritte, è l’idea, condivisa da molti, che la musica sia prima di tutto espressione di sé. Pensavo: ma che fine fanno tutte quelle composizioni, ad esempio rituali, che nulla hanno a che fare con l’interiorità dell’artista? Le musiche bandistiche o celebrative, le musiche marziali, gli inni nazionali… Ancora una volta mi sono reso conto di quanto un malinteso romanticismo abbia fatto danni in tutte le arti, inducendo a credere i più che l’arte sia una manifestazione dell’anima del “genio”, dell’artista… La musica, mi dico, è nelle cose… E, forse, l’idea pitagorica e platonica, ripresa da Dante, dell’armonia delle sfere celesti poteva aiutare a superare questa idea soggettivistica… Da questo appiattimento ne è derivato un altro, pure molto diffuso: e cioè l’idea che la musica oggi abbia valore solo se accompagnata da parole significative… Molti dei ragazzi hanno scritto che per loro sono fondamentali quei “versi” (di Vasco, Ligabue, i più citati…). Ma, allora, mi dico, che senso ha la musica senza parole? Mi rendo sempre più conto che, in realtà, la musica soddisfa due bisogni. Il primo, suo proprio, è quello di parlare un linguaggio non verbale, capace (mi è piaciuta l’evocazione di Orfeo in uno dei temi, molto suggestiva) di smuovere piante e animali, di far vibrare il nostro corpo, spingendolo alla danza, come accade ad Alessia o a Martina sul palco. Ma le canzoni italiane per i più o in inglese ben comprese soddisfano il bisogno connaturato all’adolescenza di poesia. Questo pensiero si intreccia, in un cortocircuito casuale ma non troppo, con la riflessione offerta ai ragazzi di III F, sul senso odierno della poesia. Quasi nullo, oserei dire. L’uomo ha bisogno di poesia, e oggi la cerca nei testi dei cantanti. Di qui l’invettiva di Mario. Ma ci sarà una ragione in questo. Cosa deve suggerire a noi docenti questa naturale scelta dei ragazzi, questo loro affidare l’espressione della loro anima ai versi delle canzoni? Questo elemento ricorre in quasi tutti gli scritti: “è come se fosse entrato dentro di me”, scrivono; “è come se avesse letto nel mio cuore”. E per me la musica cos’è? Sicuramente un’arte, forse la più elevata. Schopenhauer diceva che la musica è la voce stessa del mondo. All’età dei miei alunni avevo gusti ristretti, anch’io ostaggio delle major e delle radio… Ricordo gli hit dell’epoca che oggi mi fanno sorridere. Però per caso scoprii Bach e iniziai ad ascoltare la musica “colta”. All’università mi aprii, iniziai avidamente ad acquistare 33 giri e storie della musica, ricostruendo le vicende del rock dagli anni Cinquanta ad oggi. Oggi sul mio hard disk da un tera nella benedetta forma dell’mp3 trova spazio quasi tutto quello che è stato prodotto dal Medioevo ad oggi, con una preclusione personale ingiustificata verso il jazz. Quello che dico sempre ai ragazzi è: siate curiosi, la tecnologia oggi vi mette in condizioni che nessuna generazione del mondo e di alcun tempo ha mai avuto, conoscere ogni forma di espressione musicale, di ogni etnia. Ogni evento, dunque, ogni momento della giornata può avere il suo respiro, il suo ritmo… E, dunque, ringrazio ancora, come Borges, il divino creatore del cosmo per le nenie sussurrate a mia figlia, il cui viatico al sonno è sempre la musica, per Pachelbel e il suo canone, per il suono maestoso dell’organo e la dolcezza struggente dei violini, per la chitarra di Jimi Hendrix e la voce di Janis Joplin, salvi malgrado la loro perdizione, per la musica di ogni tempo, misteriosa forma del tempo.