martedì 20 maggio 2008

poesia del calcio


Domenica, dopo pranzo, ho staccato il telefono e il cellulare, spento il televisore. Ho dormito con mia figlia. Quando ci siamo svegliati, mi sono affacciato ripetutamente cercando un segno: delle vele neroazzurre che mi dicessero che la mia squadra ce l'aveva fatta, contro i miei cupi presentimenti, ancora segnati da un ferale 5 maggio. Niente. Tutto taceva. Ho acceso il televisore e ho visto scattare la panchina in segno di gioia. Da non credere.
Sono tifoso dell'Inter dall'età di cinque o sei anni. Almeno così credo di ricordare. Mio padre mi regalò un completino che è infisso nella mia memoria, con i calzoncini neri. Fu il caso, dunque, a decidere, perché mio padre non amava il calcio. Da allora la passione per questa squadra ha accompagnato la mia vita con gioie (pochine fino a qualche anno fa) e delusioni (moltissime).
Il calcio - anche quello praticato con sempre più problemi fisici - è il legame simbolico con un altro tempo della mia vita ma anche con un altro modo d'essere. E' la possibilità di regredire verso l'indistinto dell'appartenenza, la dissoluzione della mia individualità quasi sempre controcorrente nel fiume tranquillizzante del gruppo.
So bene che il calcio odierno è pieno di corruzione. Che gli uomini che girano in quest'ambiente sono povere persone troppo ricche e molto corrotte. Che i presidenti delle squadre sono emblemi di quel capitalismo di cui mi auguro la fine ogni giorno. Eppure...
Eppure la pura passione del tifoso per la propria squadra, le sue lacrime e le sue grida di furore sono un potenziamento della vita a cui non potrei rinunciare.
Eppure gesti atletici come il goal di Ibrahimovic, il goal di Vucinic, il goal di Osvaldo hanno il potere di far passare in secondo piano tutto il marcio del calcio, gesti fuori dal tempo, pura poesia, come Pasolini ben sapeva.

domenica 11 maggio 2008

un Dio debole


La sera, prima di coricarmi, prego. Ringrazio Dio per i doni avuti. Ieri sera, per esempio, pensavo alla morte, a quando morirà un caro amico e andrò sulla sua tomba. E questo pensiero triste ha evocato tutte le grandi gioie della mia vita, che non potrei mai elencare tutte (forse un giorno lo farò, come Borges). E poi pensavo al Dio debole e fragile cui mi rivolgo, il Dio che ha rinunciato, creandoci, alla sua onnipotenza, facendo di noi cooperatori nella storia della salvezza del mondo (idea formatasi nel confronto con le tragiche riflessioni di Quinzio e quelle più pacate ma profondissime di Jonas). E, recitando il Pater, sentivo oscuramente come quei congiuntivi esortativi siano la profonda verità di questo Dio: «Sia fatta la tua volontà, venga il tuo regno...». Il crocifisso per me è il simbolo di questo Dio. Ma allora, mi dico, la mia fede non si fonda sulla resurrezione del Cristo. Non si fonda sul Cristo. Un Dio debole annunciato da un profeta che nella sua crocifissione testimonia come Dio stesso penda dal tempo della creazione dall'albero della vita e della morte, e affidi a noi la sua e la nostra salvezza!

Ripenso spesso ai versi di Caproni, del Lamento del preticello deriso:

e prego; prego non so ben dire
chi e per cosa; ma prego:
prego (e in ciò consiste
- unica! - la mia conquista)
non, come accomoda dire
al mondo, perché Dio esiste:
ma, come uso soffrire
io, perché Dio esista.


Ripeto: non perché Dio (r)esiste ma perché (D)io resista.

martedì 6 maggio 2008

la Destra e il capitale


Siamo in una fase di turbolenza straordinaria del ipercapitalismo planetario.
Molti analisti prevedono una catastrofe paragonabile a quella del 1929.
In Italia trionfano le Destre, cioè quei partiti che hanno sempre proclamato la virtù del capitalismo, del liberismo, la necessità di ridurre i lacci dell'agire economico.
Il capitalismo - Marx lo scriveva nel 1848, centocinquanta anni fa - dissolve tutto ciò che è solido: tradizioni, radicamento...
Gli esodi biblici di questi anni lo dimostrano in maniera lampante. Viviamo in non-luoghi abitati per lo più da individui monadici e sradicati (da un passato riconoscibile o da un luogo familiare).
Eppure queste stesse Destre apologetiche del capitale dissolutore (che è dunque il male da curare) in un gioco di prestigio illusionistico riescono a far credere, grazie alle problematiche securitarie ed identitarie, di essere loro la cura del male!
Tremonti parla giustamente di "paura" nel suo libro. Ma la loro risposta è ipocrita, perché non cura il male alla radice, anzi lo aggrava, aggiungendo alla paura la violenza...
Peter Gabriel cantava: «Fear she is the mother of violence»

venerdì 2 maggio 2008

Grillo e la Sinistra


Finalmente «il manifesto» con una pagina di lettere pubblicata il 30 aprile ha fatto autocritica rispetto alla posizione spocchiosa e difensiva (di casta, oserei dire) presa in questi anni sul fenomeno Grillo. Mi chiedo come sia possibile non rendersi conto che le battaglie portate avanti in questi anni dal comico genovese sono chiaramente, inequivocabilmente "di sinistra", comunque si intenda questa parola? La cecità del giornale più aperto, avanzato e plurale della sinistra italiana non la dice lunga sulla cecità complessiva della rappresentanza politica di sinistra spazzata via dalle elezioni? Certo, Grillo non esaurisce lo spettro di ciò che una sinistra dovrebbe fare, ma oggi nessun soggetto che opera "politicamente" può illudersi di sintetizzare l'agenda delle cose da fare. Ciascuno può occupare uno spazio: ebbene, come i Girotondini illo tempore occuparono lo spazio - ora vuoto - della tutela democratica, così Grillo e la rete da lui creata occupa un duplice spazio.
Il primo è quello della denuncia della "democrazia dimidiata" presente in Italia. Non ci si faccia ingannare dalle forme, dai "vaffa...", scambiandoli per qualunquismo o populismo. Grillo è rimasto l'unico, nella campagna elettorale soft, a gridare con la necessaria indignazione che l'Italia non è un paese democratico, che in nessun paese del mondo il padrone dei media in Italia potrebbe fare politica, che la legge Gasparri è un'aberrazione intollerabile. La sinistra si è limitata a rimuovere il problema, come un fastidio. La denuncia del Parlamento italiano come ricettacolo di condannati è il secondo punto di forza della sua denuncia. Anche qui, come si fa a non considerare questa una battaglia della sinistra? Come è tollerabile che il Presidente del Consiglio sia il mandante della corruzione che ha portato l'avvocato Cesare Previti in galera? Per non parlare delle battaglie ambientali contro inceneritori e nucleare, a favore di energie alternative.
Il secondo spazio occupato da Grillo, a livello metodologico, è quell'immenso territorio disertato dalla sinistra classica: la rete, con il suo blog. Grillo sta indicando una via possibile di azione politica che utilizza il mezzo più avanzato della terza rivoluzione industriale. Anche qui, come non capire che questo spazio va agito, che rompe le forme classiche dell'aggregazione politica ma offre inaudite nuove possibilità di agire collettivo? Perché tanta spocchia, tanto sprezzo per le migliaia di persone che vanno ai "comizi-spettacolo" e, attraverso la rete, agiscono, raccogliendo firme, organizzando campagne di boicottaggio o, semplicemente, informandosi in maniera alternativa, costruendo informazione? Non è scandaloso che l'oltre milione di firme raccolte il 25 aprile sia stato relegato dal «Corriere» e da «Repubblica» in un trafiletto di dieci righi? Dunque, il mio appello è iniziare la costruzione di una rete di sinistra plurale, di cui parte integrante sia questo popolo, diverso geneticamente da chi "viene" dalla Sinistra, ma inequivocabilmente vicino nei contenuti delle battaglie e, spero, soprattutto nelle forme innovative con cui svolgerle.

giovedì 1 maggio 2008

festa del lavoro?


Il Moloch contro cui dovremo combattere nei prossimi decenni, nella teoria e nella pratica, è il Lavoro, con le altre due divinità ad essa correlate, il Progresso e il Consumo. Già Jünger ne L'Operaio dava le coordinate per comprendere la radicale mutazione introdotta dalla tecnica nel lavoro e nella società del lavoro. Oggi giustamente si celebra il lavoratore. Questa festa ha senso solo se diventa la rivendicazione di un altro lavoro, integralmente umano, quello che ha a che fare con la nostra creaturalità, non con ambizioni prometeiche, quello che ci ricorda che siamo custodi e non padroni del mondo, con esso interagiamo e da esso continuamo a dipendere. Non il lavoro distruttore, non il lavoro che diventa un feticcio capace di reclamare continuamente sacrifici umani. Bisogna "lavorare" molto sulle nostre teste, dove una controfigurazione diabolica del lavoro è entrata in profondità, ha contagiato ogni ambito della vita, che deve diventare produttivo, finanche il "tempo libero".
Riprendere in mano L'uomo è antiquato di Anders, punto di partenza di ogni diagnosi del presente e progetto per il futuro.